Amurri: «Su Di Matteo si è guardato il dito e non la luna»

SECONDA PARTE. Le riflessioni e le analisi della giornalista d’inchiesta Sandra Amurri su cosa è accaduto al Dap e sulla vicenda del giudice antimafia Nino Di Matteo.

Amurri: «Su Di Matteo si è guardato il dito e non la luna»
Sandra Amurri (profilo fb)

Sandra Amurri, oggi inviata de Il Fatto Quotidiano, è tra le più esperte giornaliste del nostro Paese. Ha realizzato tantissime inchieste su mafia, politica e malaffare. Ha collaborato con il mensile Historia, Epoca, Panorama, La Repubblica, Sette, Corriere della Sera, L’Unità e L’Espresso. Nella lunga conversazione che abbiamo avuto con lei nei giorni scorsi, abbiamo ricostruito cosa è accaduto al DAP, sulla vicenda di Nino Di Matteo e al CSM. Andando anche oltre la semplice cronaca, ma sollevando interrogativi e riflessioni su quanto accade.   

Dopo aver ricostruito cosa è accaduto tra Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede, Sandra Amurri ha sottolineato che «al posto di riflettere su cosa ha detto Di Matteo e sulla gravità dei fatti si è spostato l’obiettivo, guardando il dito al posto della luna per ragioni di necessità mediatica, ovvero sul fatto che ha telefonato alla trasmissione di Giletti e affermando che un magistrato del Csm non dovrebbe telefonare ad una trasmissione televisiva»

Polemiche che non sono nuove nel dibattito pubblico italiano, le attuali possono ricordare quelle che abbiamo visto già dai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?

«Ci si è dimenticati quando Falcone era ospite delle trasmissioni di Costanzo e di Samarcanda o quando era editorialista de La Stampa, ricevendo le stesse identiche accuse? Ci si è dimenticati quando Paolo Borsellino, dopo che alla Procura di Palermo era stato preferito Meli, ha rilasciato due interviste a Repubblica e L’Unità per denunciare che la nomina di Meli aveva disgregato l’azione fondamentale del pool antimafia di Antonino Caponnetto? Caponnetto aveva affermato di essere disposto ad andare in pensione perché sicuro che al suo posto sarebbe stato nominato Giovanni Falcone. Borsellino all’indomani della nomina di Meli disse che un amico l’aveva tradito, riferendosi ad un amico magistrato dentro il Csm che aveva detto avrebbe votato Falcone e invece votò Meli. Sono le scelte dell’organo di autogoverno della magistratura che hanno inciso nella lotta alla mafia come abbiamo visto: quel patrimonio è andato disperso, Falcone fu costretto a lasciare Palermo ed accettare la proposta di Claudio Martelli di andare a Roma.

La procura nazionale antimafia fu un’idea di Falcone per avere un coordinamento di tutte le procure antimafia e fu attaccato di voler essere lo sceriffo e di avere smanie di protagonismo. Paolo Borsellino nutriva perplessità sulla procura nazionale antimafia e disse che se andava a ricoprire quell’incarico Falcone ogni perplessità cadeva. Ma Falcone non ricoprì quell’incarico perché ancora una volta il Csm gli preferì Agostino Cordova. Martelli, da ministro della giustizia, non diede il suo consenso a quella nomina e nel frattempo Falcone fu assassinato a Capaci e successivamente fu nominato Bruno Sicari. Falcone, in quella che possiamo definire la sua creatura, non mise mai piede.

L’azione di Bonafede è stata l’azione di un movimento che aveva necessità di issare una bandierina -  le altre erano state lasciate, non ne aveva portata a casa nessuna dal TAV alla chiusura dell’Ilva e potremmo citarne tante – anche davanti a tutto un movimento antimafia che l’aveva appoggiato e votato».

