Impastato: «La mafia è nel cuore dello Stato»

SPECIALE Peppino Impastato. INTERVISTA al fratello Giovanni: «Era molto ironico. Si era reso conto che bisognava sfruttare l’arma dell’ironia per sconfiggere la mafia. Prendeva in giro, ridicolizzava. Questa cosa non l’hanno sopportata».

Impastato: «La mafia è nel cuore dello Stato»
Impastato: «La mafia è nel cuore dello Stato»

Nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978 a Cinisi, in provincia di Palermo, un giovane viene ammazzato. Si chiama Peppino Impastato. Oggi tutti conoscono la storia del compagno Peppino. Un “rivoluzionario”, un uomo senza paura. Figlio di mafioso, “legato” – per i suoi rapporti familiari – al mondo criminale. Frequenta suo zio, Cesare Manzella, il boss del posto. Si trova a contatto con Luciano Leggio e Tano Badalamenti, pezzi (di merda) da novanta. Il primo continuerà la carriera criminale con i sanguinari assassini corleonesi, l’altro verrà “posato” da Riina e company. Entrambi arriveranno all’apice dell’organizzazione criminale, nella famosa triade. Insieme a un certo Bontade. Tutti criminali, tutti mafiosi, tutti schifosi.

 

Peppino Impastato non entrerà in quel mondo. Con gli anni, attraverso la cultura, attraverso la sua mente pensante, comincerà a scagliarsi contro quel mondo criminale. Oggi lo ricordiamo per la sua intransigenza, per la sua passione, per i suoi valori, per il suo impegno. Ma, soprattutto, per la sua azione quotidiana: attraverso il giornalismo, la radio, le mostre fotografiche, le contestazioni. È stato un faro in quegli anni, dove nemmeno si nominava la parola “mafia”. E lui aveva il coraggio di sfotterli, utilizzando l’ironia. Di urlare, giustamente, che la mafia (come tutte le mafie) è una valanga di merda.

 

Peppino delegittimava la cultura mafiosa utilizzando le parole. Ed è stato eliminato perché i mafiosi hanno avuto paura delle sue parole modellate con forza e senza alcun timore. Sono passati 42 anni e Peppino Impastato è ancora con noi, per condurre le sue (le nostre) battaglie. Peppino Impastato è stato massacrato, lo hanno imbottito di tritolo e lo hanno fatto saltare in aria sui binari della tratta ferroviaria Palermo-Trapani. E hanno tentato pure di infangarlo. Ma non ci sono riusciti.

 

La sua lezione è ancora attuale. Abbiamo tante armi per sconfiggere questi maledetti. La battaglia è lunga e va condotta anche dal punto di vista politico. Altro insegnamento di Peppino. La politica non è quella cosa lorda che vogliono farci credere. I politici, molti di loro, sono una “cosa inutile” e dannosa. Abbiamo lasciato campo libero. Dobbiamo riprenderci gli spazi occupati da personaggi indegni.

 

Cultura, politica, passione, dignità, onestà. Questi sono gli ingredienti per eliminare il cancro mafioso. Una volta per tutte.

Per ricordare la figura di un gigante abbiamo contattato suo fratello: Giovanni Impastato. E siamo partiti dai ricordi dell’infanzia. «È stato il periodo più bello, più intenso della nostra vita, eravamo molto spensierati. Paradossalmente vivevamo all’interno della tenuta di zio Cesare Manzella, il capomafia che è stato ucciso nel 1963 con l’autobomba.

Noi siamo rimasti un po’ delusi. Pensavamo a questo grande benefattore, che si preoccupava per noi, che giocava con noi. Non soltanto lui, ma anche Luciano Liggio giocava con noi. Era latitante lì, protetto da lui che era il capomafia. Era ricercato da tutte le polizie d’Italia. Poi queste cose ce le ha dette nostra madre».

 

Cosa vedevano i suoi occhi in quegli anni?

«Da subito l’ho preso come un punto di riferimento. In quegli anni lui aveva 15 anni e io ne avevo 10. Da quel momento in poi nasce in me questa figura. Mi affascinava tantissimo perché parlava bene, perché si interessava a me, perché era molto cordiale, era molto intelligente. Mi sono legato tantissimo a lui. Poi iniziano i conflitti in famiglia, dopo la morte dello zio, perché Peppino inizia a fare delle scelte. E in quel momento sono entrato un po’ in crisi. Lui mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto capire quale era la situazione. Fino al punto che viene buttato fuori di casa, perché intraprende la sua attività di rottura. Da quel momento in poi perdo quel punto di riferimento, perdo quel legame affettivo. Peppino diventa un amico, un compagno di lotta. Ero costretto, spesse volte, a incontrarlo fuori. Il rapporto diventa difficile, molto complicato, nel senso che veniva un po' meno la comunicazione. Successivamente, quando si era verificato tutto in famiglia in quel modo, lo consideravo un po’ responsabile. Per le sue scelte radicali, per il suo modo di contestare la famiglia. Quello è stato un momento di crisi, però mi sono reso conto che lui aveva sempre ragione. Negli anni dell’attività lo aiutavo, lo sostenevo. Però non avevo la sua personalità, il suo carisma, la sua sensibilità. Ma il rapporto lo abbiamo mantenuto sempre forte».

