Il girotondo fuorviante sulla questione Di Matteo-Bonafede

LODE AL DUBBIO. «Sul ministro Bonafede pesano ancora i dubbi e i silenzi sull'operato dell'ex sottosegretario Luigi Gaetti, entrato nel governo Conte I in quota 5Stelle. Sottosegretario di Salvini al Ministero dell'Interno, con delega all'Antimafia, Gaetti annoverava tra i suoi collaboratori il funzionario Giuseppe De Salvo, che nel biennio 1992-93 (quello delle stragi di mafia, ma anche dell'omicidio di Beppe Alfano e della mancata cattura del boss Santapaola) era il capocentro del SISDE di Messina e, secondo l'avvocato Fabio Repici, molto vicino a Bruno Contrada».

Il girotondo fuorviante sulla questione Di Matteo-Bonafede
Ph, fonte open.online

Il dibattito pubblico che si accende in un Paese attorno a determinate tematiche è direttamente proporzionale al livello e alla qualità dell'informazione. Se questa è scadente, misera e volgare, ne consegue che il dibattito che ne scaturisce risulti inquinato da equivoci di fondo.

Così può succedere che, per capire la rilevanza e il peso delle dichiarazioni fatte dal dottor Nino Di Matteo sulla mancata nomina al DAP (Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria), sia necessario procedere a zig-zag. Fare un po' di slalom tra la caterva di strumentalizzazioni, deduzioni poco convincenti, illazioni cavillose e affermazioni il più delle volte pretestuose. Con il solo risultato che della questione in sé si finisce per parlare poco. O non parlare affatto.

È trascorsa ormai una settimana dalla telefonata che il pm Di Matteo, oggi membro del CSM, ha fatto a Massimo Giletti, intervenendo in diretta alla trasmissione Non è l'Arena. Una settimana in cui si è detto e si è scritto di tutto, cercando di schivare le domande più scomode. Che restano lì, sospese in un quel margine di incertezza e vaghezza che è l'assenza di riflessioni serie sulla questione.

Perché, invece di rispondere a una domanda diretta e ovvia, si è preferito eludere la questione girandoci attorno, in quei labirintici girotondi semantici che tanto piacciono agli esperti dell'informazione italiana e che ad altro non servono se non a farci dimenticare l'essenza vera e tangibile della questione. Piuttosto che chiedersi perché il ministro Bonafede abbia prima proposto e poi, dopo circa 24 ore, ritirato la proposta della nomina al vertice del DAP a Nino Di Matteo, si è preferito accanirsi e vaneggiare sulle ragioni e sulle modalità che hanno spinto lo stesso PM a intervenire dopo due anni dai fatti raccontati. Perché ha deciso di parlare solo ora?

Queste sono riflessioni che possono dare adito solo a intrepetazioni, che ognuno può valutare in maniera diversa. Perché Di Matteo abbia deciso di esternare le sue perplessità oggi piuttosto che ieri o due anni fa, non possiamo saperlo. Quel che sappiamo è che i fatti erano ben noti già nel giugno del 2018, ma allora i giornalisti e gli opinionisti che si accaniscono oggi sulla questione - con le pochissime, dovute eccezioni - non si preoccuparono minimamente della cosa, impegnati semmai a screditare la figura del magitrato che aveva appena scoperchiato il magma incandescente della trattativa Stato-mafia.

Ed è proprio per questo che la maggior parte delle riflessioni che si fanno adesso sulla questione appaiono faziose e strumentali. L'ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, ormai ospite fisso della trasmissione di Giletti, chiede che venga fatta chiarezza. Lo stesso Martelli che definì Nino Di Matteo "uno stupido in malafede", la trattativa Stato-mafia "un processo che finirà in un nonnulla" e le basi investigative, che hanno poi portato alle condanne, dei "teoremi fragorosi e indimostrabili".

Ma la schiera di personaggi pubblici, politici, giornalisti e opinionisti che ieri consideravano Nino Di Matteo il pericolo numero uno e oggi si aggrappano alle sue parole per rovesciarle contro il governo, è massiccia e sconcertante. La strumentalizzazione è diventato il modus agendi con cui le forze politiche tentano di cavalcare l'ondata momentanea di sdegno e affondare il pugnale dove possibile. È solo in questa chiave, strumentale appunto, che va letta la mozione di sfiducia proposta dalla Lega e appoggiata da tutto il centrodestra nei confronti del ministro Bonafede.

