UN DERBY, TROPPA PROPAGANDA E LE SOLITE MANINE

DAP. Da giorni si è scritto e detto molto sullo scontro tra Nino Di Matteo ed Alfonso Bonafede. Ma come al solito, in Italia si sono formate due tifoserie schierate e contrapposte, immemori di analizzare i fatti e arrivando pure a screditare l'onestà intellettuale di entrambi i soggetti coinvolti. Ovvero: erano i governi ad essere messi sotto scacco da questo patto scellerato. Non si può dire che il braccio destro di Silvio Berlusconi, Marcello Dell'Utri, è stato condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Nè si può dire che lo stesso Berlusconi era un punto di riferimento per Cosa Nostra proprio dopo le elezioni del 1994 per aver promosso di allentare il regime del 41 bis. Ed, infine, non si può dire (come afferma la sentenza di primo grado sulla trattativa) che il Decreto Biondi, fortemente voluto dal governo Berlusconi, oltre a contenere il divieto di custodia cautelare in carcere per i reati come la corruzione e e la concussione, prevedeva anche un alleggerimento del 41 bis e che gli stessi boss, alla vigilia dell'approvazione del Decreto stesso, ne erano a conoscienza. Questo non si può dire. Di Matteo queste cose le ha dette.

UN DERBY, TROPPA PROPAGANDA E LE SOLITE MANINE
Ph, fonte open.online

Elenchiamo i fatti. 

Nel 2018 il ministro della Giustizia Bonafede propose a Nino Di Matteo la possibilità di essere nominato alla direzione del DAP o all'Ufficio degli Affari Penali. Tutto era pronto. In data 18 giugno 2018 vi fu il primo incontro telefonico tra i due e la cosa sembrava fatta. Il 19 giugno, quando Di Matteo si recò personalmente a parlare con il ministro, qualcosa è cambiato. Tutto salta. Il 27 giugno, su Il Fatto Quotidiano si fa cenno alle rimostranze avute nelle settimane precedenti da parte di molti boss al 41 bis in merito alla nomina di Di Matteo al DAP.

Tali proteste possono essere riassunte con questa espressione: «Se nominano Nino Di Matteo sono pazzi». La notizia non si espande più di tanto e muore lì.

Tra marzo e aprile 2020 una circolare del DAP autorizza i singoli giudici di sorveglianza a valutare la corretta sicurezza e salute dei detenuti data l'emergenza Covid-19. In tale circolare si specifica come l'attenzione debba essere concentrata anche sui detenuti ultrasettantenni al 41 bis con una serie di patologie. Così i singoli giudici di sorveglianza decidono su ciascun boss, senza il parere di un organo collegiale ed inizia una serie di fuoriuscita dal carcere verso i domiciliari di boss. Crea scalpore, ad esempio, il ritorno ai domiciliari del boss Zagaria.

La polemica scatta per il fatto che si va a sorvolare sulla pericolosità sociale dei singoli boss al 41 bis (molti dei quali corresponsabili del periodo stragista 1992-1993) e non si prende minimanente in considerazioni che il sistema penitenziario è munito di un ottimo servizio sanitario, h24 per ciascun detenuto al 41 bis e che la loro fuoriuscita metterebbe loro stessi in maggior pericolo vista l'emergenza Covid, rispetto all'isolamento previsto per il carcere duro.

La figura del capo del Dap Basentini si fa giorno dopo giorno sempre più debole. Allo stesso modo pure all'interno del ministero della giustizia ci si accorge che la fuoriuscita dei boss è fuori controllo. Se ne contano oltre 370. Basentini si dimette, il ministro Bonafede nomina come suo sostituto Dino Petralia affiancato dal pm Roberto Tartaglia.

