Parla l'avv. Repici: «L'unico giornalista assassinato a Barcellona è Beppe Alfano. Un filo da seguire che potrebbe portare a fare luce su uno scenario inedito»

L'INTERVISTA. A distanza di quasi 28 anni si continua a cercare di ricostruire la verità sull’omicidio di Beppe Alfano, ucciso da Cosa nostra a Barcellona Pozzo di Gotto, nel messinese, l’8 gennaio del 1993, con tre colpi di pistola «calibro 22». Mentre si trovava ancora sulla sua auto a cento metri da casa.

Parla l'avv. Repici: «L'unico giornalista assassinato a Barcellona è Beppe Alfano. Un filo da seguire che potrebbe portare a fare luce su uno scenario inedito»
Il corpo senza vita del giornalista Beppe Alfano

Lo scorso 24 dicembre il Gip del tribunale di Messina Valeria Curatolo ha prorogato di sei mesi le indagini sull’omicidio di Beppe Alfano, il cronista de La Sicilia di Catania, ucciso da Cosa nostra l’8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto sotto la sua abitazione in via Marconi, confermando il mandato alla Dda per la “individuazione di possibili ulteriori mandanti dell’omicidio, rispetto a Giuseppe Gullotti”.

Con lo stesso procedimento il Gip, accogliendo la richiesta della Procura, ha disposto l'archiviazione di Stefano Genovese e Basilio Condipodero, indagati in qualità di esecutori materiali del delitto, ritenendo "non adeguatamente riscontrate le propalazioni" del pentito Carmelo D'Amico che li accusava.

 

Alla richiesta della Dda si era opposto il legale della famiglia, l’avvocato Fabio Repici.

L’abbiamo raggiunto telefonicamente per meglio capire, tramite le sue parole, i contenuti dell’ordinanza di archiviazione e quali potranno essere le prospettive derivanti dalle nuove indagini richieste dal Gip.

 

La verità giudiziaria ormai definitiva che ha visto il boss Giuseppe Gullotti come mandante e Antonino Merlino come esecutore materiale, s'è palesata forse come una verità di comodo e tra l'altro, di recente, il Gullotti ha chiesto e ottenuto la revisione del processo che ha portato alla sua condanna a trent'anni. Questo vuol dire che è tutto da rifare o che è necessario verificare che il Gullotti fosse realmente l'unico mandante dell'omicidio di Alfano? Esistono quindi, a suo giudizio, elementi che portano verso questa pista?

«La situazione è un po' complessa e necessita attenzione su ogni punto, per evitare imprecisioni. Indubbiamente le dichiarazioni di Carmelo D'Amico mettono in dubbio la responsabilità, quale killer, di Antonino Merlino. E questo è un fatto. Sulla posizione di Gullotti, invece, io non vedo nemmeno l'ombra di alcun elemento che possa mettere in discussione la sua responsabilità quale mandante dell'omicidio Alfano. Certo, non è stato l'unico mandante, ma lo è stato. Vero che innanzi alla Corte di appello di Reggio Calabria è iniziato un giudizio di revisione su istanza di Gullotti, ma se si guardano i fatti l'inizio di quel giudizio di revisione è qualcosa di molto peggio che sconcertante. L'istanza di revisione di Gullotti ha quale elemento principale una lettera inviata a un giornalista a gennaio 2006 dal magistrato Olindo Canali, nella quale costui, che era stato il pubblico ministero titolare delle indagini sull'omicidio Alfano, sostenne: «Pippo Gullotti: che nemesi. Assolto da omicidi che aveva certamente commesso o di cui era certamente il mandante, finirà per aver scontato parte di pena per uno da cui è probabilmente estraneo».

Nel 2009, la difesa di Gullotti produsse il memoriale di Canali nel giudizio d'appello del processo Mare Nostrum e ottenne che il magistrato venisse sentito come testimone in quel processo. Canali, però, in questo momento è imputato di corruzione in atti giudiziari. Il procedimento a carico suo, di Gullotti e di Carmelo D'Amico è nato proprio dalle confessioni di quest'ultimo, ritenute riscontrate dalla Dda di Reggio Calabria. A carico di Canali sono mosse due accuse.

