Uomini e foglie: la caducità dell’esistenza

Alcuni avvenimenti ci portano ad interrogarci sulla nostra natura e a riflettere sulla sostanziale caducità della nostra esistenza.

Uomini e foglie: la caducità dell’esistenza
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Interrogativi sconfinati e irrisolvibili insorgono di fronte ad un enorme seracco di ghiaccio che si stacca da un ghiacciaio o a fiumi di fango che entrano impetuosamente in quello che dovrebbe essere il luogo più sicuro per la vita di una persona, la propria casa, le mura accoglienti e protettive del focolare domestico, e travolgono tutto: cose, persone, oggetti, vite umane.

 

Strappi, squarci, lacerazioni – esteriori ed interiori – ti segnano, annientano, annichiliscono.

 

Quanta responsabilità è da additare all’uomo, pur nella sua piccolezza e fragilità, e quanta, invece, alla crudel possanza della Natura? Domande che rimarranno senza risposte univoche, certe, definitive.

 

L’ennesima tragedia di questi giorni non può non intercettare ancora una volta i dilemmi del nostro animo. L’alluvione nelle Marche, che in un batter d’occhio ha strappato con inaudita veemenza un figlio dalle braccia di una madre, che ha ridotto a brandelli i sacrifici di un’intera vita per molti, non può non eternare quelle domande che connotano endemicamente l’uomo e la sua profondità.

 

Cosa conta realmente nella nostra vita? A cosa dobbiamo conferire importanza? Quali sono concretamente, o meglio dovrebbero essere, le nostre priorità?

Perché continuiamo a nutrire rancori, ad odiare, ad alimentare dissapori, a fomentare la violenza, nelle sue diverse forme, e non investiamo, invece, il nostro tempo, così breve così fugace così transitorio, ad amare, a curare gli affetti, a coltivare passioni?

Siamo come le foglie!

 

In un itinerario poetico denso, questa immagine, che assurge a vero e proprio topos letterario, percorre l’intera letteratura occidentale e affonda le sue radici in un passo omerico di straordinaria importanza e bellezza, contenuto nel VI libro dell’Iliade, in cui vengono presentati i personaggi di Glauco e Diomede.

La similitudine tra la stirpe delle foglie e quella degli uomini rende efficacemente – a giudicare dalla fortuna che l’immagine stessa ebbe poi nella letteratura di epoche successive – la precarietà della vita umana, connotata da un andamento ciclico e determinato.

 

Il poeta greco Mimnermo, vissuto tra Colofone e Smirne durante il VII secolo a.C., riprese l’immagine omerica e l’adattò alla sua visione del reale, orientata alla passiva e malinconica constatazione della propria essenza fugace ed effimera.

Comune denominatore della vita di uomini e foglie è la brevità.

 

Anche Semonide di Amorgo, in un frammento, riprende il paragone, facendo emergere il contrasto tra la realtà e l’inconsapevolezza degli uomini, convinti di essere eterni.

 

In ambito latino, una riscrittura piuttosto celebre proviene da un passo dell’Eneide:

«Là tutta una folla correva disordinata alle sponde,/ madri e uomini e corpi spenti di eroi generosi/ e fanciulli e vergini che non videro nozze/ e giovani bruciati sul rogo davanti agli occhi dei padri./ Erano molti: quante foglie nei boschi al primo freddo d’autunno/ si staccano e cadono, o quanti uccelli dal mare lontano/ vengono a terra e si radunano quando l’inverno/ li spinge oltre l’onda o ai lidi sereni»

Ci troviamo nella cosiddetta catabasi del poema, ovvero l’episodio riguardante la discesa agli Inferi di Enea, modellata sul relativo canto omerico. All’ingresso degli Inferi, Enea vede una folla disordinata ed eterogenea che si accalca in prossimità del fiume Acheronte in attesa di essere traghettata e che ricorda le foglie nei boschi d’autunno. Il passo virgiliano verrà poi richiamato nel contesto affine dell’Inferno dantesco e, precisamente, nel terzo canto.

 

Nel vestibolo dell’Inferno, Dante Alighieri descrive una scena simile: «Come d’autunno si levan le foglie/ l’una appresso dell’altra, infin che il ramo/ vede alla terra tutte le sue spoglie;/ similmente il mal seme d’Adamo/ gittansi di quel lito ad una ad una,/ per cenni come augel per suo richiamo».

 

Si riallaccia poi a Omero un celebre frammento dei Canti leopardiani: «Umana cosa picciol tempo dura,/ e certissimo detto/ disse il veglio di Chio,/ conforme ebber natura/ le foglie e l’uman seme». Il poeta recanatese fa riferimento alla comunanza di sorte che attende uomini e foglie, servendosi dei versi del «veglio di Chio» e ribadendo la condizione di estrema transitorietà dell’uomo.

 

Tra Otto e Novecento, il poeta Rainer Maria Rilke, in bilico tra uno spirito decadente e neo-romantico, compose una lirica debitrice di immagini radicate nel tessuto letterario europeo:

«Le foglie cadono, cadono lontano/ quasi giardini remoti sfiorissero nei cieli; con un gesto che nega cadono le foglie./ E ogni notte pesante cade la terra…/dagli astri nella solitudine./ Tutti cadiamo. Cade questa mano/ e così ogni altra mano che tu vedi./ Ma tutte queste cose che cadono, Qualcuno/ con dolcezza infinita le tiene nella mano ».

Come si legge, il destino di finitudine accomuna tutti gli esseri. Questa idea viene riscattata abilmente nel distico finale da una speranza spiritualistica, rappresentata da una mano demiurgica che sorregge gli elementi caducei e caduti.

Di gran lunga meno provvidenzialistica è la celeberrima lirica di Giuseppe Ungaretti, Soldati. La scarnificazione del discorso, ridotto a parola nuda e cruda, essenziale, in rispondenza  ai canoni della poesia ermetica, mette a fuoco i sentimenti del poeta, investito dell’ineludibile compito di descrivere la tragedia della guerra.

In maniera estremamente diretta, il poeta rievoca la sua spaventosa e dilaniante incertezza: «Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie».

Ebbene, proprio questa consapevolezza dell’essere come foglie sugli alberi d’autunno deve spingerci a superare i nostri egoismi, a travalicare i confini angusti delle nostre chiusure mentali e culturali, ad abbattere muri e costruire ponti, a considerare il nostro prossimo come una risorsa da accogliere e valorizzare e non come un ostacolo o un limite da respingere e allontanare.

Le foglie cadono, cadono lontano/ quasi giardini remoti sfiorissero nei cieli … Tutti cadiamo. Certamente, ma prima che tutte queste cose – sentimenti, affetti, passioni, ardori – sfioriscano in giardini remoti nei cieli, possiamo tenerle con dolcezza infinita nelle nostre mani e donarle, condividerle, viverle insieme alle persone a noi più care e per noi più significative.

Solo così potremo non sentire, o sentire meno, che ogni notte pesante cade la terra dagli astri nella solitudine.