In quelle stesse ore, nella trasmissione Non è L'Arena condotta da Giletti, il 2 maggio 2020, vengono raccolte una serie di opinioni sulla mancata nomina di Di Matteo al Dap nel 2018 e si comincia pure a dire che lo stesso Di Matteo sarebbe stato in pole position per sostituire la figura di Basentini. A quel punto è Nino Di Matteo stesso che telefona in diretta e, per sei minuti circa, spiega e chiarisce la sua posizione limitandosi a dire che la sua nomina al Dap era un fatto del 2018 e non del 2020 e che qualcosa doveva essere successo nel giro di una giornata visto il ripensamento del ministro Bonafede.

Il ministro Bonafede si dece "esterrefatto" per tali dichiarazioni ma non va a spiegare oltre cosa sia successo due anni prima quando la nomina di Di Matteo, ormai fatta, venne scartata.

Ora, da che mondo e mondo, la figura di Nino Di Matteo è scomoda. Lo sappiamo tutti. Il processo sulla Trattativa Stato-mafia resta per lui una macchia indelebile agli occhi del potere. Un processo che nessuno vuole menzionare e che se ci facciamo caso si fa quasi fatica a trovare sui giornali e sulle televisioni tracce su una sentenza di primo grado che (con tutte le prudenze dovute al fatto che appunto non è ancora una sentenza definitiva) accerta il reato di minaccia a corpo politico dello Stato ad opera di pezzi deviati dello Stato stesso ed il gotha di Cosa Nostra tra le stragi di Capaci e Via D'Amelio e poi tra le bombe dimenticate del 1993. In Italia è considerato un tabù dire che onesti servitori dello Stato (Falcone, Borsellino ed i loro angeli custodi) e civili inermi (le vittime delle bombe del 1993) siano stati sacrificati sull'altare della patria in cambio di una politica più soft nei confronti di Cosa Nostra.

Non si può dire che al centro di quella trattativa a suon di bombe, c'era una richiesta da parte di Cosa Nostra che è stato un punto centrale dell'opera politica dei governi più trasversali possibili dal 1992 fino ad i giorni nostri: l'allentamento del 41 bis (primo punto del famigerato Papello). Allo stesso modo, non si può dire che anche nel 1994, il governo Berlusconi 1 fu uno dei tre esecutivi (preceduti dai governi Amato e Ciampi) coinvolti nelle manovre di minaccia a corpo politico dello Stato.

Ovvero: erano i governi ad essere messi sotto scacco da questo patto scellerato. Non si può dire che il braccio destro di Silvio Berlusconi, Marcello Dell'Utri, è stato condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Nè si può dire che lo stesso Berlusconi era un punto di riferimento per Cosa Nostra proprio dopo le elezioni del 1994 per aver promosso di allentare il regime del 41 bis. Ed, infine, non si può dire (come afferma la sentenza di primo grado sulla trattativa) che il Decreto Biondi, fortemente voluto dal governo Berlusconi, oltre a contenere il divieto di custodia cautelare in carcere per i reati come la corruzione e la concussione, prevedeva anche un alleggerimento del 41 bis e che gli stessi boss, alla vigilia dell'approvazione del Decreto stesso, ne erano a conoscenza. Questo non si può dire.

Di Matteo queste cose le ha dette.

E' curioso che dal mondo politico del centro destra stiano venendo i sostegni a Di Matteo (solo per fini propagandistici, sia chiaro) e una mozione di sfiducia verso Bonafede per la gestione delle carceri e delle scarcerazioni di questi ultimi due mesi. Si fa finta di non vedere quale è la verità.

Anzitutto Di Matteo ha fatto bene a chiarire la sua posizione davanti ad illazioni che lo vedevano in corsa per il DAP anche in questo 2020. Il tutto risaliva al 2018: ha fatto bene a fare chiarezza, a prescindere dal luogo in cui lo ha fatto.

Chi sostiene che abbia sbagliato ad intervenire in tv, fa finta di non ricordare come personaggi quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino intervenissero in tutte le tv italiane prima di finire ammazzati. I magistrati sono prima di tutto delle persone.         

