«Il carcere non è una discarica sociale»

INTERVISTA. Parla Stefano Branchi, coordinatore nazionale FP Cgil Polizia Penitenziaria: «Ci troviamo a fronteggiare un’emergenza a mani nude. Bisogna parlare con le persone, anche con quelle prive di libertà. Dobbiamo spiegare che noi siamo lì, siamo persone professionali e, oltre a tutelare la nostra salute, tuteliamo anche la loro. Noi non vogliamo mani libere. Vogliamo regole certe. Chi sta dentro il carcere deve vivere con dignità. Questo non interessa a una parte della politica e, purtroppo, non interessa a gran parte della società».

«Il carcere non è una discarica sociale»
Ph antigone.it

«Per quanto concerne l’emergenza coronavirus, allo stato attuale risultano 15 detenuti contagiati». Lo ha ribadito ieri, durante il question time, il ministro della Giustizia Bonafede. Pronta la risposta dell’associazione Antigone: «La paura del contagio tra le persone detenute e gli operatori è uno dei punti da affrontare con maggiore urgenza. Molta di questa tensione è dovuta al sovraffollamento, che rende impossibile il rispetto di quelle misure di distanziamento sociale che ogni giorno le autorità sanitarie e governative ci raccomandano. Per questo non bastano nemmeno le 200.000 mascherine consegnate agli istituti, né i 760.000 guanti monouso. È necessario decongestionare le nostre carceri, liberare spazi e rendere così possibile l'isolamento sanitario per i detenuti che dovessero essere trovati positivi o per quelli da mettere in quarantena. Ad oggi, stando al ministro, i positivi al Covid-19 sono 15 e quelli messi in quarantena 260. Ma i numeri sono purtroppo destinati ad aumentare». Il dramma è evidente. E riguarda tutti gli operatori che lavorano all’interno degli istituti carcerari. Per capire meglio il problema, anche oggi, abbiamo voluto sentire un operatore, che giornalmente si occupa dei diritti dei lavoratori.

 

Secondo Stefano Branchi, coordinatore nazionale FP Cgil Polizia Penitenziaria: «Sta accadendo di tutto nelle carceri italiane, perché essendo un mondo chiuso, un mondo a sé, non è integrato nelle città e, poche volte, viene integrato nei programmi regionali. Anche queste strutture subiscono il fenomeno del coronavirus. Noi ci troviamo a fronteggiare un’emergenza a mani nude. Non solo gli operatori di polizia penitenziaria, siamo tutti a mani nude. Oltretutto, secondo noi, non sono state date delle linee guida sufficienti per poter, innanzitutto, tenere bassa la tensione. È vero che il carcere è un luogo chiuso, ma la preoccupazione esiste. E se è stretta dentro un contenitore di cemento è ancora più alterata».

 

Che cosa avete chiesto all’amministrazione penitenziaria?

«Abbiamo chiesto di accelerare i tempi per poter venire meno a quello che è il sovraffollamento e, quindi, con le leggi già fatte si può accedere a dei benefici. Quindi si può velocizzare questa situazione perché si possa avere un po’ più di spazio dentro gli istituti. Il sovraffollamento ha numeri alti, mentre i posti sono molto di meno. E questo comporta un problema di spazi e di vivibilità, già in un periodo normale. Figuriamoci in un periodo in cui c’è una pandemia in corso.

Tutte le persone che vivono in quel mondo non hanno i dispositivi di protezione individuale.

Come la fronteggiamo una situazione qualora dovesse scoppiare una epidemia dentro gli istituti?»

 

Cosa si poteva fare?

«Dovevamo prevedere delle situazioni diverse che, purtroppo, l’amministrazione non ha messo in campo. Magari l’amministrazione ha dialogato e non ha ottenuto risposte. Però a noi queste cose non ce le dicono. Magari dei piccoli istituti potevano essere utilizzati solo per fronteggiare il Covid e mettere, se era possibile e con l’aiuto delle Asl, delle terapie intensive. Sto dicendo tutte cose che possono essere banali sciocchezze ma, se prese in tempo, potevano essere organizzate e, forse, potevamo fronteggiare diversamente l’epidemia».

 

Il decreto come è stato accolto dal vostro sindacato?