La seconda è relativa proprio all'utilizzo del memoriale di Canali da parte di Gullotti nel processo Mare Nostrum e alla testimonianza di Canali in quel processo. Non solo. La corruzione in atti giudiziari di Canali, su intervento di D'Amico e di Salvatore Rugolo, cognato di Gullotti, nell'interesse di quest'ultimo, secondo il capo d'imputazione aveva lo «scopo di favorire la posizione processuale del Gullotti, già condannato definitivamente nell'ambito del procedimento» sull'omicidio Alfano. In sostanza, il giudizio di revisione iniziato per Gullotti è quasi il corpo di reato della corruzione contestata al magistrato Canali.

 

Eppure, una vicenda così clamorosa non ha incontrato l'attenzione di quasi nessun cronista e di pressoché nessuna testata nazionale, quasi tutte impegnate in modo propagandistico su altri fronti. Ciò detto, non è tutto da rifare. Per me, e allo stato per la giustizia, la responsabilità di Gullotti è un punto fermo. L'indagine aperta nel lontano 2003 dalle dichiarazioni di Sonia Alfano, figlia del giornalista assassinato, e oggetto del recente provvedimento del Gip di Messina nei miei auspici deve proseguire al fine di individuare mandanti ulteriori rispetto a Gullotti (come espressamente statuito dal Gip), sulla scorta degli importanti elementi che sono stati raccolti nel corso delle indagini e di quelli che abbiamo offerto noi. Si tratta di prove che dimostrano al di là di ogni dubbio i depistaggi che vennero compiuti nelle indagini fin dall'immediatezza (e forse, incredibilmente, perfino prima del delitto) e che riguardano le ragioni dell'omicidio Alfano e dei depistaggi praticati da Cosa Nostra barcellonese e da rappresentanti istituzionali.»

  

Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione nei confronti di Stefano Genovese e Basilio Condipodero, che erano stati iscritti nel registro degli indagati dalla Dda di Messina dopo le dichiarazioni del pentito barcellonese Carmelo D'Amico ritenendo le propalazioni di quest'ultimo non riscontrabili. Siamo ancora una volta nel mezzo di un’operazione d’intorbidimento della realtà o ritiene che si tratti, com'è già accaduto in altre occasioni, di dichiarazioni rilasciate dal D’Amico solo mantenere alta la sua caratura di collaboratore?

«Ritengo che Carmelo D'Amico abbia reso dichiarazioni assolutamente genuine, attendibili e in molti casi oggettivamente riscontrate. Quindi sicuramente da parte sua non c'è stata alcuna azione volta a intorbidare il quadro. Le posizioni di Genovese e Condipodero sono state archiviate perché non sono stati raccolti allo stato sufficienti riscontri alle dichiarazioni di D'Amico. Ma questo, naturalmente, non è indice d’inattendibilità del collaboratore di giustizia.

Aggiungo che Carmelo D'Amico ha reso - a Messina, a Palermo, a Reggio Calabria, a Roma - dichiarazioni importantissime su fatti di grande rilevanza e che hanno trovato riscontri oggettivi che nessuno poteva immaginare.»

 

Uno dei filoni d’indagine disposti dal Gip riguarda la famosa calibro 22 della “North American Arms”, che è già stata oggetto di analisi e ricerca nel 2010 e 2011, e la relativa sussistenza di rapporti tra Franco Mariani e Rosario Cattafi. Si ritiene che l’arma in oggetto possa essere passata di mano fra Barcellona Pozzo di Gotto e Milano e che possa coincidere con quella utilizzata per l’omicidio di Beppe Alfano? Si tratta sicuramente di un’arma anomala, definita “da borsetta”, viste le sue dimensioni e non utilizzata normalmente da killers mafiosi tantomeno da killers provenienti dalle compagini terroristiche. Potrebbe essere una traccia che apre scenari e collaborazioni diversi o chiude il cerchio delle relazioni tra Mariani, Caizzone e Cattafi?

«L'esistenza di quel revolver l'abbiamo scoperta noi nel 2010 e abbiamo fornito alla Dda di Messina gli atti che lo riguardavano. Purtroppo accertammo che in epoca successiva all'omicidio Alfano era ufficialmente e misteriosamente scomparso. Accertammo un'altra cosa, parecchio imbarazzante. Non oltre un mese dopo il delitto, il pm Olindo Canali ebbe notizia di quel revolver calibro 22 e omise ogni accertamento. Anzi, fece di peggio. Omise di farne risultare traccia nel fascicolo. Quell'arma, al tempo del delitto, ufficialmente era nel possesso di un industriale milanese, Franco Mariani, legatissimo a Rosario Cattafi.

