«Il Molise non è avulso da problemi di criminalità. Non esistono più le “isole felici”»
L’INTERVISTA ESCLUSIVA AL PREFETTO DI CAMPOBASSO. Francesco Antonio Cappetta si è insediato da un anno nel capoluogo di regione, noi lo abbiamo incontrato per raccogliere il suo punto di vista. «Noi ci stiamo occupando dei rapporti con i giovani per quanto riguarda un settore specifico che è quello del bullismo, della violenza giovanile. Siamo andati al liceo, abbiamo fatto un incontro e ne abbiamo programmati altri. Abbiamo anche programmato una rappresentazione teatrale di un caso di bullismo con la simulazione del processo in cui le parti sono i ragazzi. Si parte dal cyber bullismo, quel fenomeno che ti consente di restare anonimo ma di tirar fuori tutta la cattiveria che puoi usare, tanto non lo dici di persona ad un'altra persona ma lo fai attraverso il social.»
«Il Molise è una regione in cui c’è un sostanziale rispetto della legalità, ad esempio come indice di delittuosità siamo nettamente al di sotto della media nazionale, in particolare proprio la provincia di Campobasso. A livello regionale siamo al di sotto della media nazionale e in provincia di Campobasso siamo la provincia messa meglio». Comincia così la nostra intervista con il Prefetto di Campobasso. È passato un anno dalla sua nomina (marzo 2021) e dopo le sue dichiarazioni sui lavori della tratta ferroviaria Lesina-Termoli (“siamo pronti a fronteggiare l’influenza della criminalità organizzata e a contrastare gli interessi criminali”) abbiamo deciso di raccogliere il suo punto di vista.
Per affrontare la questione criminalità organizzata. In una Regione dove si continua a fare finta di niente sulle presenze, ormai, trentennali delle organizzazioni criminali (Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta, Sacra Corona Unita, mafia foggiana) e sugli affari che questi schifosi criminali continuano a portare avanti nella (quasi) totale indifferenza generale (ciclo del cemento, sostanze stupefacenti, appalti, srl e sas “fantasma”, eolico, riciclaggio del denaro sporco, presenza di latitanti e di collaboratori di giustizia, ect.). Per capire se la favoletta dell’Isola felice, raccontata da chi vuole continuare a nascondere la “sporca realtà”, può ancora essere utilizzata per non affrontare problematiche che provengono da lontano.
Nel 1988, ad esempio, il magistrato Imposimato denunciava: «Gli appalti sono uno degli obiettivi della camorra. Anche il Molise può costituire una terra di conquista per la criminalità organizzata». Non è stata l’unica voce fuori dal coro.
Possiamo citare quella dei componenti della commissione antimafia che si sono succeduti negli anni, di questori, magistrati, giornalisti.
Nel 2002 l’ex questore di Isernia, Francesco Cioffi, durante una conferenza stampa denunciava la presenza della camorra nella provincia di Isernia con queste chiare parole: «Diversi personaggi, in genere provenienti dalla Campania, si aggirano in zona puntando aziende prossime al fallimento. Per acquistare a prezzi di liquidazione e quindi per riciclare, in tal modo, il denaro proveniente da attività illecite». Nel Nucleo industriale Pozzilli-Venafro, due fratelli legati alla camorra campana, proprio in quegli anni, acquistarono due aziende decotte (Rer e Fonderghisa) per riciclare il denaro sporco, per accaparrarsi i fondi europei, per utilizzare i loro canali con l’estero per il traffico di droga e di armi e per bruciare rifiuti tossici negli altiforni presenti nelle loro aziende. Nessuno ha mosso un dito, le aziende sono state fatte fallire. I lavoratori sono stati sbattuti in mezzo ad una strada.
E le società fantasma in provincia di Isernia, con la sede operativa nei territori campani, che vincono appalti in tutta Italia?
E i distributori di benzina sequestrati in provincia di Isernia e in provincia di Campobasso?
E le denunce contenute nelle carte della commissione parlamentare Antimafia?
E le innumerevoli interrogazioni parlamentari?
E l’aumento delle malattie legate allo sporco affare dei rifiuti tossici?
