Pasqua

Eccoci arrivati a un’altra Pasqua. Eccoci: tanti a celebrare la ricorrenza in preghiera, tanti a celebrarla in cerca di uno spazio del pianeta in cui ritemprarsi mentalmente e fisicamente tra prelibatezze e sollazzi, tanti nella fame, tanti travolti nell’escalation delle guerre motivate esclusivamente dalla sete disumana di sangue umano. Anche questa Pasqua ha la sua veste, cangiante in ragione dello spazio di mondo in cui si manifesta. Ovunque si auspica sia portatrice di pace: edulcorate parole espresse o vergate con l’inchiostro intinto nel fraseggio convenzionale della circostanza.

Pasqua


 

Lo sciamare pleonatisco della comunicazione infobellica - che appaga chi la diffonde senza lasciare in chi la riceve assai spesso null’altro che scorie di una cronaca illustrata in toni retorici o contraddittori - risente abbastanza di cabale spacciate per certezze.  Nell’infosfera della mass media communication tanta e tale è la pletora impunemente pervasiva di massive-news da oltrepassare la soglia della permeabilità a qualsivoglia tentativo aliena di informazione buona.  Doomscrolling? Non ho io le competenze per valutare gli impatti sull’equilibrio mentale. Mi fermo ai dati e all’autorevolezza della fonte (come d’obbligo): è sempre più suffragata da evidenze scientifiche la denuncia avanzata dagli studiosi di psicologia clinica sulle dimensioni patologiche legate a eccessi di comunicazione unitematica quale quella in materia di virus e guerra insapientemente diffusa attraverso tutti i canali media. E cito ex multis Kenneth Gergen, docente allo Swarthmore College in Pennsylvania, ha analizzato le implicazioni meno evidenti della costante esposizione collettiva al flusso di notizie.

Senza cedimenti all’aurispica del tempo celebrativo voglio comunque condividere qualche riflessione. Non posso, ripeto, ipocritamente scivolare nella banalità di formulare l’auspicio di una Pasqua farcita di attributi che la realtà che ho davanti mi restituisce con tutto il suo carico di vezzosa finzione.

Sarebbe soprattutto inconferente con il senso della mia rubrica che, grazie ai meravigliosi collaboratori, spaziando ogni giorno attraverso una miriade di declinazioni tematiche coopera per costruire una cultura partecipativa, inclusiva, solidale senza mai vulnerare la verità dei fatti. 

In queste ore girano a gran velocità auguri di pace. Auguri di pace mentre soffiano venti di guerra e l’essere io parte del genus sapiens del cyberspazio mi concede il “privilegio” di assistere all’inarrestabile lugubre massacro che si non consuma davanti ai miei occhi.

Augurare che si faccia festa mentre i decisori del futuro della terra intasano la comunicazione di minacce e di accuse giungendo a negare persino che il sangue che scorre appartenga a un essere umano? Girarsi dall’altra parte e scollegare il cervello per dire che è Pasqua e ci amiamo quando un manipolo di consimili non cede nemmeno a una tregua?  

La pace annunziata con la bocca non rende alcun servizio alla secolare oracolarità della specie ominide. Se una pace autentica non alberga copiosamente negli animi di tutti gli uomini gli orizzonti si polverizzano nell’aridità, avida divoratrice di possibilità, percorsi, speranze, attese.

Siamo stati educati ad associare alla Pasqua la resurrezione dalla morte, l’uscita dalle tenebre di un sepolcro, la libertà dopo la schiavitù, la rinascita dopo la persecuzione… la gioia di assaporare il gusto della pace dopo avere dovuto nutrirsi dell’amaro del dolore.

In coscienza mi chiedo se l’intensità di tale associazione è solo un diagramma nominale o anche l’intensità di una spiritualità laica che affonda le sue radici nel vissuto quotidiano.

E’ possibile godere della pace del cuore mentre uomini, donne, bambini colpevoli sono di essere nel posto sbagliato sono massacrati? Nel rispetto del valore storico della ricorrenza il senso della Pasqua non dovrebbe stare - nel lavorare per vivere un po’ meglio tutti noi (sapiens sopra citati) aderendo al concetto disconosciuto dell’economia del benessere globale magnificamente espresso nella locuzione inglese: think globally, make locally («Pensa globalmente, fa’ localmente»)?

Giungerà il momento in cui le interpretazioni/convinzioni, funambole sul crinale tra verità e menzogna, cesseranno di prevalere sulla realtà?

Nella rubrica ho dedicato non casualmente spazio al pensiero filosofico. Tra i tanti, mentre sto scrivendo mi sovviene Ludwig Wittgenstein: affermava che l’attrito della realtà è necessario per camminare, altrimenti scivoliamo come sul ghiaccio. 

La realtà che si impone, irriducibile, può aiutare a riflettere.  In questo oggi, in cui secoli di auguri dispensati sembrano disintegrarsi nella polvere dei deserti, vorrei che si riesca tutti a non farsi stuprare le coscienze dalle convenzioni del dì di festa.

Vorrei  che, al riparo dal pressing mediatico quotidiano delle infospazzature farcite da notizie di stupri, eccidi, depauperamento abulico del pianeta, millantazioni di superpoteri, esaltazioni egocentriche e similia  si assumesse finalmente  la  coscienza di poter essere una risorsa buona per una Umanità intera, in cui nessuno sia considerato scarto perché diverso per fede o per colore della pelle, per differenti abitudini alimentari, per cultura, perché donna, perché prega un altro dio  o perché un dio non ce l’ha.