Nicoletta Genova: «vorrei garantire un futuro ai miei figli»

Abbiamo raccolto la sua testimonianza di questi anni: dalla denuncia delle violenze del suo ex compagno alla vita in strutture (dove non è mai stata tutelata, ci denuncia) all’attuale grave situazione economica.

Nicoletta Genova: «vorrei garantire un futuro ai miei figli»
Nicoletta Genova

«Ho paura del futuro, vorrei avere la possibilità di lavorare ed essere autonoma, col reddito di cittadinanza non posso andare avanti. Se dovesse essere cancellato che succederebbe? Che futuro potrei garantire ai miei figli? Non posso rischiare di dover tornare in una struttura, mi ucciderebbe questa prospettiva. La mia unica prospettiva è poter donare un futuro sicuro ai miei figli».

Sono le accorate parole di Nicoletta Genova nei giorni scorsi. Oltre un mese fa abbiamo pubblicato il suo appello in cui ha chiesto aiuto e raccontato la sua attuale difficilissima situazione economica. L’abbiamo ricontattata per tornare ad esprimerle il nostro sostegno e la nostra solidarietà e raccogliere la testimonianza di una madre preoccupata per il futuro dei propri figli, di una donna che ha denunciato le violenze dell’ex compagno e si è ritrovata a lottare e combattere quasi sempre isolata e non tutelata. Anche negli anni in cui si è trovata a vivere in strutture, nelle «case famiglia».

«Denunciai il mio ex compagno nel 2011, ho subito violenze fisiche e psicologiche e omertà familiare. Mi ero chiusa in me stessa, subivo e non ne parlavo con nessuno – racconta Nicoletta - Una sola volta ebbi la forza di chiamare i carabinieri ma non mi hanno creduto nonostante lividi e ferite sanguinanti. In quei giorni ero agli ultimi giorni prima del parto. Lui non mi ha mai aiutato, totalmente indifferente. Venne mia madre, fu l’unico supporto che ho avuto».

Pochi giorni dopo il parto ci fu la prima svolta della sua vicenda, quando trovò finalmente qualcuno che raccolse la sua denuncia ed ebbe la possibilità di andarsene. Questo il suo racconto di quelle terribili ore.

«Ero appena uscita dall’ospedale, dopo il parto, quando una sera lui mi prese a calci lì dove c’erano ancora i punti del parto cesareo. Ebbi il riflesso di prendere il telefono e metterlo sotto la culletta, i suoi familiari abitavano al piano di sopra e la loro unica reazione fu quella di alzare il volume dello stereo per non sentire e far sentire nulla. Lui tentò di aggredire anche mia madre spingendola con violenza contro una porta quando è intervenuta per cercare di difendermi. Quando vennero i carabinieri dovettero sfondare la porta per entrare, lui mostrò indifferenza come se non fosse successo nulla. Dopo il precedente avevo paura potesse prendermi a legnate, visto che altri carabinieri chiamati erano andati via senza credermi ed intervenire. Ai carabinieri lui propose di vedere la casa, tranquillo come se nulla fosse successo. I carabinieri questa volta, invece, capirono la situazione. Lui era totalmente ubriaco e ho avuto paura tentasse di aggredire, alla fine, anche i carabinieri. Mentre il maresciallo salì in terrazza con lui io dissi tutto all’altro carabiniere intervenuto, «non andatevene, non posso più vivere in questa casa» gli dissi. Quando tornò il maresciallo vide com’era ridotto un occhio, il mio allora compagno voleva aggredirmi insultandomi «poco di buono, non servi a nulla, come se ne sono andati gli altri carabinieri andranno via anche loro». Come cercò di sferrarmi un pugno uno dei due carabinieri lo bloccò e gli disse «da questo momento non vedrai più i tuoi figli e la tua compagna». Mi hanno aiutato ad uscire da quella casa insieme ai miei due figli piccolissimi».

2011, il primo ingresso in una struttura, «da allora non ho avuto più pace»

«Nel 2011 entrai in una struttura e da allora non ho avuto più pace, non fui mai tutelata. Lui scoprì dove mi trovavo anche perché il suo avvocato collaborava con la struttura dove mi trovavo. Ho sempre vissuto da sola, ho sempre combattuto da sola – prosegue la testimonianza di Nicoletta al nostro giornale -  Vissi sulla mia pelle come troppo spesso si tutela chi maltratta e non la vittima, io non sono mai stata tutelata. Dissi alla responsabile della struttura di Santa Margherita di Belice che non volevo più vivere con il mio ex compagno e lei mi rispose che, se non volevo tornare dal mio ex, sarei andata a «sbattere contro un muro senza i figli». Una frase che mi tormenta ancora dopo tanti anni, anche se ho superato quel periodo. Dopo un anno a Santa Margherita fui spostata a Menfi e da lì a Sciacca. Poi salii nel Lazio quando chiesi aiuto al Telefono Rosa. Lì ero in autonomia, percepivo il Reddito di inclusione ma non bastava per coprire le spese della casa e per la scuola dei bambini. In quel periodo mi staccarono la corrente elettrica a casa».    

