«Troppe le inadempienze che inevitabilmente si accumulano»

In ricordo vivo e attivo di Alexander Langer, tanto attuale da essere stato accantonato ora che le sue parole come mai prima d’ora dovrebbero essere bussola e pungolo.

«Caro San Cristoforo

Oggi in molti siamo in una situazione simile alla tua e che la traversata che ci sta davanti richieda forze impari, non diversamente da come a te doveva sembrare il tuo compito in quella notte, tanto da dubitare di farcela. E che la tua avventura possa essere una parabola di quella che sta dinanzi a noi.

Ormai pare che tutte le grandi cause riconosciute come tali, molte delle quali senz'altro importanti e illustri, siano state servite, anche con dedizione, e abbiano abbondantemente deluso.

Quanti abbagli, quanti inganni e auto-inganni, quanti fallimenti, quante conseguenze non volute (e non più reversibili) di scelte e invenzioni ritenute generose e provvide».

Così Alexander Langer si rivolgeva a San Cristoforo nel 1990, trentadue anni fa. Era l’alba di quel mondo che oggi vediamo svelarsi e appesantirsi definitivamente di fronte a noi.

E, come Alexander scrisse, siamo tutti o quasi come quel San Cristoforo: viandanti e traghettatori verso l’ignoto con pesi sempre più grandi sulle nostre spalle. La pandemia, la guerra sempre più nelle nostre case e decisiva per le nostre vite, i limiti di uno sviluppo economico anti ecologico che sta distruggendo quella casa che dovrebbe esser comune ed invece è considerata sempre più di nessuno.

È il destino di quest’Italia sciagurata ed egoista, imbelle e incapace di qualsiasi visione di futuro che vada oltre la clientela, la lobby, l’interesse di piccoli e grandi pre-potentati e che sappia anche solo riconoscere l’interesse pubblico, il bene comune. Alexander pose fine volontariamente alla sua vita sotto un albero di albicocco il 3 luglio 1995, quasi vent’anni fa. Rileggere ora le sue parole sull’arduo essere «portatori di speranza», sulla necessità della «conversione ecologica» e l’essere costruttori e non solo vuoti declamatori di Pace, raccontano il mondo devastato e agonizzante di oggi.

Ma anche solo il suo nome è quasi cancellato da quel che si può definire orizzonte politico (da polis, l’agorà condivisa dilaniata da squallide consorterie e piccole botteghe fino a spazzarlo via) solo per convenzione linguistica.

In questi ultimi mesi l’egoista, ottuso e autoreferenziale occidente europeo ha «scoperto» l’esistenza della guerra, si è vista tornare - non dopo settant’anni ma solo meno di trent’anni, i Balcani degli Anni Novanta interrogherebbero le coscienze se esistessero – la guerra nel cuore del suo territorio.

E le reazioni, il dibattito (anche questo così definito solo e soltanto per convenzione linguistica) pubblico si è ripiegato su schermaglie tattico-partitiche, visioni del proprio io e che non vanno oltre egoismi piccolo-borghesi, riproposizioni di schemi novecenteschi se non ottocenteschi.

Da una parte l’ineluttabilità del complesso militare armato, dall’altro vuote declamazioni di una Pace che appare più autodifesa di se stessi che interesse per le vittime e gli oppressi. Trent’anni fa, di fronte la guerra nei Balcani, Alexander lanciò la proposta dei Corpi Civili di Pace – poi sanciti dallo stesso Parlamento Europeo – e di un’interposizione nonviolenta che difende gli aggrediti, disarma gli aggressori e costruisce alternative concrete, reali, alla distruzione bellica.

Di fronte le guerre, i crimini innegabili (se non da false coscienze, pavidità, vigliaccheria e prostrarsi verso i potenti), la disumanità di chi bombarda e uccide, violenta e stupra, deporta e cancella lo stesso concetto di umanità l’unica alternativa “di Pace” non può essere tra lo schierarsi con il guerrafondaio più forte sperando vinca il più presto possibile e senza danneggiare il proprio io (come più di qualcuno sta facendo in questi mesi) e l’invocare le cancellerie e i potenti di ogni risma.

