Brizio Montinaro: non mi illudo che sulle stragi si voglia arrivare ad un punto fermo di verità

INTERVISTA. Parla il fratello di Antonio, uno degli agenti della scorta che fu assassinato nella strage di Capaci del 23 marzo 1992 contro Giovanni Falcone.

Brizio Montinaro: non mi illudo che sulle stragi si voglia arrivare ad un punto fermo di verità
per gentile concessione di Brizio Montinaro

Il 23 marzo 1992 un attentato uccise a Capaci il giudice Giovanni Falcone, la moglie (anche lei magistrato) Francesco Morvillo e tre agenti della scorta di Falcone: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Da alcuni anni in questo giorno è stata proclamata la «Giornata della Legalità» in ricordo della strage, uno degli atti della strategia terroristico-mafiosa che portò poi alla strage di via D’Amelio contro Paolo Borsellino, a vari attentati anche nell’anno successivo e alla trattativa Stato-mafia di cui stiamo ripubblicando ampi stralci della sentenza di primo grado per ricordare le verità accertate, gli indicibili accordi e le menti raffinatissime in azione prime, durante e dopo quei terribili anni.

Antonio Montinaro era il capo scorta di Giovanni Falcone, ventinove anni. Era entrato in polizia 9 anni prima, il 5 agosto dello stesso anno della strage gli fu conferita alla memoria la «Medaglia d’oro al valor civile»: «Preposto al servizio di scorta del giudice Giovani Falcone – fu scritto nella motivazione - assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione, pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell'ordine giudiziario e delle Forze di Polizia. Barbaramente trucidato in un proditorio agguato di stampo mafioso, sacrificava la giovane vita a difesa dello Stato e delle Istituzioni. Palermo, 23 maggio 1992».

In occasione dell’anniversario della strage di Capaci abbiamo intervistato Brizio Montinaro, il fratello di Antonio.

Suo fratello aveva grande vicinanza e attaccamento al giudice Falcone, ci può raccontare questo stretto rapporto? In famiglia parlava mai con voi di Falcone e del rapporto umano e diretto che avevano?

«Abbiamo avuto testimonianze di questo loro stretto rapporto. Antonio era una persona molto loquace e avvezzo alla parola, era impossibile non avere con lui un rapporto stretto. E era una persona molto brillante, con noi non ha mai fatto riferimento a fatti contingenti». 

«Chiunque fa questa attività, ha la capacità di scegliere tra la paura e la vigliaccheria. La paura è qualche cosa che tutti abbiamo: chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange. È la vigliaccheria che non si capisce e non deve rientrare nell'ottica umana». Sono parole di suo fratello Antonio, parlava mai in famiglia delle minacce e dei possibili rischi anche per la vita di Giovanni Falcone e quindi anche per loro che lo scortavano quotidianamente?

«Francamente no, non l’ha condiviso con noi. Eravamo una famiglia numerosa dislocata in varie parti d’Italia, io stesso sono stato venticinque anni a Firenze per poi rientrare in Salento. In quegli anni eravamo distanti fisicamente anche se ci sentivamo spesso. Le sue visite erano sempre molto veloci e fugaci, caratterialmente gli apparteneva una certa riservatezza. Antonio aveva iniziato il percorso lavorativo con la leva militare e all’inizio aveva un comportamento tipico di molti poliziotti, fu mandato poi da Bergamo per alcuni giorni in servizio al maxi processo e successivamente iniziò il percorso che lo portò accanto a Giovanni Falcone».

In questi anni sono stati celebrati diversi processi che hanno portato alle condanne di boss della mafia, non si è ancora avuta piena verità giudiziaria (oltre la sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-Mafia) sui «mandanti occulti» e sulla strategia delle «menti raffinatissime» in quegli anni. Quale la sua riflessione?