Problematiche presenti non solo nella provincia Isernia ma in tutta la regione. Anche, e soprattutto, in provincia di Campobasso. Senza dimenticare, ovviamente, le presenze strane che si sono registrate in passato (Vito Ciancimino a Rotello, locali di ‘ndrangheta nel basso Molise, raffinerie trovate a pochi chilometri dal confine, garage trasformati in veri e propri arsenali).
Quanti fatti ancora dobbiamo raccontare – e lo stiamo facendo da almeno 15 anni - per creare un serio dibattito, per far comprendere che questa realtà non è beata, «ma una realtà mafiosissima, dove non c’è la lupara, dove non ammazzano, non ci sono crimini. Ma c’è una mentalità mafiosa incredibile»?
Ecco perché abbiamo deciso di incontrare il dott. Francesco Antonio Carretta, originario di Trani, e con una importante esperienza su territori caldi e difficili (Matera, Foggia, Bari, Castel Volturno, Caserta, Gallipoli, Boscoreale, Rende, Bovalino, Gioia Tauro). In queste realtà molte amministrazioni sono state sciolte per le infiltrazioni della criminalità organizzata.
«Gli unici problemi – ha spiegato il prefetto di Campobasso - che si riscontrano si verificano soprattutto nella parte del basso Molise, quindi nel termolese e in tutta quella zona in cui c’è questa possibile infiltrazione della criminalità.»
Stiamo parlando della criminalità foggiana?
«Del foggiano, naturalmente.»
Esistono già dei segnali?
«Tenga conto dello spaccio di droga, per esempio, che in quella zona è particolarmente avvertito e poi, comunque, questa serie di furti che periodicamente si verificano, soprattutto nel periodo estivo o a ridosso delle festività quando le case vengono più o meno lasciate incustodite. Da quello che si rileva dalle prime investigazioni sono soprattutto delinquenti che vengono dalla parte pugliese. Ci stiamo dedicando molto anche ai furti in agricoltura perché ci sono stati anche alcuni casi di cosiddetto cavallo di ritorno, cioè furto di mezzi agricoli o strumenti o attrezzature che poi vengono riofferte previo un pagamento di un riscatto. Questi secondo noi possono essere dei sintomi di penetrazione della criminalità pugliese o del nord della Puglia in questo territorio.»
Ma a che punto siamo? Dobbiamo parlare di penetrazione, di infiltrazione, di presenze stabili?
«No. Di presenza stabile ancora non ho segnali in questo senso. Però si ha un’aspettativa perché la repressione è in atto in provincia di Foggia, dopo tutti gli accadimenti che sono successi e stanno succedendo. È chiaro che spingono un po’, come un principio fisico per cui se tu comprimi l'acqua in un vaso elastico quella si sposta e quindi c'è il ragionevole dubbio che possano cercare di entrare in questa regione. Ed è per questo che noi, già da tempo, abbiamo attivato un incremento del controllo del territorio, soprattutto nelle zone in cui si può verificare questo contatto, quindi soprattutto nel basso Molise. Abbiamo anche organizzato e tenuto alcune riunioni di Comitato, soprattutto presso il Comune di Termoli. Abbiamo richiamato l'attenzione delle associazioni degli agricoltori, di tutte le attività produttive a segnalare, anche in maniera anonima, qualsiasi situazione possano ritenere sintomatica di una penetrazione della criminalità. Attraverso proprio le associazioni di categoria.»
Perché attraverso le associazioni di categoria?
«Perché capiamo che la singola persona possa avere dei timori ma fatto in maniera anonima da un'associazione di categoria rappresenta una maggiore garanzia.»
Sono arrivate delle segnalazioni?
«Sino a questo momento, da quello che mi riferiscono le forze di polizia, non ancora. Noi abbiamo fatto l’ultima riunione circa un mese fa a Termoli e devo dire che ho riscontrato anche una notevole partecipazione delle associazioni, una notevole soddisfazione da parte loro nell'essere stati coinvolti in prima persona.»
Nel 2009 un ex pubblico ministero di Campobasso, in un convegno pubblico, riferendosi al Molise dichiarò: «Nessuno denuncia, nessuno parla. In fatto di omertà il Molise non è secondo a nessuno. A parole siamo tutti rispettosi, crediamo tutti nei capisaldi della legalità come presidio di una società orizzontale. In realtà nella vita privata ognuno, nella propria attività familiare e sociale, alla fine persegue degli interessi particolari e questo sempre di più con il decadere anche culturale della società. In Molise questa caratteristica mi pare abbastanza ricorrente. Parlo da cittadino, non da magistrato». Ascoltando le parole di questo magistrato diventa difficile immaginare una collaborazione da parte dei cittadini.
