«Ho partecipato alla cattura di Brusca, ma non credo più nello Stato»

INTERVISTA. Parla Luciano Traina, il fratello di Claudio, l’agente di scorta ucciso in via D’Amelio, insieme ai colleghi Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Agostino Catalano. L’ex ispettore della polizia di Stato esprime una sua convinzione: «le “menti raffinatissime” avrebbero voluto utilizzarmi. Brusca non doveva essere catturato vivo». Sulla vicenda Bonafede: «In lui non ci vedo la malafede, però vedo tanti fili che lo manovrano».

«Ho partecipato alla cattura di Brusca, ma non credo più nello Stato»
Luciano Traina

«In questi anni lo Stato si è comportato come sempre. Assente. Almeno verso di noi. Molto, molto assente. Non ci credo più». Sono parole amare pronunciate da Luciano Traina, già ispettore della polizia di Stato e fratello di Claudio, l’agente di scorta ucciso dal tritolo ventotto anni fa, in via D’Amelio, insieme al giudice Paolo Borsellino e ai colleghi Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Agostino Catalano.

 

Luciano Traina ha una carriera importante alle spalle, piena di encomi. Un impegno costante all’interno delle Istituzioni. Si è contraddistinto contro le Brigate Rosse a Milano. Mentre a Palermo si è trovato faccia a faccia con u verru (il porco) Giovanni Brusca, il killer di Cosa nostra. Lui, il fratello di una vittima, ha tratto in arresto il mafioso. Diventato, poi, collaboratore di giustizia. Abbiamo raccolto il pensiero dell’ex ispettore nel giorno della commemorazione della strage di Capaci, per ricordare anche i vivi, come il Pm Di Matteo, minacciato di morte dai “poteri forti”.

 

«Fino a qualche anno fa speravo, ma adesso sono arrivato alla frutta. Questa mattina sono andato in caserma dove c’è la lapide dei ragazzi ad onorare loro. Tranne il questore e il nuovo prefetto non c’era nessuno. Ho partecipato per i ragazzi, ma il resto è solo noia, apparenza, passerella. Sinceramente sentire alcuni familiari è disgustoso al massimo».

 

Perché? A cosa si riferisce?

«Mi riferisco a tante cose. Certe persone vogliono soltanto apparire».

 

Lei dice che fino a un certo punto ha creduto nello Stato. Quando si registra il cambio di rotta? Qual è il momento di rottura?

«Nel momento in cui noi cittadini normali, disarmati, abbiamo fatto la scorta civica a Di Matteo. Uno Stato non deve mandare avanti la popolazione per sostenere e garantire una sicurezza a un magistrato che vuole la verità, insieme ai familiari. Quindi ci siamo adoperati noi, senza armi, davanti al Tribunale. Non avrebbero ucciso solo un magistrato, ma persone inermi».

 

Lei si riferisce anche alle ultime polemiche che hanno coinvolto il ministro Bonafede?

«L’ho incontrato l’anno scorso in via D’Amelio, abbiamo avuto modo di parlare civilmente. Quando sono salito sul palco ero incazzato nero perché, in questi anni, ci sono state solo promesse e niente fatti. Noi vogliamo che ci sia giustizia. Sul palco mi sono tolto alcuni sassolini dalla scarpa, citando i predecessori di Bonafede che, come ogni anno, promettevano questo e quello. Quando sono sceso dal palco lui mi ha stretto la mano, ero insieme ad Antonio Vullo, l’unico superstite della strage di Borsellino. Ed io, come un cretino, ho creduto nelle sue parole. Dall’anno scorso, ad oggi, non è arrivata né una chiamata né un invito. L’unico regalo che ci ha fatto Bonafede è che ha scarcerato tutti questi mafiosi dal 41 bis. A seguito di questo abbiamo protestato».

 

E siete stati coinvolti da una trasmissione di Mediaset.

«A seguito di questa protesta è arrivato l’invito da un famoso, in negativo, giornalista (Giordano) che inviò una troupe per raccogliere le nostre proteste dovute a queste scarcerazioni. Ci avevano promesso di mandare tutto in onda. Quindi mi sono tolto tutti i sassolini dalla scarpa».