«È perfettamente conforme ad un copione che si ripete dalla strage di Portella della Ginestra ai nostri giorni: molto fumo, pochissimo arrosto e poche verità che non costituiscono i necessari tasselli utili per comporre uno spaccato effettivamente coerente soprattutto per quanto riguarda gli elementi e i partecipanti: si conosce molto di più degli esecutori che dei mandanti. Questa nostra povera patria è stata vessata da più stragi, anche prima di quella di Capaci e via d’Amelio che sono state le più devastanti insieme a quella del 1993 in via dei Gergofili soprattutto per le tante morti che hanno causato, annoverate in una cornice terroristica di sinistra o di destra o velatamente tali in un gioco delle tre, quattro carte e con pochissimi elementi di verità storica. Non mi illudo che sulle stragi dal 1992 in poi si possa giungere ad un punto fermo, l’Italia anche precedente ha dimostrato di non avere la volontà storica di arrivarci».      

Luciano Traina nei giorni scorsi ha dichiarato di essere «stanco delle solite passerelle, di promesse lunghe 28 anni, di vuote parole a cui non seguono mai fatti», di «non avere più fiducia in questo Stato, uno Stato che resta sempre in debito verso chi ha dato la propria vita per il Paese» e stanco «di subire ingiustizie, stufi di politici che vengono qui, nei luoghi in cui si fa memoria, dove sono morti i nostri familiari, e sfilano con le loro facce tristi come fossero loro le vittime. Seduti in prima fila a favore di telecamere e fotografi, vengono a stringerci la mano e a prenderci per i fondelli. È  ora di dire basta a questa ipocrisia». Condivide questo stato d’animo? Quale rapporto con le istituzioni avete avuto e quale riflessione sente di condividere con noi?

«Conosco da moltissimi anni Luciano Traina, il suo garbo e la sua rettitudine. Non ho avuto modo di leggere queste sue dichiarazioni. Luciano ha svolto un lavoro eccezionale all’interno delle istituzioni, ho sentito i suoi racconti molto toccanti sulla vicinanza col fratello. Le istituzioni non sono un amalgama unitario, sono come una moltitudine in una piazza al cui interno ci sono tantissime persone rettissime e corrette, altre con ben poca correttezza e poi coloro che operano in contraddizione con lo scopo per cui sono in un determinato ruolo, con tutti i crismi della vigliaccheria e dell’opportunismo generando tutto quel sistema di Stato all’interno dello Stato. Rappresentano di fatto un anti Stato anche se vengono annoverati nello Stato, soggetti che hanno contribuito alle devianze, ai depistaggi e a quel mancato raggiungimento della verità.

La questione della trattativa Stato mafia è connotata come Stato nel senso generale ma non rappresentano tutto lo Stato, non rappresentano tutte le persone che vi operano perché la maggior parte è costituita da persone che operano nella rettitudine. Ovviamente ci sono dei soggetti che appartengono allo Stato ma vivono una doppia vita.

Ci sentiamo affini a quanto dichiarato da Luciano sulle rappresentanze politiche e non politiche durante i momenti di commemorazione. Io personalmente per sedici anni mi sono rifiutato di partecipare alle cerimonie e di mantenere il silenzio, di star lontano dai luoghi dove le persone che in qualche maniera vanno a fare memoria e tengono il palco, persone che dimenticano di non essere a teatro, quei luoghi non sono passerelle e non sono luoghi di uno spettacolo di teatranti e spettatori.

Sulle pantomime politiche durante le manifestazioni aggiungo che il motivo per cui ho taciuto per sedici anni è legato al fatto che avevo notato che solo pochissime persone erano convinte delle testimonianze e della memoria oggettiva. La cosa più grave in tutti questi anni è che si è costituita un’antimafia di facciata che fa paura e che, paradossalmente, fa più danni dei politici che sono relegati in un determinato ruolo. Purtroppo devo aggiungere che quest’antimafia di facciata esiste anche all’interno delle famiglie di vittime di mafia: esistono persone che fanno autentica memoria e persone che purtroppo vivono una modalità da passerella come i politici». 

In queste settimane di emergenza covid19 l’attenzione è stata rivolta anche alla situazione nelle carceri e abbiamo visto boss e gregari di mafia tornare ai domiciliari. Un atto definito devastante e che cancella decenni di lotta alle mafie da parte di vari magistrati, condivide questo giudizio? Cosa ha pensato quando ha avuto la notizia di queste scarcerazioni?