«Proprio per questo ci siamo rivolti alle associazioni.»
Però le associazioni sono composte da cittadini.
«Sì, certamente. Però una denuncia fatta, anche in maniera informale, dal rappresentante di un'associazione dà un peso maggiore, anche una garanzia maggiore da chi la fa. Perché tu puoi andare ad attaccare il singolo cittadino ma il dirigente di un’associazione di categoria, di un sindacato ha un altro peso, sia politico sia sociale.»
Se ne parla poco della mafia foggiana. Si sta commettendo lo stesso errore fatto con la ‘ndrangheta, che veniva definita una mafia stracciona, e poi ci siamo accorti che è l’organizzazione più forte al mondo?
«Credo che ci sia una differenza strutturale tra la Calabria, la provincia di Foggia e il Molise. Qui non ci sono organizzazioni criminali strutturate, non c’è una tradizione criminale. In Calabria c’è sempre stata e anche nel foggiano. Il Gargano, San Severo, storicamente, sono stati dei territori in cui c'era presente quantomeno una mentalità che favoriva anche l’attività criminale. Qui il territorio è molto più piccolo. Se una fascia di territorio è maggiormente interessata è quella del basso Molise, quella del termolese. Proprio perché la parte prospiciente il mare dove c’è un maggiore volume di commercio, una maggiore presenza di turisti e, quindi, gli interessi economici. Ma nella parte interna, maggiormente agricola, fatta di piccoli comuni, non c’è neanche interesse a presidiarla da un punto di vista criminale. Credo che in Molise non ci sia mai stata nessun tipo di tradizione di carattere criminale. Mentre in Calabria risaliamo al brigante Musolino, c’è sempre stata questa tradizione, nell’Aspromonte. Hanno sempre regolato cosi i loro rapporti. E nel foggiano la stessa cosa, partendo dal Gargano, scendendo a San Severo. Foggia sì, è stata trascurata tanto negli anni perché avrebbe dovuto alzarsi prima il velo che copre quella società.»
Si è alzato questo velo?
«Ormai, anche non volendolo alzare, i fatti criminali avvengono ogni giorno. È giocoforza che sia così. Anche se non ci sono i grandi interessi economici, secondo me, perché anche lì non è un territorio ricchissimo però c’è questa mentalità criminale che manca qui.»
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un costante e fastidioso ritornello. Secondo lei il Molise è o non è un’isola felice?
«Non esistono più isole felici, non si può dire che c’è un’isola felice. È evidente. È proprio la società che ti porta a non avere più isole felici. Ci sono problematiche di qualsiasi natura, da quella occupazionale a quella economico finanziaria. Non arriviamo certo agli indici di criminalità dei territori circostanti. In questo può essere considerata un'isola felice.»
In che senso?
«Nel senso che, paragonata ad altri territori, c'è un indice di delittuosità molto inferiore. Non possiamo invece dire che siamo completamente avulsi da problemi di criminalità.»
Da questa Prefettura sono state emesse undici interdittive antimafia. Che significa? Qual è il segnale che dobbiamo cogliere da questi provvedimenti?
«Sono state emesse negli anni precedenti. Da quello che ho percepito, almeno così mi sembra, non c'è una presenza diretta di soggetti controindicati da un punto di vista di mafia. Ci sono collegamenti con altri, collegamenti diretti o indiretti. Ma questo, come dire, in una società globalizzata in cui i rapporti economici e finanziari…»
Cioè l’affare lo vengono a fare pure in Molise?
«Probabilmente sì. Ma ripeto, almeno per quello che mi hanno riferito, non credo che ci siano associazioni, diciamo, criminali che abbiano, come dire, influenzato da un punto di vista di mafia l'attività economica in loco. Se ci sono stati, ci sono stati attraverso collegamenti con altri soggetti di altri territori. L’idea che io mi sono fatto è che qui non ci siano, insomma, organizzazioni criminali strutturate. Perciò bisogna cautelarsi per evitare che vengano da fuori, non soltanto dalla Puglia ma anche dalla Campania. Noi teniamo, per esempio, d’occhio il territorio di Boiano che è interessato dal traffico di droga che proviene dall’altra parte, dalla Campania. Il tentativo è quello di incrementare il controllo del territorio sia nella parte prospiciente alla Puglia che in quella prospiciente alla Campania. Il traffico di droga può essere un veicolo preferenziale.»