 

Come possiamo definire Peppino con una parola?

«Rivoluzionario. Credo che questa parola comprenda la lotta, l’impegno, la rivoluzione morale e culturale. Peppino esprimeva, incarnava la figura del rivoluzionario».

 

In Peppino scatta la molla del cambiamento con l’episodio dell’autobomba del 1963?

«La molla scatta con questo episodio. Prima andava tutto bene, non c’erano problemi. Le contraddizioni iniziano dopo. Quando Peppino inizia a riflettere e a capire che eravamo stati ingannati. Quel mondo era un falso mondo, basato sulla menzogna, sull’ipocrisia. Loro non pronunciavano mai la parola mafia, il mafioso non la pronuncia mai. Loro volevano dimostrare di essere persone dedite a pensare alle persone bisognose, a ribellarsi alle ingiustizie dello Stato, a sostituirsi allo Stato. Questo ci facevano capire, ma non era vero. Di tutto questo ce ne siamo resi conto dopo. E così comincia a contestare il padre, comincia a contestare la società. Si rende conto di cosa era la mafia. Fonda il giornale L’Idea, siamo nel 1965».

 

Che differenze c’erano tra il capomafia, poi ucciso, Manzella e Tano Badalamenti?

«Fra Badalamenti e Manzella non c’erano molte differenze. Gaetano Badalamenti ha raccolto quell’eredità. Manzella non cercava lo scontro frontale, voleva sempre dialogare con le Istituzioni. Era un criminale, anche lui ha iniziato il traffico della droga, anche lui ha commesso i suoi omicidi, è stato mandante di omicidi. Badalamenti era diverso rispetto a quello che è avvenuto dopo, rispetto ai Provenzano, ai Riina, dei carnefici che sono arrivati allo scontro con le Istituzioni, che hanno provocato dei guasti interminabili dove lo Stato è stato costretto, perché lo Stato non lo vuole risolvere questo problema, a prendere qualche iniziativa. Le stragi Badalamenti non le avrebbe commesse. Badalamenti è stato il mandante dell’omicidio di Peppino, condannato all’ergastolo, però debbo riconoscere che lui la strategia dello stragismo non l’avrebbe mai portata avanti».

 

Perché lo Stato non vuole risolvere questo problema?

«Perché la mafia è dentro lo Stato, nel cuore dello Stato».

 

Ancora oggi?

«Sì. Il problema non è stato ancora risolto. Guardiamo agli ultimi episodi…».

 

Quali episodi?

«Le scarcerazioni. Ma chi è il responsabile? Chi è stato? Ammetto la buona fede del Ministro, ammetto la buona fede di Di Matteo, ammetto la buona fede di tutti, ma ci deve essere questo responsabile. E allora andiamolo a prendere».

 

Quando e come arriva la politica nella vita di Peppino?

«Arriva subito. Lui lo scrive, “Arrivare alla politica nel lontano 1965 su basi puramente emozionali”, però lui è stato molto agevolato. Gli anni Sessanta sono stati i più intensi, anni di lotte, di trasformazioni. I giovani ci credevano, lottavano, studiavano. Peppino è figlio di quel tempo. In Peppino non troviamo solo una forte coscienza critica nei confronti della mafia, ma soprattutto politica. Diventa un militante di estrema sinistra con le sue idee, contestando anche quei vecchi regimi comunisti che erano logori e che di comunismo non avevano nulla».

 

Peppino, quindi, non si occupava solo di mafia ma anche di sociale.

«Portando avanti anche queste battaglie sociali si scontrava con la mafia. Fare battaglie nel sociale significa combattere la mafia».

 

Quando nasce la frase “La mafia è una valanga di merda”?

«Nel 1967. Molti sono convinti che questo articolo su L’Idea sia uscito. È stata mia madre a sequestrarlo. Si è recata da quelli che stampavano il giornale per impedire l’uscita. Aveva paura che i mafiosi lo uccidessero».

 

E poi c’è un’altra idea rivoluzionaria: la radio.

«Era un grande comunicatore. Inizia il suo impegno con L’Idea Socialista e lo chiude, perché viene ucciso, con Radio Aut. In mezzo sempre le sue battaglie».

 

Nelle trasmissioni radiofoniche i personaggi locali vengono “battezzati” con dei soprannomi. Era una passione di Peppino?