Nella recente audizione presso la commissione parlamentare antimafia Nino Di Matteo ha dichiarato tra le altre che tra il settembre 2017 e nelle settimane precedenti le elezioni politiche del 2018 Luigi Di Maio, all'epoca capo politico del Movimento 5 Stelle, lo ha contattato due volte per proporgli un incarico ministeriale in caso di vittoria alle elezioni. La prima volta Di Maio fece riferimento «in maniera alternativa, indistinta, o alla carica di ministro della Giustizia o dell'Interno. La seconda volta fu molto più preciso e mi propose di accettare il ruolo di Ministro dell'Interno». Ma, dopo le elezioni, durante le settimane convulse di trattative per la formazione del nuovo governo - poi nato dal «contratto» tra i 5 Stelle e la Lega di Salvini - di quest'offerta non rimase traccia.

«Qualcuno ha fatto retrocedere e, come se nulla fosse (e qui si comprende la statura dell’uomo e del ministro), cambiò idea. Quando tutto è venuto fuori, hanno pagato il direttore del DAP e il direttore generale Giulio Romano. Bonafede ha lasciato quell’ufficio, strategico, scoperto per quasi sei mesi dall’addio di Piscitello alla nomina di Romano. E adesso, dopo quanto accaduto nei mesi scorsi, se ne sono andati entrambi. Ad oggi noi cittadini non sappiamo perché si sono dimessi, non è stato emesso nessun comunicato. Su Il Fatto Quotidiano ho scritto che Romano si era dimesso quando nessuno conosceva la notizia, ripresa poi il giorno dopo da Repubblica, ma ad oggi non esiste nulla di ufficiale. Santi Consolo le ha definite dimissioni «spintanee», spintonate. Probabilmente dopo si saranno accordati, non so su cosa e come, ma non credo si siano sacrificati per nulla: Basentini adesso rientrerà in ruolo nella magistratura e probabilmente verrà nominato in qualche procura importante».  

Nelle scorse settimane, dopo le dimissioni da capo del Dap, era girata la notizia che Basentini era stato nominato in una delle task force governative. Ma, come Sandra Amurri ci conferma durante l’intervista, non ci sono mai state conferme e probabilmente la notizia non è vera.   

«Chi deve ancora dirci cosa è accaduto è il ministro Bonafede, che non ha ancora risposto alla domanda fondamentale: continua ad affermare che era nelle sue prerogative scegliere, nessuno mette in dubbio ciò, ma questo conferma che lui è responsabile delle nomine e non possono bastare le dimissioni dei nominati per esautorarlo delle sue responsabilità. Questo vale anche per il capo dell’ufficio ispettivo, altro ruolo strategico, perché è colui che decide le sorti dei magistrati, che si è dimesso perché indagato a Napoli con l’accusa di fornire notizie riservate ad un imprenditore della nautica in cambio di un posto barca. Ci sono state tutte queste dimissioni e il ministro non dovrebbe rispondere di nessuna responsabilità politica? Il capo di un movimento che ha fatto della trasparenza un suo punto di forza ne viene meno? È necessario essere realisti, le motivazioni che Bonafede potrebbe dare non sono dicibili».

Alfonso Bonafede, ministro della giustizia, è anche il capo delegazione nel governo del Movimento 5 Stelle. Durante l'audizione davanti la recente commissione antimafia Nino Di Matteo ha ribadito - come già nelle scorse settimane - che Bonafede gli disse che «per quest'altro incarico» (quello di direttore degli affari penali in cui era in carica la dott.ssa Donati) non c'erano «dinieghi o mancati gradimenti che tengono».

«De Magistris ha messo insieme diversi tasselli sulla sua vicenda personale, quella delle «toghe lucane», ricordando che a denunciarlo a Salerno fu Basentini, estensore del provvedimento disciplinare nei suoi confronti – vice presidente del Csm era Nicola Mancino, Napolitano presidente della Repubblica e quindi anche del Csm - è stato Giulio Romano. È fondamentale avere memoria, perché tutto ciò che la storia ci insegna prima o poi torna utile. Questo è il punto fondamentale».

 

PRIMA PARTE - «Di Matteo paga per aver processato la trattativa Stato-mafia»