Soltanto il traffico di droga?
«Il traffico di droga innanzitutto. Con le forza di polizia cerchiamo di presidiare anche il territorio da possibili importazioni di rifiuti. Quello è un altro strumento di penetrazione. Teniamo d'occhio anche tutte le richieste di installazione di parchi eolici e di fotovoltaico perché anche lì si può prefigurare qualsiasi altra cosa. I furti d’agricoltura, anche questa è una chiave d’accesso. Se c’è una società, ad esempio, si chiede di acquisirne una quota di capitale azionario. Sono questi i veicoli principali di ingresso nel territorio.»
In un passato, non tanto lontano, ci sono stati diversi episodi. Ne cito alcuni: un testimone di giustizia viene in Molise a denunciare un appalto pubblico, del valore di un milione di euro, presso il carcere di Larino, dato in affidamento a una ditta legata alla camorra. Nessuno si era accorto di nulla ed erano stati affidati i lavori, poi bloccati. Con Armando D’Alterio Procuratore Capo della DDA di Campobasso vennero arrestati e condannati dei soggetti residenti a Bojano che avevano creato, grazie al legame con la ‘ndrangheta, un gruppo criminale che, in provincia di Isernia e in provincia di Campobasso, sostituiva, attraverso le minacce e le aggressioni fisiche, le macchinette videopoker all’interno delle attività commerciali per togliere quelle legali e per piazzare le loro legate alla criminalità organizzata. Sempre con D’Alterio abbiamo avuto delle condanne con l’art.7, l’aggravante mafioso (il reato viene commesso per avvantaggiare una organizzazione criminale). In Provincia di Campobasso dei soggetti, legati all’inchiesta della Procura di Larino, denominata “operazione Mosca”, hanno inquinato la falda acquifera attraverso i rifiuti tossici nascosti nei terreni. Ripeto, sono solo alcuni episodi che fanno prefigurare una situazione delicata e drammatica. Questi fenomeni devono essere contrastati solo dalle forze dell’ordine e dalla magistratura o è necessario anche l’impegno dei cittadini?
«Soprattutto dei cittadini. La magistratura subentra quando il fatto è avvenuto, le forze dell'ordine cercano di prevenire. Ma, chiaramente, devono anche essere confortati dai cittadini, contattati dai cittadini. È chiaro che i cittadini sono i primi protagonisti della tutela del territorio ed è per questo che, ripeto, adesso andremo anche a Bojano. Noi cerchiamo di incontrare le comunità, proprio per fagli capire questo. Cerchiamo di incontrare le associazioni di categoria proprio per far capire ai propri associati che questo è il sistema. Poi saranno le forze di polizia a riunire tutti i dati, a metterli in fila, a coordinarli.»
E i ragazzi, i giovani? Che ruolo possono avere?
«Noi ci stiamo occupando dei rapporti con i giovani per quanto riguarda un settore specifico che è quello del bullismo, della violenza giovanile. Siamo andati al liceo, abbiamo fatto un incontro e ne abbiamo programmati altri. Abbiamo anche programmato una rappresentazione teatrale di un caso di bullismo con la simulazione del processo in cui le parti sono i ragazzi. Si parte dal cyber bullismo, quel fenomeno che ti consente di restare anonimo ma di tirar fuori tutta la cattiveria che puoi usare, tanto non lo dici di persona ad un'altra persona ma lo fai attraverso il social. Per fargli capire che, invece, questo è un atteggiamento che può poi proseguire e trasmodare in atteggiamenti più gravi, quali la violenza sulle donne fino al fenomeno del femminicidio. Si cerca di far capire ai ragazzi, innanzitutto, il rispetto delle regole, dei propri simili e, soprattutto, dei ragazzi diversi.»
In che senso diversi?