«Era molto ironico. Si era reso conto che bisognava sfruttare l’arma dell’ironia per sconfiggere la mafia. Prendeva in giro, ridicolizzava. Questa cosa non l’hanno sopportata. Se attaccavi un mafioso, facevi una denuncia, successivamente, lui recuperava. Ti poteva dare pure l’onore delle armi. Ma quando i mafiosi iniziano a perdere consensi sociali, perché Peppino faceva ridere il Paese con tutti questi nomignoli rendendoli esseri ridicoli e insignificanti, non potevano più recuperare. Ecco perché decidono di spegnere questa mente lucida. Questo è stato il primo caso di lotta alla mafia con l’ironia. Dopo ci sono stati i film e tante altre cose. Anche Pif lo riconosce e dice di essersi ispirato a Peppino».

 

Quindi da una parte l’ironia e dall’altra la cultura. Peppino era un uomo di cultura.

«Con il Circolo Musica e Cultura faceva riflettere molto i giovani. Lui diceva sempre che bisogna studiare per conoscere il fenomeno, per sconfiggerlo, per affrontarlo. Organizzava lo studio collettivo. La biblioteca itinerante è stata una cosa bellissima. La cultura è la base di tutto».

 

Come veniva percepito l’impegno di Peppino a Cinisi? Quali erano le reazioni della cittadinanza?             

«Lui veniva considerato un alieno sotto certi aspetti. Uno che rompeva gratuitamente le scatole. Veniva considerato scomodo. Faceva le denunce contro il traffico di droga e la gente si è arricchita in quel Paese. In quegli anni non c’erano controlli, la gente andava e veniva dall’America, l’aeroporto era in mano alla mafia. In alcuni casi, anche per paura, la gente si allontanava. Però nell’ultimo periodo Peppino stava acquisendo molti consensi. I suoi comizi erano affollati, le trasmissioni in radio erano seguite. La gente stava cominciando ad aprirsi. Poi è arrivato l’omicidio».

 

Prima di arrivare a quella maledetta notte dell’8 maggio 1978 dobbiamo fare un ulteriore passaggio. Peppino decide di candidarsi alle elezioni comunali di Cinisi del 14 maggio. L’ultimo schiaffo ai mafiosi locali?

«Sarebbe stato sicuramente eletto, con meno voti rispetto a quando è stato eletto, successivamente, da morto. I mafiosi hanno avuto ancora più paura, perché all’interno del consiglio comunale, sicuramente, li metteva in difficoltà. Lo avrebbero dovuto ascoltare, era una figura istituzionale, non potevano far finta di nulla, non potevano nascondere le carte. Prima i cittadini non potevano vedere certe carte. E la mafia ha avuto paura».

 

La goccia che fa traboccare il vaso e che porta alla decisione finale di eliminare fisicamente Peppino è la candidatura in consiglio comunale?

«Sicuramente sì. Quando Peppino decide di candidarsi consigliere comunale, è chiaro, i mafiosi capiscono che bisognava agire al più presto possibile. Bastava una settimana per rompere gli equilibri e sarebbe stato più difficile ucciderlo. Lo hanno camuffato come forma di attentato, con l’appoggio di una parte dell’Arma dei carabinieri, dei servizi segreti, tutta questa sporcizia che gira attorno a settori istituzionali. Badalamenti era molto amico dei carabinieri e delle istituzioni. Non è stato difficile organizzare l’omicidio, sotto forma di attentato terroristico. Non a caso i carabinieri e i giudici di allora non hanno fatto altro che depistare le indagini, facendole a senso unico. Cercando di infangare la sua memoria. Facendolo passare per terrorista. Senza l’appoggio delle istituzioni Badalamenti non avrebbe mai commesso questo omicidio in questo modo. Magari lo avrebbe commesso in un momento diverso, in maniera completamente diversa».

 

Questo omicidio viene commesso a tavolino partendo dal ritrovamento del corpo dell’on. Aldo Moro? C’è un collegamento tra i due fatti? Badalamenti era stato informato?

«È difficile da dimostrare, anche se nella sentenza del processo Pecorelli, anche se poi sono stati assolti tutti, viene fuori che Badalamenti sapeva dell’omicidio di Moro o, quanto meno, dopo che c’era stato un tentativo di una parte della DC di salvare l’On. Moro. C’è stato un dialogo tra i Salvo e Tano Badalamenti, che ha incaricato Buscetta, che era recluso nel carcere di Cuneo dove c’era anche Curcio insieme a tanti altri, di parlare con i brigatisti. Bisogna vedere se tutto questo è vero. Sembrerebbe che i brigatisti avrebbero detto che in quei giorni lo avrebbero ucciso e Badalamenti già sapeva qualcosa. O si è ispirato a quel clima. Ma non mi sento in grado di confermarla questa cosa».