Nicoletta tornò in Sicilia nel 2017 e si trovò in una struttura dove la situazione era di forte degrado, la raccontò pubblicamente anche ad una testata nazionale. Ma, sottolinea, «non potei fare denuncia», non fu raccolta e chi «avrebbe dovuto raccogliere la mia denuncia tramite ambienti ecclesiastici era collegato con la struttura in cui mi trovavo». Attualmente Nicoletta non vive più in una struttura ma in una casa affittata in totale autonomia. Nella lettera che abbiamo pubblicato a febbraio raccontò anche del tentativo di allontanarla dai figli. Tutto iniziò dopo alcuni mesi in quella struttura, quando si recò a Palermo per cercare un lavoro e poter vivere autonomamente. «Cercarono di bloccarmi, vista la mia situazione avevano paura di perdere le entrate economiche che la mia permanenza garantiva. Mi arrivò un decreto che mi proibiva di uscire dalla struttura con i miei figli dichiarando che io non vivevo con loro, che li stavo abbandonando. Completamente falso e ci sono abbondanti prove e testimonianze che invece vivevo con loro e li accompagnavo a scuola o dal medico, per esempio. In tribunale fui trattata malissimo e mi fu chiesto con quale «coraggio» ne chiedevo l’affidamento dopo che non ci vivevo insieme, ripetendo la totale falsità. Il presidente, nonostante continuavo a ripetere che vivevamo insieme, insisteva nel chiedermi quante volte andavo a visitare nella struttura in cui si trovavano i miei figli. Ci fu poi la relazione di una neuropsichiatra infantile in cui si ribadiva che i miei figli non dovevano essere assolutamente adottati ed io ero il loro unico punto di riferimento, che sono legati a me ed io ho sempre vissuto con loro anche in struttura. Fu ribadito così che la potestà genitoriale è mia e che potevo uscire dalla struttura».

Una vicenda oggi archiviata, superata. Ma tante sono le domande e gli interrogativi mai risolti: «nessuno ha mai pagato, nessuno mi ha mai risposto dicendo perché era partita questa procedura per l’affidamento dei miei figli sottolinea durante l’intervista Nicoletta -  Vorrei e sarebbe mio diritto avere delle risposte sul perché di tutto questo. Può essere normale che ho denunciato le violenze del mio ex compagno, ho sempre accudito  i miei figli e ho rischiato di perderli? A questa domanda la neuropsichiatra infantile rispose che, se fosse stato per lei, quelle strutture non dovrebbero neanche esistere». In quella struttura, ricorda Nicoletta, «ci siamo ritrovati in una situazione igienica pessima e anche in scarse condizioni di sicurezza, come è possibile che nella stessa struttura ci fossero donne vittime di maltrattamenti e persone – che hanno anche atteggiamenti violenti – che stavano cercando di uscire dalla tossicodipendenza? L’anno scorso poco dopo la mia uscita nella struttura scoppiò un focolaio di Covid19».

L’attuale situazione economica e la richiesta di aiuto per poter vivere autonomamente e donare un futuro sereno ai figli

Negli anni vissuti nelle varie «case famiglie» Nicoletta non ha avuto la possibilità, che gli è stata ostacolata, di lavorare e costruirsi un’autonomia economica, «l’obiettivo dei gestori era tenermi in struttura, venivano lautamente pagati per questo. La mia storia purtroppo non è un caso isolato» sottolinea. Uscita dall’ultima struttura in cui si trovava ha avuto la possibilità di chiedere ed ottenere il reddito di cittadinanza. Nella struttura in cui si trovava le hanno fatto perdere la possibilità di chiedere un anno prima il reddito di cittadinanza, «mi avevano detto che non ne avevo diritto in quanto ero in una struttura, ed invece ho scoperto poi che non era vero – racconta - Mi dissero così perché avevano paura io me ne andassi, andando a vivere in una casa in affitto in autonomia». Come poi è accaduto, conclude.

«Col solo reddito di cittadinanza non mi è possibile coprire tutte le spese, soprattutto per la casa e le esigenze scolastiche dei miei figli. Per questo lanciai l’appello a febbraio – conclude la sua testimonianza al nostro giornale Nicoletta Genova - trovando tantissima omertà e i giudizi di molte persone, che davanti una madre in difficoltà che chiede una mano puntano il dito e giudicano te, considerando vergognoso che si chieda aiuto davanti gravi difficoltà economiche».

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