«Cioè dei ragazzi che sono in condizioni di inferiorità, perché malati, perché più timidi, perché più deboli, perché meno brillanti, perché di un’altra razza, perché di un altro sesso. Far capire che il rispetto deve essere per tutti, nei confronti di tutti e far capire anche che ci sono delle regole che vanno rispettate. Che loro sono i cittadini di domani, che questa società camminerà sulle loro gambe. Ogni generazione fa un percorso, poi spetta alla generazione successiva.»
La generazione successiva è pronta?
«Sta scontando comunque delle problematiche molto importanti. L’ultima è quella del Covid, per esempio, che ha creato anche delle paure. Loro, che sono i figli di questa società, si troveranno a scontare anche questa maggiore complessità. Ci vuole uno sforzo corale di tutti. Posso dirle che quando ho incontrato i ragazzi della scuola li ho trovati molto interessati e molto partecipi all'argomento.»
Quest’anno saranno 30 anni dalle stragi di mafia (Capaci e via d’Amelio, 23 maggio e 19 luglio del 1992). Ricorderemo, anche un po’ ipocritamente, quegli anni. Lei nel 1992 si trovava a Bari. Che ricordo ha di quei drammatici giorni?
«Per la precisione facevo parte della commissione straordinaria del Comune di Gallipoli che è stato il primo, insieme ad altri 18, sciolti per infiltrazioni. Erano anni veramente difficili…»
Proprio in quegli anni venne approvata la legge sullo scioglimento dei comuni infiltrati dalle mafie.
«Il primo Comune sciolto fu proprio Gallipoli, nel 1991. Fu un'ondata, 18 o 19 Comuni. Tra cui Gallipoli. Erano veramente anni difficili, erano anni in cui mi resi conto dell'abbandono anche del territorio. Una città come Gallipoli non aveva l’impianto di depurazione. Si sparava all’epoca, c’era la Sacra Corona Unita. Sempre nel ’91 ci fu l’incendio del Petruzzelli (il teatro, nda) a Bari. Era un momento in cui la criminalità organizzata aveva veramente alzato il tiro e da qui poi tutta la risposta dello Stato. In Calabria si sparava per strada…»
Tagliavano le teste in Calabria, precisamente a Taurianova in provincia di Reggio Calabria.
«Sì, certo. Giocavano con la testa come se fosse il pallone. A Reggio Calabria c’erano 600, 700 morti all’anno, ammazzati per strada. Anni difficili. Dobbiamo dire però che lo Stato ha risposto. Tant’è che adesso la mafia siciliana si è quantomeno ridimensionata. Quella calabrese anche. Quantomeno non ci sono episodi eclatanti, omicidi. Probabilmente si svolge tutto ad altro livello. Anche in Puglia la Sacra Corona Unita, bene o male, è un fenomeno molto ridimensionato, anche se è nato il fenomeno della mafia foggiana. A Bari città, comunque, vige una Pax, non so se frutto di accordi, di spartizioni. Comunque Bari è diventata veramente una città pilota a livello meridionale. C’è stata una reazione dello Stato, delle forze di polizia, dell’autorità giudiziaria, delle amministrazioni locali. Lo Stato ha reagito.»
Il negazionismo non ha mai abbandonato queste tematiche. Anche dei suoi colleghi, in passato, hanno negato la presenza delle mafie sui territori. A Roma, ad esempio, un ex prefetto parlava di bande di criminali che si facevano la guerra e poi abbiamo scoperto, addirittura, una mafia autoctona legata con tutte le altre mafie. Al Nord si continua a rigettare il problema verso il Sud e sono più di trent’anni che le mafie hanno spostato la palma oltre i confini nazionali. Questo negazionismo, nel 2022, è ancora valido?
«Credo che per mafia non dobbiamo più intendere le mafie tradizionali. La mafia è, ormai, diventata un’azienda. Il denaro viene riciclato dappertutto, al Sud, al Nord, all’estero. Non si può parlare di confini nazionali. Il denaro entra dappertutto. È evidente. Non è più una criminalità di strada.»
Hanno fatto un salto di qualità.
«Hanno fatto un salto di qualità, probabilmente. Avendo grossi flussi di denaro lo devono necessariamente reinvestire. A proposito di questa provincia…»
Prego.
«Un altro fattore da tenere presente è anche la presenza di soggetti non molisani che dimorano qui.»