 

Lei come la ricorda la sera dell’8 maggio del 1978? Quando scatta l’allarme?

«L’allarme scatta nei compagni. Gli stessi compagni tentarono di non allarmare la mia famiglia, perché pensavano di poterla risolvere la cosa. Noi aspettavamo Peppino, anche lui doveva partecipare all’invito di questi ospiti che venivano dagli Stati Uniti. Noi non ci siamo troppo preoccupati perché lui, abitualmente, veniva tardi, non cenava, soprattutto quando c’erano le elezioni. Quella sera lui non è venuto. A un certo punto bussano alcuni compagni e chiedono di Peppino. E poi l’indomani mattina è successo quello che è successo».

 

Da chi avete appreso la notizia?

«Dai carabinieri che sono venuti a fare la perquisizione a casa nostra. Poi mi hanno portato in caserma, mi hanno interrogato. Un interrogatorio terribile, tutto in funzione dell’attentato terroristico».

 

Lei è andato sul luogo del massacro?

«No, alcuni compagni me lo hanno impedito. Sul luogo del massacro ci sono andati i suoi compagni che, addirittura, hanno raccolto i resti perché i carabinieri non volevano fare più indagini. Hanno fatto di nascosto alcune foto che sono rimaste nella storia».

 

E per arrivare alla verità avete dovuto aspettare quasi trent’anni.

«Più di venticinque anni. Se per verità si intende i processi con la sentenza abbiamo dovuto aspettare quasi trent’anni, però avevamo la verità storica».

 

In questa storia c’è una donna combattiva: la signora Felicia.

«Lei ha avuto un ruolo importante. Sotto certi aspetti è stata determinante. Subito dopo va avanti con le sue denunce. Non ha problemi a denunciare gli autori di questo delitto. Non si tira indietro. Fa nomi e cognomi. Questa è stata una sorpresa per tutti, spiacevole soprattutto per la mafia. Hanno capito che noi stavamo facendo sul serio, che non avevamo nessuna intenzione di mollare, di tirarci indietro. Non si aspettavano una reazione del genere, soprattutto di mia madre. Mia, nostra e anche dei compagni di Peppino. I primi due o tre anni sono stati loro in prima fila e hanno rischiato pure la vita nel fare le denunce».

 

Qual è stato il ruolo di suo padre? Ha protetto Peppino fin quando ha potuto?

«Il ruolo di mio padre è un po’ particolare. Lui lo butta fuori di casa, lo ripudia come figlio perché era comunista, perché era eretico, perché parlava male dei suoi parenti mafiosi. Però poi quando lo vede in pericolo, nel film (I Cento Passi, ndr) viene fuori questo particolare, tenta di salvarlo. Si reca negli Stati Uniti in cerca di protezione per il figlio. Quando Badalamenti gli comunica che lo volevano uccidere va a parlare con gli amici americani. Poi, purtroppo, il fatto non si è potuto più risolvere perché hanno deciso di ucciderlo. Anche quando è stato buttato fuori di casa è stata una forma di protezione per dire ai suoi amici mafiosi “ci sto pensando”. Però, poi, è successo quel che è successo».

 

Nel film, che lei ha citato, c’è la scena della morte di suo padre. Ma è stato un suicidio o un omicidio?

«È stato un omicidio, anche se noi non abbiamo una sentenza. Purtroppo c’era stato il tentativo di aprire un fascicolo anche su questo, ma i responsabili erano tutti morti».

 

Qual è la spiegazione di questo omicidio?

«Mio padre faceva parte dell’organizzazione mafiosa, vincolato dal giuramento. In alcuni casi, quando Cosa nostra ordina, devi eseguire e non ti puoi ribellare. In quel caso Luigi Impastato doveva uccidere suo figlio. Lui non si poteva permettere di tentare di salvarlo. In quel caso doveva morire. È stato ucciso anche perché poteva diventare pericoloso, mio padre era una testa calda».

 

Quali battaglie condurrebbe oggi Peppino Impastato?

«Sarebbe accanto a noi per condurre le battaglie contro il razzismo, a favore degli immigrati. Condurrebbe le sue battaglie insieme ai movimenti che nei loro territori difendono le terre e la natura come i No Tav, come i No Muos, come i No Triv. Sarebbe al fianco dei movimenti contro la globalizzazione, contro lo squilibrio delle risorse e a quel mondo cattolico di base che porta avanti quelle battaglie di civiltà e di democrazia. Sarebbe, sicuramente, deluso della situazione politica attuale, sarebbe deluso della sinistra che è scomparsa. Però le battaglie sociali, di civiltà e di democrazia, a prescindere, bisogna portarle avanti. Sono battaglie per i diritti, per il rispetto della Costituzione e per la dignità umana. Peppino sarebbe accanto a noi su queste battaglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Franco Zecchin
10 maggio 1978. Funerali di Peppino

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