Coronavirus in Abruzzo, sanità allo stremo e denunce di scarsa sicurezza degli operatori

Allarme per la tenuta degli ospedali coinvolti nell’emergenza: Pescara ormai sull’orlo dell’esaurimento. Forti denunce sulla mancanza di tutele per medici, infermieri e operatori socio-sanitari

Coronavirus in Abruzzo, sanità allo stremo e denunce di scarsa sicurezza degli operatori

Capienza massima raggiunta nella terapia intensiva dell’ospedale di Pescara e trasferimento urgente di sette pazienti all’ospedale di Penne dove è stata riattivato il reparto di rianimazione dopo il declassamento degli anni scorsi. Questa notizia, nei giorni scorsi, è stata tra le più drammatiche sul fronte della sanità pubblica abruzzese, sempre più allo stremo.

Il declassamento dell’ospedale di Penne è stato uno dei massacranti tagli operati in questa regione negli ultimi dodici anni, dopo l’esplosione del debito della sanità pubblica e di sanitopoli. Durante la conferenza stampa a Pescara, del 19 marzo scorso, il professor Alberto Abani dell’unità di crisi regionale per il coronavirus non ha nascosto la sua preoccupazione, affermando che potrebbe esserci «un momento in cui non potremo garantire assistenza a tutti i pazienti».

Nel precedente articolo abbiamo posto l’attenzione sui fondi pubblici erogati alle cliniche private anche in Abruzzo e sul loro ruolo nella gestione dell’emergenza alla luce della scarsità di posti letto ed attrezzature. Il giorno successivo alla pubblicazione del nostro articolo il presidente della regione Marco Marsilio ha firmato l’ordinanza regionale numero 7 in cui tra i vari provvedimenti viene ordinato «alle strutture private accreditate, per tutto il periodo emergenziale COVID-19, di accogliere i pazienti NO-COVID qualora trasferiti dalle strutture pubbliche della rete di emergenza regionale, rimodulando la loro attività di elezione». Il coinvolgimento delle strutture private parte dal decreto legge numero 18 del 17 marzo 2020 che indica anche come calcolare gli indennizzi ai privati coinvolti e che all’articolo 3 stabilisce che le regioni possono stipulare contratti «per l’acquisto di ulteriori prestazioni sanitarie in deroga al limite di spesa» fissato con un decreto dell’ottobre scorso. Dopo aver foraggiato per anni le cliniche private (mentre si chiudevano gli ospedali pubblici), che oggi vantano attrezzature di prim’ordine ma non accoglieranno i pazienti colpiti dal coronavirus, e reso sempre più labile il tetto dei finanziamenti pagheranno ancora le casse pubbliche?

Al peso sempre maggiore che gli ospedali stanno sopportando, giunti ormai al limite delle possibilità, va aggiunta una seconda emergenza: medici, infermieri e operatori socio sanitari costretti a sforzi eroici davanti uno stress immane denunciano l’assenza di dispositivi di sicurezza.

L’Unione Sindacale di Base ha definito l’attuale situazione della sanità pubblica abruzzese un pandemonio dove «vige il si salvi chi può» con l’assenza di «una cabina di regia regionale capace di fornire disposizioni e dpi», i dispositivi di protezione individuale. Ci sono solo procedure interne alle Asl denuncia il sindacato «tese, nell’ambito della grave penuria esistente, al razionale utilizzo di mascherine, occhiali, cuffie, camici, guanti e calzari monouso, nella speranza che - prima o poi - la Divina Provvidenza operi per fornire il necessario» e pone varie richieste alla regione e alle asl, tra cui l’assunzione di personale con avvisi pubblici e con provvedimenti tampone tramite il ricorso alle agenzie private di collocamento e la fornitura immediata di tutti i dispositivi di sicurezza necessari, «se non protetti gli operatori ad ogni fine turno potrebbero trasformarsi in veicolo di infezione nei confronti della collettività tutta» e «tutto il sistema deflagrerebbe con le prime vittime da annoverarsi proprio tra gli operatori della sanità».

Un quadro drammatico nel quale si sta pagando il conto di «mille deficienze economiche e organizzative che hanno permesso la chiusura di ospedali, il depotenziamento della sanità nei territori, il decadere dell’efficienza del 118 e la riduzione dei posti letto» mentre nei due ospedali di Chieti «intere aree svuotate e smembrate (rubati infissi, cavi elettrici, divelti muri ecc.) sono ora solo il ricettacolo di immondizie».

Il 20 marzo la stessa Usb ha presentato due esposti alle procure di Lanciano e Chieti per denunciare «l’insufficiente fornitura al personale medico-sanitario di idonei DPI» e che addirittura a «parte del personale anche a fronte dell’espandersi e dell’acuirsi dell’epidemia da Covid-19, non è previsto l’uso di alcun dispositivo di protezione». L’assenza del numero adeguato di mascherine, guanti e altre protezioni è stato uno dei punti centrali dell’intervento di Marsilio nella conferenza stampa del 19 affermando che la regione sta cercando di acquistarne non solo tramite i canali tradizionali della Consip e della Protezione Civile ma anche «attraverso canali di mercato parallelo» correndo anche il rischio, pur di cercare di sopperire, di truffe. Parole testuali o quasi che il lettore può verificare facilmente recuperando la registrazione dell’intera conferenza stampa e che fanno comprendere la gravità dell’attuale situazione.

L’assessore regionale Verì, durante la conferenza stampa, è intervenuta anche sulle polemiche sorte intorno ad alcuni ospedali della provincia di Chieti e la scelta degli ospedali dedicati solo all’emergenza coronavirus tra cui Ortona e su cui c’erano stati timori per la permanenza del reparto dedicato a senologia e oncologia. Secondo la Regione ci saranno percorsi dedicati e nessun contatto tra i pazienti covid19 e le donne assistite.

Erano stati invece addirittura smantellati i reparti dell’ospedale di Atessa, con pazienti e molte attrezzature trasferite incredibilmente proprio ad Ortona, perché lì doveva sorgere l’ospedale Covid. Ma, ha dichiarato l’assessore Verì, «adesso al ministero giace la documentazione di Atessa come presidio territoriale di assistenza, quindi adesso Atessa è declassificata e non è definita come ospedale» e secondo il ministero «non ci sono i requisiti strutturali».

Atessa è uno degli ospedali finiti negli anni nei piani di tagli e rientri dal debito della sanità pubblica, dodici anni dopo l’avvio ancora – come abbiamo ricordato nel precedente articolo – superiore agli 80 milioni di euro.