Che ovviamente si accorderebbero, se si accordano, sul sangue dei morti e calpestando i destini dei popoli.

Di fronte tutto questo che uno dei primi tentativi di solidarietà dal basso, coinvolgendo anche eletti nelle istituzioni, sia stato di fatto boicottato da chi dovrebbe rappresentare istituzionalmente l’Italia nel mondo – mentre ben altre passerelle e non solo, utili solo a meschini interessi di bottega propagandistici sono stati agevolati e sostenuti de facto e non solo – e che le iniziative di interposizione e solidarietà civile siano persino sconosciuti ai più rende plasticamente l’idea di quanto Alexander e la sua capacità di analisi, riflessione, messa in discussione continua, ascolto della realtà e non dell’iper uranio degli schieramenti di comodo sono molto più lontani di trent’anni.

La nonviolenza va praticata non proclamata, la Pace va costruita non declamata, la libertà va vissuta non teorizzata. Non basta (e non è utile come non lo era trent’anni fa) declamare no, serve costruire alternative concrete per difendere i più deboli e fermare la spirale del crimine disumano.

Alexander criticò aspramente, anche dopo il ritorno di chi partecipò alla prima marcia per spezzare l’assedio di Sarajevo, chi continua a declamare un “pacifismo astratto” che ignorava le sofferenze, i drammi, i crimini subiti dalle popolazioni assediate.

L’Europa nasce o muore a Sarajevo, modificando i riferimenti geografici e poco altro, è perfettamente applicabile alla realtà di questi mesi in Ucraina. Ed esattamente come allora chi vuol costruire concretamente Pace, sporcandosi le mani e andando oltre astratte e rigide comode prese di posizione di schieramenti autoreferenziali e autocentrati, sconta lo stesso disprezzo, gli stessi attacchi e lo stesso comportamento di chi ha favorito, per negligenza e interessi particolari, le tappe che ci hanno portato a questa guerra, a questa nuova spiegata, crudele, criminale aggressione e oggi declama la “Pace” del proprio orticello.  

«La vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche… semplicistica mi appare la posizione opposta, quella che chiamerei di “pacifismo dogmatico”. Mi sono molto meravigliato come alcune delle persone che sono andate a Sarajevo con i “beati costruttori di pace”, nel dicembre scorso, siano tornate da quella esperienza estrema e singolare, di grandissimo significato umano, con lo stesso discorso aprioristico che facevano prima, e con lo stesso atteggiamento solo declamatorio sul valore universale della pace e dei diritti umani.

A differenza delle testimonianze assai veraci e problematiche di alcuni partecipanti (come quelle dei vescovi don Tonino Bello e mons. Bettazzi), altri reduci da Sarajevo non apparivano intaccati più di tanto dal fatto che i bosniaci assediati chiedano disperatamente un aiuto contro gli aggressori assedianti (ed armi per difendersi da sé se l’aiuto esterno non viene). Una sanguinosa epurazione etnica a suon di massacri, stupri, deportazioni e devastazioni va avanti a tappeto, la popolazione di per sé largamente inter-etnica viene costretta a schierarsi con una parte contro l’altra, un baratro profondo rischia di riaprirsi tra est e ovest, tra cristiani e musulmani, tra europei da difendere ed europei che possono essere macellati tranquillamente.

Tutto questo non può trovare come unica risposta l’invocazione astratta della non-violenza. Chi si rifugia in una posizione solo di principio non dovrebbe poi avere da ridire sull’invito del Papa alle donne violentate di partorire i bambini concepiti a seguito degli stupri: in entrambi i casi si tratta di una proclamazione unilaterale, che proviene dai guardiani del dogma, ma non tiene conto degli interessati. Preferisco il pacifismo concreto, con dei partner concreti. Credo che serva di più delle opzioni semplicistiche, buone per accontentare i tifosi, ma sterili rispetto alla realtà».

(Alexander Langer, 6 aprile 1993, AAM Terra Nuova)

«Forse è troppo arduo essere individualmente degli Hoffnungsträger, dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande l’amore di umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere».

(Alexander Langer, 1992, in ricordo di Petra Kelly)