Licenziato, bastonato e gettato in un fosso per aver chiesto di lavorare con la mascherina
CAPORALATO. A Latina ad aprile è iniziato processo contro padrone per licenziamento e pestaggio di un lavoratore. Recente maxi operazione anti caporalato tra Puglia e Molise.
Latina, terra di caporalato e sfruttamento schiavista di lavoratori immigrati nei campi. Il sociologo Marco Omizzolo denuncia e documenta quanto accade in questo lembo d’Italia da anni. A maggio dell’anno scorso è stato arrestato un imprenditore accusato di aver licenziato, picchiato con una mazza da baseball e gettato in un fosso un bracciante che aveva chiesto di poter lavorare con la mascherina. La pandemia era ormai esplosa in Italia, i dispositivi di protezione individuale erano disperatamente cercati in tutto lo Stivale come presidio vitale ed indispensabile. Eppure a Latina accadeva questo. Dopo l’interrogatorio di garanzia l’imprenditore agricolo e suo figlio furono rilasciati ma la prosecuzione delle indagini ha portato alla riproposizione delle misure cautelari nei confronti dei due nel febbraio di quest’anno.
Per aver raccontato questa vicenda nell’estate scorsa Omizzolo fu ripetutamente attaccato da un alto rappresentante del partito rampante della destra protagonista anche di varie inchieste giudiziarie per «vicinanze mafiose». Alto rappresentante che, dopo essere stato sindaco di Terracina, ora siede al Parlamento Europeo. «A suo dire – scrisse su facebook il sociologo nel febbraio scorso - a suo dire, stavo infangando il sistema imprenditoriale pontino. Fu aizzata una canea di odiatori seriali che mi minacciarono di ogni cosa. Alcuni anche di morte». La prima udienza del processo contro l’imprenditore agricolo e il figlio è iniziato il 30 aprile. In quelle settimane era in corso, soprattutto in quel territorio, una vera caccia mediatica e politica all’untore indiano. Si iniziava a parlare di «variante indiana» del Covid19, fioccavano rassicurazioni che l’Italia era al sicuro (il copione del febbraio 2020 non è mai finito in soffitta) ma nello stesso tempo la canea – aizzata anche dagli stessi politicanti che con la propaganda anti-migranti, gli stessi che difendono padroni, caporali e persino mafiosi loro amici ed amici degli amici – impazzava. I braccianti sikh furono tra i maggiori obiettivi di questa caccia ma sull’inizio del processo il silenzio omertoso e vigliacco fu totale o quasi.
L’ultima maxi operazione contro il caporalato schiavista, denominata «Schermo», è del 17 giugno scorso ed ha accertato – ha reso noto il Comando Provinciale dei Carabinieri di Foggia - «le condizioni di sfruttamento cui erano sottoposti numerosi braccianti africani provenienti dagli insediamenti di Borgo Mezzanone e del Ghetto di Rignano, assunti da una locale cooperativa “schermo” operante sotto una cornice di apparente legalità nella gestione dei rapporti di lavoro, data dalla sola comunicazione di assunzione UNILAV, successivamente destinati “a titolo oneroso” ad altre aziende agricole per raccogliere i pomodori nelle province di Foggia e Campobasso, tutti in precarie condizioni igienico-sanitarie e in forte stato di bisogno». Le indagini sono partite dopo la denuncia di due cittadini della Guinea Bissau delle condizioni di sfruttamento nella raccolta di prodotti agricoli nelle campagne del foggiano. È così emerso «il sistema apparentemente legale, volto ad eludere i controlli, che avevano ideato gli odierni indagati, tutti consapevoli delle dinamiche illegali sottese».
«In particolare due agricoltori foggiani dopo aver creato la società fittizia - funzionale a garantire una facciata di regolarità all’operazione - tramite un cittadino senegalese dimorante nella baraccopoli di Borgo Mezzanone reclutava o faceva reclutare centinaia di connazionali anche nel Ghetto di Rignano - per condurli a raccogliere pomodori presso i propri terreni i terreni di altre aziende committenti - i cui titolari sono oggetto dell’odierna misura - a bordo di furgoni e autovetture vetuste – la ricostruzione resa nota dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Foggia - i braccianti africani venivano prelevati dalla baraccopoli di Borgo Mezzanone/Ghetto di Rignano e da lì, a bordo di precari automezzi, venivano trasportati - dietro pagamento al vettore in alcuni casi della cifra simbolica di 5 euro - nelle campagne di Manfredonia, Stornara, Foggia Borgo Incoronata, San Severo, Ordona (FG) ed il comune molisano di Campomarino per essere impiegati a ritmi estenuanti, senza i previsti dispositivi di protezione individuale e soggetti a controlli serrati da parte dei caporali».
Il reclutamento dei braccianti sfruttati veniva portato avanti da un caporale residente nella baraccopoli di Borgo Mezzo Cannone e il sistema arrivava «alla somministrazione abusiva dei lavoratori nei terreni di proprietà o comunque nella disponibilità degli imprenditori che ne traevano i profitti dall’utilizzo dei diseredati braccianti».
Erano attuate «strategie volte ad eludere i controlli dell’ispettorato e degli altri organi ispettivi, tramite la stipula di contratti di compravendita di prodotti agricoli e fatturazioni per operazioni inesistenti, in modo da non far apparire i reali datori di lavoro come effettivi titolari dei rapporti con i lavoratori reclutati, favorendo così i datori di lavoro ad eludere le leggi in materia». La cooperativa che fungeva da schermo «forniva a titolo oneroso un “c.d. pacchetto di raccolta di pomodori in condizioni di sfruttamento”, fungendo come un’agenzia interinale senza averne i requisiti ministeriali, favorendo così gli imprenditori ad eludere la legge sul collocamento (assunzioni del personale, l’elaborazione del Libro Unico del Lavoro e delle buste paga, la sottoscrizione di contratti di lavoro e gli adempimenti in materia di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro, Documento Valutazione dei Rischi, Visite mediche, formazione informazione e Dispositivi di Protezione individuale) riducendo i costi ai reali datori di lavoro, creando una lesione ai diritti dei lavoratori reclutati massimizzando così i profitti – ha sottolineato il Comando Provinciale dei Carabinieri di Foggia - L’analisi dei rapporti di lavoro delle maestranze reclutate nei Ghetti della Capitanata portava alla luce un’evidente condizione di sfruttamento determinata da sotto-salario, gravi irregolarità contributive, lavoro nero, violazione dei riposi e delle ferie, tra l’altro, non venivano neanche sottoposti alla prevista visita medica, in alcuni casi rimanevano senza mangiare per molte ore e gli veniva fornita da bere “…acqua di pozzo…”. Sorvegliati e minacciati alla decurtazione delle già misere retribuzioni a cottimo».
Un milione di euro il valore complessivo dei beni e 2 milioni di euro il fatturato annuo delle aziende sottoposte a controllo giudiziario al termine dell’operazione.
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