 

A chi si è rivolto?

«Al nostro Presidente della Repubblica. Dicendo che anche lui, avendo avuto un lutto in famiglia, non aveva speso una parola. Essendo anche presidente del CSM. Parlando pure di Bonafede. La trasmissione è andata in onda e hanno deciso di tagliare tutti i nostri interventi. Dopo due giorni è andata in onda la trasmissione di Giletti, così è uscito fuori tutto. Abbiamo fatto una lettera contro Giordano ma nessuno si è degnato di darci una risposta».

 

In questo Paese, quindi, non si vogliono affrontare certi temi?

«La tv italiana, sia Mediaset che la Rai, preferisce invitare i figli dei mafiosi. Noi familiari non veniamo coinvolti in questi dibattiti. Nessuno vuole affrontare la realtà di quello che succede, di quello che è successo e di quello che continua a succedere».

 

Cosa ha provato dopo aver ascoltato la telefonata del Pm Di Matteo nella trasmissione di Giletti?

«Ho provato sdegno, mortificazione. Sinceramente un pochino ci credevo in Bonafede. In lui non ci vedo la malafede, però vedo tanti fili che lo manovrano. Anche nella fiducia che ha dato Renzi, se ascoltiamo bene, lui manda tanti messaggi. Una caramella a Di Matteo e un messaggio chiaro verso Napolitano. Da una parte mi fa tenerezza Bonafede, ma non lo vedo nel posto dove sta. In quei posti ci vorrebbero personaggi, come dicono a Palermo, con i canini affilati».

 

Ci vorrebbe un Di Matteo, un Gratteri?

«Certo. In Di Matteo vedo un Falcone, un Borsellino. Le persone giuste non possono stare nei posti giusti, questa è la verità».

 

Questo ministro (Bonafede) e questo Governo sono adeguati a contrastare le mafie?

«No, per niente. Non mi venga a dire Bonafede che non sapeva quando hanno scarcerato il primo, il secondo, il terzo. E siamo arrivati quasi a 500 mafiosi. E lui non sapeva nulla. Che Di Matteo ha frainteso. Non possiamo crederci».

 

Lei ha perso un fratello nella strage di via D’Amelio e, nello stesso tempo, è stato un rappresentante delle forze dell’ordine. Cosa ha provato a seguito di tutte queste scarcerazioni?

«Che sono uno stronzo».

 

In che senso?

«Ho fatto patire la mia famiglia dopo la morte di mio fratello. Prima lavoravo, poi ho cominciato a lavorare di più. Ho partecipato alla cattura di Brusca, hanno voluto forzatamente che partecipassi alla cattura».

 

Che significa “forzatamente”?

«In quel periodo, quando ci sono state tutte le indagini per la cattura di Brusca, gestivo dei pentiti di mafia, coloro che scioglievano le persone nell’acido. Andavo sempre in giro con il dott. Sabella e con il dott. Prestipino, due magistrati di un certo livello. A Palermo c’ero e non c’ero. Due o tre giorni prima che si catturassero i fratelli Brusca mi hanno bloccato. In quei giorni non dovevo partire perché la squadra mobile aveva bisogno di personale. Ma io ero distaccato per queste faccende, per questi  interrogatori con i magistrati».

 

Quindi, “forzatamente”?

«Forzatamente mi ritrovai dentro il furgone. Eravamo una decina di persone impegnate per il blitz. Il furgone era a distanza di 100 metri dalla villa dei Brusca. Arrivato il segnale, siamo piombati dentro. Hanno voluto con forza che io ci fossi».

 

Perché?

«L’ho capito negli anni. Perché dopo la cattura di Brusca, e me lo ritrovai davanti, è successo che l’indomani, rientrato a casa dopo aver passato la notte con i miei colleghi di squadra per la perquisizione dell’abitazione, i giornali cominciarono a scrivere. Affibbiandomi delle dichiarazioni mai rilasciate. Questi erano i titoli: “Io Luciano Traina ho messo le manette a Brusca e ho buttato le chiavi”. Strada facendo Brusca è stato malmenato, si vede anche in una fotografia. Il suo volto è tutto tumefatto. Ho ancora quella copia del giornale. Ma io non ho mai parlato con i giornalisti».

