Il carcere è un surrogato del manicomio

QUINTA PARTE/La riflessione pubblicata dalla rivista Voci Di Dentro.

Il carcere è un surrogato del manicomio

La vita e la morte di Eros Priore, internato nella Casa Lavoro di Vasto e ammalatosi mentre si trovava nel sistema carcerario italiano, è una testimonianza della realtà che si vive negli istituti penitenziari italiani e delle tante mancanze. Sociali e sanitarie. A questa realtà la rivista Voci Di Dentro ha dedicato un approfondimento. Nell’intervista che stiamo pubblicando in queste settimane Francesco Lo Piccolo, Loriana Di Taranto e Sefora Spinzo ci hanno raccontato le loro testimonianze e condiviso con noi importanti riflessioni.

«In carcere oggi ci sono circa 50.000 persone e tantissimi sono i tossicodipendenti, una percentuale tra il 30% e il 50%,  tantissimi hanno problemi di dipendenza da droghe o giochi d’azzardo. E sempre più sono presenti stranieri anche con problematiche di tipo psichiatrico vero e proprio. Ci saranno 2000/3000 per gravi reati di mafia oppure di appartenenza ad associazioni criminali, la gran parte sono persone con forti disagi per in questo senso abbiamo scritto che il carcere ha sostituito il manicomio»sottolinea Francesco Lo Piccolo.

L’abuso di psicofarmaci, prosegue Lo Piccolo, è stato loro raccontato dalla «stessa psichiatra del carcere di Pescara. I detenuti lo chiamano il carrello della felicità: mattina, pomeriggio e sera, tre volte al giorno e a volte anche quattro passa un carrello con infermieri che distribuiscono i farmaci che permette ai detenuti di sopravvivere. Ne fanno grandissimo uso per sopravvivere, per non morire, per dormire. Sono fatti raccontati da tutti. Il reato è spesso una scelta individuale anche personale però è anche l’epilogo di una storia di vita e che è segnata fin dall’inizio fin da piccoli dalla miseria sociale e culturale proprio.  Sono stato in carcere a Pescara dove ho chiacchierato con un detenuto che ha appena 22/23 anni, ha cominciato a drogarsi all’età di 14  anni circa, quando si parte da queste situazioni dopo si finisce anche in carcere com’è finito questo ragazzo. Abbiamo titolato queste pagine del giornale morire di classe facendo riferimento a Basaglia, per dire proprio che questo è diventato in realtà l’istituzione carceraria in c’è una classe sempre di più».

«Non sappiamo gestire i disturbi psicologici e i disturbi psichiatrici come società e quindi da buoni italiani quando non sappiamo gestire qualcosa è meglio sopprimerla. È  più difficile pulire un’intera stanza che mettere della polvere sotto il tappeto – la riflessione di Sefora Spinzo - quindi noi ci sbrighiamo così, mettiamo la polvere sotto il tappeto e abbiamo risolto tutto. La stessa cosa avviene con le persone, con gli esseri umani con disturbi psicologici e disturbi psichiatrici. Si tende a nascondere il tutto all'interno di un'istituzione che se prima era manicomio oggi è il carcere. Francesco ha fatto riferimento al “carrello della felicità”, sono storie che vediamo quotidianamente quando incontriamo i detenuti nelle nostre attività. Vediamo tanti zombie perché per quel fenomeno di sopprimere un problema li si riempie di psicofarmaci così non si pensa al problema».

«Molte volte si dimentica che all’interno delle carceri ci sono delle persone e il supporto psicologico non è mai abbastanza – sottolinea Loriana Di Taranto - basti pensare che c’è già una netta differenza tra un libero cittadino che deve andare da uno psicologo fuori nella società e nel carcere. In cui c’è tutto un altro iter da rispettare: ogni detenuto o deve scrivere una domandina così chiamata proprio deve scrivere questa domandina poi deve dare questa domandina che farà un lungo iter  finché non arriverà nelle mani dello psicologo. Che non è proprio libero di fare un colloquio come lo fa all'interno del suo studio perché cambia del tutto il setting: c'è privacy se all'interno di un colloquio psicologico, si chiude la porta, rimane all'interno di una seduta quel che si dice normalmente, all'interno della seduta all'interno del carcere non è così perché la porta non può essere sempre chiusa.

I colloqui dovrebbero essere di un’ora ma solo in teoria. Un detenuto rientrato da poco nel carcere di Pescara mi ha raccontato che da circa 9 mesi in carcere non è riuscito a parlare con uno psicologo».  È un detenuto di cinquant’anni circa con forti difficoltà a comprendere ed acquisire i meccanismi del carcere, in cui «devi anche imparare come vivere in quella società come se fosse una società nella società, anche lì ci sono dei ruoli da rispettare, delle figure. All’interno di celle sempre sovraffollate in cui si può essere anche in 5, 6 o 7. Le difficoltà aumentano, non soltanto loro a livello di igiene ma anche di comunicazione. Ci sono anche molti stranieri e nelle carceri non c’è solo la carenza dello psicologo e del supporto sanitario ma anche di mediatori. Una traduzione di un dialetto oppure di una lingua sbagliata può portare anche a difficoltà maggiori per una persona all’interno del carcere italiano, è una difficoltà dopo l’altra. Noi cerchiamo di raccontarle perché è giusto che il mondo le conosca. Dietro il detenuto c’è sempre una persona, c’è sempre una persona al di là dell’azione compiuta».

 

 

L’ultimo numero della rivista Voci Di Dentro è disponibile integralmente qui

https://drive.google.com/file/d/1uy4DUjQhmDN_cNpcDPJB3kIr8mAbWM8-/view

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