L'ordine di esecuzione per Nino Di Matteo non è mai stato revocato

LA CONDANNA A MORTE. La collaborazione di Alfredo Geraci, mafioso di Porta Nuova, riporta l'attenzione sul progetto di attentato predisposto ai danni del magistrato Nino Di Matteo. Malgrado l'esplosivo non sia mai stato trovato e le indagini siano state archiviate, l'esecuzione di Di Matteo per gli uomini di Cosa nostra non è stata revocata. E dopo che l'attuale consigliere togato del CSM ha confidato di voler tornare a occuparsi di stragi, il livello di attenzione deve essere massimo.

L'ordine di esecuzione per Nino Di Matteo non è mai stato revocato
Antonino Di Matteo

Sul progetto di attentato nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, oggi consigliere togato del CSM, sono state fatte delle indagini, poi chiuse con un'archiviazione. “Deve ritenersi provata l'esistenza di un progetto criminoso teso all'eliminazione del dottor Di Matteo”, scriveva la Procura di Caltanissetta, titolare delle indagini, ma quel progetto “non ha oggettivamente superato la soglia della fase preparatoria”. La strage non c'è stata, l'esplosivo non è mai stato trovato, ergo nessuno va a processo.

Eppure, scrivono sempre i titolari delle indagini, “l'ordine di colpire Di Matteo resta operativo per gli uomini di Cosa nostra”. Resta operativo. Vuol dire che nessuno l'ha mai revocato.

Tre anni dopo l'archiviazione delle indagini, un nuovo pentito torna a parlare di quel progetto di attentato. Si tratta di Alfredo Geraci, mafioso di Porta Nuova, arrestato lo scorso settembre dopo due mesi di latitanza. Secondo l'articolo di Salvo Palazzolo pubblicato su La Repubblica, Geraci starebbe riempiendo da circa due mesi pagine e pagine di verbali davanti ai magistrati di Palermo. E sull'attentato nei confronti di Di Matteo, arriva un'ulteriore conferma: il neo-pentito ha parlato della riunione del dicembre 2012 in cui pervenne l'ordine di Matteo Messina Denaro di procedere con l'attentato. Geraci confessa di essere stato proprio lui ad aver procurato l'appartamento di Ballarò per quell'incontro, su espressa indicazione di Alessandro D'Ambrogio, il suo capo mandamento, che partecipò al summit: “mi disse che aveva bisogno di un locale dove fare la riunione”.

Ma per comprendere bene la vicenda, occorre fare un passo indietro.

È il 2014 quando il boss dell'Acquasanta, Vito Galatolo, viene arrestato. Pochi mesi dopo, a novembre, il boss, detenuto al 41 bis nel carcere di Parma, chiede di parlare urgentemente con Nino Di Matteo. “Siamo molto avanti”, gli dice, come raccontato dallo stesso magistrato nel libro Il patto sporco, scritto insieme a Saverio Lodato. “Abbiamo già comprato l'esplosivo, abbiamo studiato tutte le sue abitudini, i suoi movimenti a Palermo, e abbiamo pensato anche a un piano alternativo. Se a Palermo si fa troppo danno, sappiamo già come ucciderla a Roma”. Galatolo, un uomo della mafia, confessa che Cosa nostra ha progettato l'uccisione di Nino Di Matteo.

Poco dopo, il boss dell'Acquasanta diventa ufficialmente collaboratore di giustizia e racconta nei dettagli quel progetto. Parla di un summit avvenuto nel dicembre del 2012 in cui si sarebbe deciso l'attentato. Dice ai magistrati che lo ascoltano che l'esplosivo era già a Palermo e che lui l'aveva visto con i propri occhi. Le famiglie mafiose si erano autotassate per acquistare 150 chili di tritolo dalla Calabria per poi nasconderli in Sicilia. Secondo Galatolo, Matteo Messina Denaro, che aveva portato l'ordine attraverso una missiva al summit, avrebbe parlato di soggetti esterni a Cosa nostra coinvolti nel progetto di morte.

Ma perché uccidere Di Matteo? Perché il pm si sarebbe “spinto troppo oltre”.