«Luciano nelle dichiarazioni a cui prima faceva riferimento riflette sulla questione delle scarcerazioni di affiliati alle mafie, uno dei paradossi ai quali siamo soggetti in quanto spesso all’interno delle istituzioni cosa fa la mano destra è sconosciuto alla mano sinistra. Non credo che ci siano state delle volontà complottiste ma ci sono delle sfilacciature all’interno del nostro sistema di governo che portano a casi eclatanti come le scarcerazioni, motivate anche in maniera più o meno strumentale per questioni sanitarie.

È chiaro che sarebbe bastato ascoltare quel che Nicola Gratteri aveva detto nei giorni e nelle settimane precedenti: le condizioni carcerarie si risolveranno realizzando quattro carceri che possano ospitare cinquemila persone permettendo di raggiungere un equilibrio di civiltà all’interno del sistema carcerario. Se si trovano tanti fondi per fare tante cattedrali nel deserto come mai non si trovano soldi per costruire quattro carceri?

Strutture auspicate da uno dei magistrati più impegnato sul fronte della guerra contro la ‘ndrangheta, ormai la più potente organizzazione criminale. Se poi ci sono le inadempienze di un ministro che, chissà per quale motivo e condizionamento, decide di non assegnare il ruolo al DAP a Di Matteo si creano delle opportunità politiche, giustificabili forse da altri punti di vista ma non da quello etico.

Chi è stato oggetto di condanne per fatti gravissimi, legati alla loro appartenenza alle mafie, non può vedersi riconosciuto nessun tipo di privilegio. Le nostre carceri sono piene, forse anche oltre il 90%, di persone che commesso reati molto lievi. È chiaro che per la restante parte di criminali ci si deve attrezzare opportunamente per garantire la salute, le strutture carcerarie dovrebbero avere (e hanno) delle strutture sanitarie per curare civilmente ed è giusto sia così. Se all’interno dei contesti in cui è detenuto quel gruppo di criminali non ci sono strutture idonee vengano attrezzate. Da parte mia non c’è nessuna idea di carcerare questi criminali buttando la chiave fino a qualche incidente che porti ad una sorta di vendetta, è una logica che non mi appartiene, ma deve esserci la garanzia che scontino tutta la pena».           

Polemiche e feroci attacchi si sono scatenati contro Nino Di Matteo nelle ultime settimane, cosa ha pensato di fronte alle polemiche di queste settimane contro Di Matteo?

«Bisognerebbe sottolineare e non dimenticarsi mai, anzi sarebbe auspicabile che venga sempre fatto, la questione di cui Di Matteo si interessa da tanti anni: la trattativa Stato mafia. C’è stato un processo con una condanna in primo grado, vedremo cosa succederà nei successivi gradi di giudizio, ma intanto una condanna esiste. C’è stata all’interno del sistema anche giudiziario, e soprattutto all’interno della stampa e dei media, una rimozione su questa sentenza che ritengo sia di una gravità straordinaria. Una notizia che andava data e in cui ci sono condannati in correità: Mori, De Donno, Subranni e altri personaggi.

Premesso ciò, al di là di cosa è accaduto tra Di Matteo e Bonafede, conosco personalmente Di Matteo e l’ho sostenuto in tutti questi anni in cui ha rischiato ed è oggetto della stessa macchina del fango che ha attaccato Giovanni Falcone. Oggi tutti si definiscono amici di Giovanni Falcone, aspettano che ci sia un eccidio anche contro Di Matteo per diventarne tutti amici? Personalmente lo sono da molti anni e continuerò, così come tantissime altre persone, tanti gruppi (in primis il movimento delle Agende Rosse) che si sono espresse perché venga opportunamente tutelato.

Di Matteo è una persona riservata a cui evidentemente, non l’ho sentito dopo la vicenda, posso intuire sia accaduto quel che è accaduto a me dopo i sedici anni di silenzio: ovvero che il silenzio può dar adito a chi parla di affermare le castronate più delittuose, le imposture più faziose, ora anch’io quando ho la possibilità di intervenire in contesti adeguati lo faccio. Probabilmente ha deciso di partecipare più attivamente e difendere la propria posizione perché la riservatezza che ha portato avanti per tanti anni probabilmente non gli ha portato molto bene.