«Penso che il nostro segretario abbia espresso le sue preoccupazioni abbastanza ampiamente. Credo che Maurizio Landini ha fatto bene a tuonare contro il Governo. Ci si lamenta di chi va a fare la corsetta, ed è giusto, ma poi vediamo che in alcuni posti di lavoro, e il nostro è uno di questi, non è possibile mantenere le distanze. Se una persona si sente male e cade a terra che facciamo? La raccogliamo a un metro di distanza? Non abbiamo protezioni. Le categorie della Cgil hanno fatto bene a mettere in guardia il Governo, minacciando lo sciopero. La salute di tutti, nessuno escluso, è al primo posto».

 

Può scioperare la polizia penitenziaria?

«La polizia penitenziaria non può scioperare. Noi abbiamo una responsabilità, queste persone ci sono state affidate dallo Stato per essere rieducate. Già la storia non ci consegna delle belle situazioni…».

 

Che significa?

«Abbiamo vissuto qualche situazione particolare, non dovuta alla polizia penitenziaria. Lo Stato ha restituito a qualche famiglia persone non vive. E questo è una dramma, non deve succedere più. Non lo vogliamo in primis noi, come poliziotti penitenziari».

 

Cosa deve fare lo Stato?

«Deve controllare, deve fare delle ricerche per verificare se ci sono persone asintomatiche, offrire i dispositivi giusti per lavorare e, soprattutto, formarli per usare quei dispositivi. Anche le cosiddette Ffp2 e Ffp3 salvano chi le indossa, ma non proteggono la persona che sta dalla parte opposta. Bisogna sapere come comportarsi e noi non abbiamo avuto questo tipo di formazione. L’amministrazione ha fatto girare un video, che non sappiamo neanche se è vero, per come andava indossata la mascherina. Ma chi lo guarda il video? Se sto in una sezione senza telefono e senza computer, in un momento di emergenza, come faccio a guardare il video?»

 

Quindi, cosa bisogna fare?

«I dispositivi individuali sono la prima cosa, poi c’è la formazione e poi bisogna parlare con le persone, anche con quelle prive di libertà. Dobbiamo spiegare che noi siamo lì, siamo poliziotti, siamo persone professionali e, oltre a tutelare la nostra salute, tuteliamo anche la loro. Perché questo è il compito che ci viene affidato, in tutto e per tutto. In questo momento bisogna fare squadra. Noi siamo la squadra che protegge i cittadini e i detenuti sono cittadini. Noi proteggiamo anche loro, ma lo Stato ci deve mettere in condizione di fare questo. Nessuno è immune e il dramma di questa cosa è che noi non riusciamo a capirlo sino a quando non avvertiamo i primi sintomi».

 

Sembrerebbe che ci sia disinteresse su questi temi. Perché?

«C’è qualcuno, che ha anche avuto ruoli importanti in questo Paese, che pensa che sia giusto dare mani libere alla polizia penitenziaria. Noi non vogliamo mani libere. Noi usiamo la testa e vogliamo regole certe per come operare, ovvero il rispetto delle leggi e delle normative. Qualcuno ha considerato il carcere come una discarica sociale. Buttate la chiave, finché non ci va qualche parente e in quel caso devono sparire pure le serrature per lasciare tutto aperto. Purtroppo il ragionamento della politica è anche questo. Il carcere non è una discarica sociale, ma è un luogo di vita. C’è vita, ci persone che lavorano, ci sono persone che scontano la loro pena, perché hanno sbagliato. Ma chi sta dentro il carcere deve vivere con dignità. Questo non interessa a una parte della politica e, purtroppo, non interessa a gran parte della società».                 

           

A che punto siamo con l’articolo 27 della Costituzione?

«Ci sono delle strutture che sono dei modelli, dove c’è la dignità della persona, della vita e le persone non sono pacchi e non sono numeri. Per rispettare l’articolo 27 della Costituzione c’è ancora tanto lavoro da fare e noi, come funzione pubblica Cgil polizia penitenziaria, ci battiamo tutti i gironi per ottenere questo risultato. Al centro bisogna sempre mettere la persona. Magari ci sono istituti come Regina Coeli, per dire, dove sia il personale e la direzione fanno di tutto per rispettare l’articolo 27, ma come struttura non può garantire il rispetto di quella norma».  

 

 

 

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