A chi riferisce? Ai collaboratori di giustizia, ai soggetti agli arresti domiciliari?
«Persone provenienti, ad esempio, dalla Sicilia o dalla Calabria o dalla Campania vivono qui e svolgono anche delle attività qui. Naturalmente, trattandosi di collaboratori o comunque di soggetti legati in passato ad un certo mondo, mantengono probabilmente dei contatti. Ecco, questo può essere un altro fattore di rischio per questo territorio.»
In questa regione, precisamente a Campobasso, a pochi metri dalla Prefettura, una donna calabrese di nome Lea Garofalo, una testimone di giustizia, ha subìto un tentativo di sequestro da parte di un clan di ‘ndrangheta. Proprio quel sequestratore, un certo Massimo Sabatino, è stato condannato con l’aggravante dell’articolo 7. Secondo lei come vengono trattati i testimoni di giustizia, completamente diversi dai collaboratori, in questo Paese? Lo Stato ha fatto e fa il proprio dovere con i testimoni di giustizia?
«Penso proprio di sì, perché vengono poste in essere le misure di tutela delle persone. Naturalmente non c'è nessuna misura di tutela che ti assicura al 100%, ci sono magari dei momenti in cui può anche sfuggire questo. Anche noi, per esempio, ci occupiamo della tutela dei magistrati o delle persone che hanno avuto intimidazioni, imprenditori, eccetera. La tutela viene posta in essere nei limiti delle possibilità che le forze di polizia hanno. Misure che sono alla massima attenzione sia del Prefetto sia delle forze di polizia.»
Prima ho utilizzato il termine “ipocritamente” collegato alle commemorazioni delle stragi di mafia e delle vittime delle mafie. Basta commemorare in questo Paese o si dovrebbe andare oltre la commemorazione?
«Credo che la commemorazione vada fatta…»
E siamo d’accordo. Ma bisognerebbe fare un passo in più?
«Alla commemorazione devono seguire due cose: l’esempio di queste persone deve essere recepito dalla gente a cui lei prima faceva riferimento e secondo bisognerebbe dare una risposta per queste stragi.»
C’è stata questa risposta?
«Non lo so se si è stabilito chi è stato l’autore di quale strage. Credo che anche la Strage di Piazza Fontana non sia mai stata del tutto…»
Anche quella del 1° maggio del 1947 a Portella della Ginestra, in Sicilia…
«La commemorazione è importante come esempio per i cittadini, però deve essere anche seguita da una definizione delle responsabilità.»
È un Paese civile quello che non riesce o non vuole trovare i mandanti delle stragi? Oggi, ad esempio, commemoriamo il trentennale delle stragi di mafia e abbiamo dovuto “accettare” una ricostruzione della verità fantasiosa, l’ennesimo depistaggio studiato a tavolino per la strage di via d’Amelio, dove un collaboratore è stato creato da alcuni apparati deviati dello Stato. È un Paese civile quello che impiega trenta, quaranta anni, se tutto va bene, per raggiungere parzialmente una verità giudiziaria?
«Perché un Paese sia civile è necessario che assicuri comunque la democrazia ai cittadini, la tutela della salute, l’accesso al lavoro e sotto questo aspetto io non ho dubbi che l’Italia sia un Paese civile. Poi, molte volte, è difficile arrivare alla verità.»
Che significa?
«Cioè non sempre la verità si trova, anche quando si pensa che si sia trovata. La verità assoluta non esiste. Certo, ci sono anche delle difficoltà nel trovare la verità. Ci sono vari livelli da superare. Però non ho dubbi che l’Italia sia un Paese civile.»
Ovviamente, il riferimento è ai misteri di questo Paese che, poi, non sono nemmeno tanto misteriosi.
«Non tutti i casi giudiziari, non solo in Italia ma in tutto il mondo, vengono accertati con la dovuta precisione, con la dovuta certezza. Comunque la macchina giudiziaria si mette in moto e va alla ricerca della verità. Poi se ci sono dei depistaggi e altre cose non dipende dall’autorità giudiziaria né dalle forze di polizia. È evidente questo. Però da questo a mettere in dubbio che l’Italia sia un Paese civile assolutamente no.»
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La copertina del mensile Il Ponte, 2010
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