Qualsiasi cosa sia accaduto tra di loro, probabilmente Bonafede ha le sue responsabilità, Di Matteo ha detto la verità: è stato chiamato, ha dato la sua disponibilità e poi non c’è stata più la volontà politica di portare avanti quell’incarico e l’hanno destinato ad un altro, quindi ha detto grazie ed arrivederci. Non ha fatto altro che dire la verità. Ancora una volta la politica perde un’opportunità, anche all’interno di movimenti che sono andati al potere e a gestire la politica nel ruolo politico venendo da una fase di contestazione delle modalità della vecchia politica. Evidentemente la vecchia politica ha contaminato anche le nuove forze politiche».        

L’ex pm e oggi avvocato Antonio Ingroia l’ha paragonato a quanto si scatenò contro Paolo Borsellino nel 1988 quando, dopo che il Csm votò Mieli e non Falcone, incontrando due giornalisti denunciò il calo di tensione nella lotta alle mafie da parte dello Stato. «Scoppia un putiferio – ha ricordato Ingroia - Ma è Borsellino che viene accusato per avere fatto la denuncia in una sede non istituzionale, e rischia il procedimento disciplinare, mentre Meli rimane al suo posto e tutto finisce in una bolla di sapone. Oggi Nino Di Matteo non viene forse accusato della stessa accusa, per essere intervenuto in una trasmissione televisiva invece che nelle sedi istituzionali perdendo di vista il vero tema cioè, il calo nella lotta alla mafia con la scarcerazione di quasi 400 mafiosi a causa di una circolare uscita dal Dipartimento ministeriale dove è stato scelto qualcuno meno titolato di lui?». Sente di condividere il giudizio di Antonio Ingroia?

«Ovviamente, è un dato di fatto. Alcuni magistrati sono stati costretti a deviare non per necessità di apparire in ambito politico, Ingroia stesso ha abbandonato la magistratura, costituendo un movimento che non ha registrato il successo che auspicava, perché lui stesso ha vissuto lo stesso ostracismo.

Tutti coloro che sono stati eccellenti in un ambito operativo, ed Ingroia lo è stato da magistrato, nel momento in cui decidono di entrare direttamente in politica non è scontato ottengano gli stessi risultati positivi. La politica è fatta di altri meccanismi, basti pensare che per eleggere Trump è stato determinante il ruolo dei social network con tutta la feccia che c’è dietro quel meccanismo di battage comunicativo, che oggi utilizzano, tra l’altro, Salvini e il clan di Bannon.

È chiaro il rischio altissimo che le persone che operano in un ambito ben preciso, di coerenza sia procedimentale che etico, spesso vengano osteggiati da chi non ha nessuna volontà di impegnarsi nel ruolo o addirittura dall’ignavia di altri colleghi, anche per la semplice invidia. È avvenuto con tanti magistrati, specialmente in Sicilia e a Palermo, per Falcone e anche per Di Matteo. Non dimentichiamo che De Magistris si è dovuto dimettere dalla magistratura per quanto aveva scoperto, fatti su cui dopo molti anni gli hanno dovuto dare ragione.

Così come Carlo Palermo, tutta la sua storia è uno spaccato straordinario della realtà italiana delle stragi che abbiamo affrontato all’inizio dell’intervista. Basterebbe leggere l’ultimo libro di Carlo Palermo - «La Bestia» - per rendersi conto di quel che è avvenuto, è un libro sconvolgente per chi ha l’intelligenza di saperlo leggere. Agli occhi dei meno attenti può sembrare persino ridicolo nei suoi riferimenti quasi mistici e simbolici, dietro invece ci sono dei fatti e dei documenti che Palermo sottolinea abbondantemente. Carlo Palermo svolgeva la sua attività a Trento, nel momento in cui si imbatte in un trafficante di droga ed armi a cui corrispondevano dei conti in Italia e soprattutto in Svizzera il governo Craxi depotenzia e gli toglie di mano questa attività Palermo viene isolato. Decide così di andare a Palermo, viene osteggiato, isolato e inviato in un luogo ad altissimo rischio. Viene assassinato Ciccio Montalto e successivamente c’è stata la strage di Pizzolungo».