Forse, per fare luce, si dovrebbe seguire un filo ingarbugliato. Di Cattafi e Mariani si era occupato negli anni Ottanta a Milano il pm Francesco Di Maggio, in un periodo nel quale Canali era uditore giudiziario con Di Maggio. Mi ha molto incuriosito verificare che subito dopo aver avuto notizia precisa su quel revolver calibro 22, il pm Canali organizzò un incontro a Roma giusto con Francesco Di Maggio, che in quel periodo era rappresentante del governo italiano all'agenzia antidroga dell'Onu a Vienna, e quindi certamente non poteva avere alcun ruolo nelle indagini.

 

Eppure, nell'agenda del generale Mori, acquisita nel processo sulla trattativa Stato-mafia, l'ufficiale annotò una sua riunione a Roma, nella mattina di sabato 27 febbraio 1993, con Di Maggio, Canali e un rappresentante del Ros di Messina su «omicidio giornalista di Barcellona P.d.G.». L'unico giornalista assassinato a Barcellona è Beppe Alfano. Secondo me è quello il filo da seguire, e potrebbe portare a fare luce su uno scenario che non riguarda solo Cosa Nostra barcellonese.»

  

Nel corso di tutti questi anni tanti dubbi sono rimasti sullo sfondo fra diversi tentativi di depistaggio come nel caso dei file cancellati e poi riemersi dal computer di Alfano che riguardavano mafia e massoneria. Dobbiamo pensare che anche nel caso di Beppe Alfano ci siano stati molteplici interessi che hanno deciso la sua morte e che quindi non fossero solo mafiosi gli interessi e i killers?

«Non c'è dubbio che l'omicidio di Beppe Alfano non interpelli solo responsabilità mafiose. Nel fascicolo c'è la prova del fatto che la mafia barcellonese intervenne per interesse di soggetti esterni.

I depistaggi, come ho detto, sono, purtroppo, un fatto oggettivo. Quanto al computer di Alfano, non ci sono file cancellati e poi riemersi. La storia è diversa. Quel computer venne sequestrato fin da subito. Nel fascicolo del processo definito con la sentenza di Gullotti (divenuta definitiva il 22 marzo 1999) non risultava però che fosse stata fatta alcuna consulenza tecnica sul suo contenuto. Proprio nessun tipo di accertamento.

 

Fu su nostra iniziativa che nel 2003 quel computer fu sottoposto ad analisi tecnica da un consulente della Dda di Messina. E il risultato fu, di nuovo, sconcertante. Perché furono ritrovati alcuni file redatti dal giornalista, alcuni riguardanti anche componenti di logge massoniche barcellonesi e la presenza di Santapaola in zona, ma il consulente tecnico attestò anche che quel computer era stato utilizzato in epoca in cui era sottoposto a sequestro, quindi nella disponibilità del pubblico ministero e dei carabinieri.

L'esperto, all'ulteriore quesito sull'eventuale asportazione o cancellazione di file, ha spiegato che si trattava di domanda alla quale era impossibile fornire risposta. Rimangono, però, alcune altre domande: chi adoperò il computer di Alfano? Per fare che? E perché di tale attività nel fascicolo processuale non c'è traccia? Perché doveva rimanere abusiva? Si cercava di capire quali informazioni Alfano avesse annotato sul suo computer o si vollero cancellare sue annotazioni troppo pericolose per qualcuno? A queste domande spero arrivino le risposte con lo sviluppo delle indagini.»

 

Beppe Alfano è stato ucciso dopo i suoi servizi televisivi scottanti con i quali denunciava abusi, inadempienze, intrecci fra politica e massonerie deviate, faide fra le cosca barcellonese e sprechi nelle pubbliche amministrazioni. Si tratta dell’ottavo giornalista siciliano ammazzato dalla criminalità organizzata di stampo mafioso.

La sua iscrizione all’albo gli fu concessa alla memoria dall’Ordine regionale.

 

 

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