Si grida allo scandalo, si parla di "collusioni" con la mafia, ribaltando il senso delle parole pronunciate dal PM, si invocano le dimissioni. Ma a farlo sono gli stessi che hanno levato gli scudi per proteggere Silvio Berlusconi dallo tsunami che le indagini della Procura di Palermo avrebbe dovuto scatenare nel panorama politico italiano. E che invece, proprio per il silenzio complice e indifferente di politica e informazione, ha solo debolmente scosso le acque senza creare una reazione consapevole e matura nell'opinione pubblica.

Si è relegata la questione a "dissidio" tra persone perbene, uno screzio tra vecchi amici. Si è parlato di "percezioni", incomprensioni, equivoci e malintesi, ma restano delle domande che non hanno ancora avuto risposta.

Perché il ministro Bonafede ha ritirato, nel giro di poco più di ventiquattro ore, la proposta fatta a Nino Di Matteo?

Perché ha scelto al suo posto, in fretta e furia, Francesco Basentini?

Perché non ha atteso almeno le quarantotto ore chieste da Di Matteo per riflettere sulle proposte?

Che significa la frase "non c'è nessun dissenso o mancato gradimento che tenga", pronunciata dal ministro per offrire a Di Matteo l'incarico agli Affari penali?

A questi interrogativi il ministro non ha ancora dato una risposta chiara e inequivocabile, trincerandosi dietro minimizzazioni e incomprensioni.

L'accusa non è, come molti tendono a far credere, quella di collusione del ministro con la mafia. Le intercettazioni del Gom (Gruppo operativo mobile) nelle carceri, in cui emerge tutto il dissenso e il fastidio dei boss nei confronti di Di Matteo, erano arrivate sul tavolo del Ministero già prima della proposta di Bonafede. La questione, non meno rilevante, è invece stabilire se ci siano state delle pressioni "istituzionali" per far desistere il ministro dalla volontà di portare Nino Di Matteo al vertice del DAP. È verosimile affermare che nei livelli più alti dello Stato ci siano delle "manine" che ancora reggono i fili di questo Paese? 

Sul ministro Bonafede pesano ancora i dubbi e i silenzi sull'operato dell'ex sottosegretario Luigi Gaetti, entrato nel governo Conte I in quota 5Stelle. Sottosegretario di Salvini al Ministero dell'Interno, con delega all'Antimafia, Gaetti annoverava tra i suoi collaboratori il funzionario Giuseppe De Salvo, che nel biennio 1992-93 (quello delle stragi di mafia, ma anche dell'omicidio di Beppe Alfano e della mancata cattura del boss Santapaola) era il capocentro del SISDE di Messina e, secondo l'avvocato Fabio Repici, molto vicino a Bruno Contrada.

L'ambiguo e sconcertante doppio ruolo giocato da Gaetti nella Commissione Antimafia sul caso Attilio Manca e la lettera di alcuni testimoni di giustizia che lo accusavano di "condotte del tutto estranee alle sue funzioni, attraverso azioni quasi punitive nei confronti di numerosi testimoni " hanno acceso più di qualche riflettore sul sottosegretario dei 5Stelle, sul quale per tutta la durata del primo governo Conte, il ministro della Giustizia, nonostante le sollecitazioni, è rimasto in silenzio.

L'operato di Bonafede in tema di contrasto alla criminalità organizzata non è messo in discussione, perché alcune leggi e provvedimenti adottati dal suo Ministero vanno in una direzione che non è certo quella del favoreggiamento alle mafie. Ma, malgrado tutto ciò, è così assurdo pensare che nei gangli delle istituzioni si annidino ancora oggi personaggi influenti che possano determinare, o quantomeno indirizzare, le scelte del governo?

La questione su cui interrograrsi, evitando il girotondo di strumentalizzazioni fuorvianti e minimizzazioni pleonastiche, è proprio questa. Il resto è propaganda.