Vito Galatolo però, non è l'unico a parlare. Nel 2013, intercettato in carcere durante l'ora d'aria, Totò Riina ha manifestato la volontà di sbarazzarsi del magistrato.

Questi cornuti... [i pm della Trattativa] se fossi fuori gli macinerei le ossa”.

Questo Di Matteo non ce lo possiamo dimenticare”. “Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono”. “E allora organizziamola questa cosa, facciamola grossa e non ne parliamo più”. “Perché questo Di Matteo non se ne va? Gli hanno rinforzato la scorta. E allora se fosse possibile a ucciderlo, un'esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo. “È tutto pronto e lo faremo in modo eclatante. E così via, con altre benevole attestazioni di stima.

Quello stesso anno, arrivarono altri segnali inquietanti per il magistrato. In una lettera anonima, un soggetto che si definiva “uomo d'onore della famiglia trapanese di Alcamo”, scriveva che amici romani di Matteo [Messina Denaro] hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità”. E a luglio, nei giorni del ventunesimo anniversario della strage di via D'Amelio, un confidente rivela alla polizia che “l'esplosivo è già arrivato a Palermo per uccidere il pm della Trattativa”.

Ancora Antonio Zarcone, reggente del mandamento di Bagheria, confermerà la pianificazione dell'attentato in cui doveva essere coinvolto anche il suo clan, mentre il collaboratore Stefano Lo Verso parlerà di un progetto di attentato risalente già al 2008.

Il boss Vincenzo Graziano, indicato da Galatolo come colui che si era occupato di prelevare e nascondere l'esplosivo, dopo essere stato arrestato, ha detto a chi lo interrogava che il tritolo “dovete cercarlo ai piani alti”.

Francesco Chiarello, mafioso di Borgo Vecchio, durante il processo di primo grado sulla Trattativa, ha rivelato ai magistrati che l'esplosivo per l'attentato è stato trasferito in un altro nascondiglio sicuro. Glielo avrebbe riferito il figlio di Graziano, Camillo: “mi disse che per fortuna era stato scarcerato suo padre, così aveva potuto spostare il tritolo”.

Che ci sia in atto da anni un piano per eliminare Nino Di Matteo è ormai abbastanza chiaro. Alle dichiarazioni dei vari pentiti, si sommano le numerose lettere anonime, le minacce, le segnalazioni di pedinamenti, di computer manomessi, di intrusioni negli uffici e nelle abitazioni dei pm titolari delle indagini più scottanti.

Nell'ottobre del 2016, durante un'intercettazione, un mafioso diceva di non voler mandare la figlia al circolo di tennis in via San Lorenzo, lo stesso frequentato da Di Matteo, perché “a quello lo devono ammazzare”. Lo devono, non lo dovevano. E nello stesso circolo, qualche mese prima, dei ragazzini avevano segnalato la presenza di due cecchini e di un furgone bianco sospetto.

Nonostante le dichiarazioni dei collaboratori, però, il tritolo non è mai stato trovato. Ma intanto, Nino Di Matteo è finito sotto il fuoco dello Stato. Negli ultimi anni, ha dovuto subire una vera e propria campagna diffamatoria da parte di alcuni organi di informazione, provvedimenti disciplinari emessi dalla stessa magistratura, un conflitto di attribuzione col Capo dello Stato, la mancata nomina alla Procura nazionale antimafia, l'estromissione dal pool stragi (il dietrofront è solo delle ultime settimane) e uno stato di isolamento davvero allarmante.

Da ultimo, lo “scontro” con il ministro Bonafede, che gli ha scatenato contro (in maniera indiretta, naturalmente) i commenti di molti grillini impazziti che ne hanno preso le distanze. E poi ci sono quei famosi “dinieghi e mancati gradimenti” di cui il ministro non ha mai voluto realmente parlare.

Bisogna eliminare Di Matteo “perché si è spinto troppo oltre”. Ma troppo oltre per chi? Per i mafiosi che sono già in carcere o latitanti?

Tornerò ad occuparmi di stragi”, ha detto il magistrato, ospite di Andrea Purgatori. Segno che, in un momento di massimo isolamento, il livello di attenzione deve essere ancora più alto. Perché, ricordiamolo, “l'ordine di esecuzione non è mai stato revocato”.

 

 

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