E comunque resta il fatto raccontato da Di Matteo: la marcia indietro del ministro Bonafede. Perchè?

Veniamo infatti ad Alfonso Bonafede. Questo derby inutile che è in atto da giorni, ha creato due tifoserie che arrivano perfino a screditare l'onestà intellettuale di due figure come Di Matteo e Bonafede. Nel suo intervento Di Matteo non è minimamente andato a screditare l'operato del ministro, tant'è che si era più volte pronunciato a favore di alcune leggi promosse dall'esecutivo in tema di sospensione della prescrizione e della legge spazzacorrotti. Chi non ha il coraggio di dire che tali riforme sono attese in questo Paese da oltre un ventennio, finge di non sapere.

Ma in tutto questo si evita di analizzare un altro particolare, che vede coinvolta l'onestissima personalità del ministro della Giustizia. Il DAP. Pur essendo uno dei settori del Ministero della Giustizia è da sempre al centro di polemiche, quasi come fosse un'entità autonoma dalla responsabilità di ciascun ministro. Non si può non ricordare come quel dialogo tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato (accertato anche da altre sentenze , queste definitive, come quelle di Firenze) avesse al centro anche la figura del DAP e delle nomine dei suoi capi di allora.

La sostituzione di Adalberto Capriotti al posto di Niccolò Amato ne è un esempio.

Il primo più morbido sulla gestione del 41 bis rispetto al secondo  più in linea con una visione di allentamento del carcere duro. La rimozione di Amato avvenne proprio durante il 1993 e nei mesi caldi in cui un'ulteriore fase della trattativa era entrata in atto. L'ulteriore progetto di ricatto allo Stato con le bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993.

Oppure si fa finta di non dimenticare altre "manine" all'interno del DAP  che portarono alla nascita del cosiddetto "protocollo farfalla", scoperto nel 2014 dalla Commissione Antimafia, sotto il nome di "Convenzione": un testo di 10 pagine che sanciva un accordo tra DAP e l'AISI che escludeva la magistratura tenendola all'oscuro da ogni tipo di attività degli 007 che in questo modo andavano ad acquistare maggior potere per entrare all'interno delle carceri. Una sorta di lasciapassare con il quale si consegnavano le chiavi ai Servizi di un patrimonio informatico senza alcun limite e controllo.

Insomma, da sempre il DAP è un campo delicato su cui intervenire e non ci dobbiamo stupire se Bonafede ci sia sembrato leggermente fuori dal mondo quando è giunto a conoscenza delle scarcerazioni illimitate. La sua risposta la dice lunga su quanto egli fosse in "buonafede" nella gestione delle carceri. Nel giro di poche ore non solo ha sostituito la figura di Basentini con due personaggi di rilievo quali Petrialia e Tartaglia, ma sta spingendo il Governo a varare un decreto che preveda non solo la valutazione delle scarcerazioni dei singoli boss ad un organo collegiale (Procura nazionale antimafia) anzichè sulle spalle dei singoli giudici di sorveglianza, ma che preveda anche dei meccanismi specifici per far rientrare i boss usciti in carcere.

Resta però un fatto: Bonafede farebbe meglio a chiarire maggiormente ciò che accadde nel giugno 2018 quando sembrava fatta per la nomina di Nino Di Matteo alla direzione del DAP. Che vi siano dei settori dell'amministrazione penitenziaria che operano da sempre in linea con una visione di allentamento del 41 bis è chiaro da oltre 27 anni.

Ma se un ministro, come Bonafede, si professa paladino dell'antimafia e sostenitore di figure come Di Matteo e altrettanti onesti servitori dello Stato, non chiarisce, facendo nomi e cognomi, indicando  quali possibili pressioni e rimostranze vi siano state sul nome di Di Matteo al DAP, il pensiero che una trattativa sotterranea vi sia ancora oggi (sempre frutto di quel patto scellerato sul cui sangue nacque la Seconda Repubblica) nasce in automatico.