 

Tutto questo cosa significa?

«Poi andiamo a scoprire chi era La Barbera (Arnaldo, il superpoliziotto e agente dei Servizi, nda), il questore che ha voluto forzatamente il mio impiego, che faceva parte dei Servizi deviati. Brusca non doveva essere catturato vivo? Brusca doveva essere catturato tre mesi prima in un altro paesino vicino Palermo. Poi sparì improvvisamente. Chi meglio di me, il fratello che si vendicava di questa persona. Questa è stata la mia sensazione».

 

Sta dicendo che mandarono “forzatamente” lei per una vendetta nei confronti del killer di Cosa nostra?

«Questo l’ho sempre detto. Meno male che Di Matteo ha fatto condannare queste persone nel processo sulla Trattativa Stato mafia».

 

Quindi, dietro quella decisione, c’erano delle “menti raffinatissime”?

«Certamente. Dopo due giorni mi ha chiamato La Barbera e mi ha detto: “Lei ha finito di fare la pacchia”. Mi ha spedito per una settimana al reparto Mobile di Reggio Calabria e, dopo, grazie a un medico della polizia che ha capito il mio stato d’animo, che io non avrei sostenuto il peso, mi mandò a casa per un mal di schiena. Poi hanno voluto “forzatamente” che me ne andassi da Palermo. La cosa strana è che mi è arrivato un encomio per la cattura di Brusca».

 

Riepilogando, possiamo dire che le “menti raffinatissime” volevano la morte di Brusca?

«L'ho pensato, lo penso, ma sinceramente non c’è una prova. Ma perché proprio io vengo mandato ad arrestare Brusca? Se lo avessi visto fare un gesto inconsulto non ci avrei pensato due volte. Ma io non uccido una persona perché è stato un assassino».

 

Che impressione le ha fatto Brusca in quel momento?

«Mi ha fatto schifo. Non lo conoscevo. Pensavo ad un omone. Mi sono ritrovano davanti un uomo più basso di me, scalzo, con i pantaloncini e a petto nudo, con un’espressione stupita. Entrambi, in quella frazione di secondo, siamo rimasti sorpresi, sbalorditi, bloccati. Mi aspettavo un orso, ho visto un omino. Questo mio pensiero me lo porterò sempre dietro: perché tra i dieci uomini scelti, tra i primi a scendere, doveva esserci Luciano Traina? Negli anni abbiamo visto chi era La Barbera e dopo due giorni ho visto come mi ha trattato. Ripeto, secondo me non volevano che si catturasse vivo. Non potevano non arrestarlo, non potevano farlo scappare. Ormai si sapeva che era lì, anche se hanno impiegato diversi giorni per la cattura. Abbiamo dovuto attendere i colleghi di Roma, come se da Palermo non fossimo stati in grado di catturare un latitante».

 

Come possiamo ricordare, senza retorica, suo fratello Claudio?

«È entrato in polizia perché vedeva in me un idolo. Un giorno è venuto da me e mi ha comunicato la sua decisione. Ha fatto domanda ed è entrato in polizia. Caso volle che, come me, ha fatto la scuola ad Alessandria, poi Milano e, nel 1991, è stato trasferito, dietro sua richiesta, a Palermo. Ed è finito all’ufficio scorte. Lui non scortava il giudice Borsellino, quel giorno si è trovato lì perché giorni addietro un collega è stato male. Lui quel giorno mi aveva chiesto di andare a pescare, perché era libero. Invece lo avevano chiamato perché la domenica doveva coprire un turno di un altro collega. Quello è stato il 19 luglio del 1992.

 

Dopo 40 anni di servizio in polizia lei sta dedicando la sua vita ai giovani studenti. Possiamo credere in questi ragazzi?

«Vedo in loro molta attenzione. L’ultimo incontro l’ho fatto a Capo d’Orlando, dove ho visto i ragazzi piangere. I giovani non hanno bisogno delle favole, ma della realtà».        

 

In questo Paese si arriverà mai alla piena verità?

«No. Ci faranno sapere le briciole, che non porteranno mai al pane».