Renzi, Napolitano e i commossi abbracci che seppelliscono la verità

RAGION DI STATO. "Siccome avete citato in quest'aula il giudice Di Matteo", ha tuonato a un certo punto dal suo scranno, "cui va il nostro rispetto a un augurio di buon lavoro, permettetemi, per aver vissuto una certa pagina di storia del nostro Paese di esprimere un pensiero affettuoso al senatore, presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Lui sa perché e voi sapete perché."

Renzi, Napolitano e i commossi abbracci che seppelliscono la verità
Renzi-napolitano

Avrebbero dovuto scriverlo su un cartello all'ingresso dell'aula del Senato. O avrebbero dovuto mandarlo in sovraimpressione sui teleschermi dai quali abbiamo potuto seguire il dibattito. "Questa seduta è altamente sconsigliata a tutti quegli individui che conservino un minimo di buonsenso e amore per le Istituzioni". Tra le maggiori controindicazioni: disturbi dell'apparato digerente, prurito, ingrossamento del fegato, labirintite cronica e gravi stati depressivi.

Lo spettacolo non si preannunciava affatto dei migliori, tutt'altro. Eppure, assistere ancora una volta alla demolizione del concetto di Giustizia, tra l'altro in una delle più prestigiose sedi istituzionali del nostro Paese, fa un certo effetto. 

Giustizia è diventata una parola vuota, un orpello da sventolare per riempirsi la bocca di pappoccia retorica e misture indigeste. Giustizia è un artificio da piegare a seconda delle convenienze politiche. Non della vera politica, quella che dovrebbe nobilitare chi la pratica con senso di responsabilità e amore del dovere. Ma la politica dei beceri personalismi e del mercimonio più squallido. Tu mi dai una poltrona e io ti salvo il ministro.

Ma tra gli interventi che più hanno lasciato il segno in quanto a ipocrisia e povertà morale, svetta su tutti quello di Matteo Renzi. Che, al di là del teatrino politico che ha messo su in uno dei momenti più drammatici della nostra storia recente, chiarisce ancora una volta da quale parte della Giustizia vuole stare.

"Siccome avete citato in quest'aula il giudice Di Matteo", ha tuonato a un certo punto dal suo scranno, "cui va il nostro rispetto a un augurio di buon lavoro, permettetemi, per aver vissuto una certa pagina di storia del nostro Paese di esprimere un pensiero affettuoso al senatore, presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Lui sa perché e voi sapete perché."

E non contento, ha rincarato la dose rivolgendosi ai suoi colleghi senatori: "il fatto che qualcuno mugugni sul Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, vi qualifica per quello che siete e non vi fa rendere ragione dell'importanza di alcuni passaggi storici di questo Paese".

Ora, andiamo per gradi. Perché Matteo Renzi nel suo intervento, accanto al nome di Nino Di Matteo, ha avvertito il bisogno irrinunciabile di mandare il suo commosso abbraccio a Giorgio Napolitano?

Perché, in realtà, l'ex Presidente della Republica Di Matteo lo conosce bene. Come conosce bene tutto il pool di Palermo che ha lavorato negli ultimi anni al processo sulla Trattativa Stato-mafia. E lo conosce a tal punto che, nell'estate del 2012, in una delle fasi più cruciali delle indagini sui rapporti tra Cosa nostra e pezzi deviati delle Istituzioni - rapporti che sono stati la conseguenza e la causa delle stragi del biennio '92-'94 -, il Quirinale ebbe il merito di trascinare davanti alla Corte costituzionale la Procura di Palermo, per un conflitto di attribuzione che fatica a trovare altri precedenti nella storia repubblicana. 

La colpa dei magistrati di Palermo? Quella di essersi imbattuti casualmente nelle intercettazioni del Presidente Napolitano, mentre si indagava sull'ex Ministro degli Interni Nicola Mancino, imputato nel processo sulla Trattativa Stato-mafia.

Le intercettazioni riguardavano appunto Nicola Mancino, che dal 1992 al 1994 fu Ministro degli Interni nei governi Amato e Ciampi, rimpiazzando l'onorevole Scotti, titolare di quell'ufficio fino al 28 giugno del '92.

L'ex Ministro Mancino, quello che al processo sulla Trattativa si è contraddistinto per i suoi "non ricordo" e "ricordo appena appena", nel 2012 temeva un coinvolgimento diretto nel processo e soprattutto il confronto con l'onorevole Claudio Martelli, dopo che erano emerse evidenti contraddizioni tra le dichiarazioni degli esponenti politici ascoltati dai magistrati. Qualcuno mentiva, Mancino lo sapeva. E il terrore di dover essere ascoltato sulla vicenda lo spinse ad investire della questione la Corte di Cassazione, il Procuratore nazionale antimafia e nientepopodimeno che il Quirinale.

Le intercettazioni tra Mancino e il consigliere giuridico del Colle Loris D'Ambrosio hanno solo confermato il timore dell'ex Ministro degli Interni di essere chiamato in causa dai magistrati di Palermo. Che, in barba a qualsiasi divisione dei poteri - quella che tanto abbiamo sentito invocare stamattina in Senato -, aveva chiesto l'intervento delle più alte cariche istituzionali per riceve "informazioni sul coordinamento delle inchieste fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze sulla trattativa”. L'intento, chiaro, era quello di avocare quelle indagini, con il beneplacito del Colle. 

Ma non finisce qui. Perché quando i PM di Palermo, ascoltando le conversazioni di Mancino, si sono imbattuti per caso nella voce di Giorgio Napolitano, si è scatenato il putiferio. Lesa maestà. Attentato alla Costituzione. E chi più ne ha più ne metta. Con il risultato che la Procura di Palermo è stata trascinata in un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale dal Presidente della Repubblica, appena assurto a Meastà intangibile, Giorgio Napolitano. E poco importa se i magistrati avessero già dichiarato che quelle intercettazioni, essendo irrilevanti ai fini delle indagini, sarebbero state archiviate.

Re Giorgio non ne volle sapere

Nino Di Matteo, che ha dovuto subire anche un procedimento davanti alla Corte di Cassazione per questa vicenda, nel libro intervista di Saverio Lodato, Il patto sporco, ha ricordato così quei giorni: "l'impatto, non solo mediatico, della mossa del Quirinale fu devastante. [...] La procura di Palermo era accusata di avere violato poteri e garanzie della prima carica dello Stato, perché si era permessa di valutare la rilevanza o irrilevanza di quelle conversazioni. Un dato colpì me e i miei colleghi: prima di quelle telefonate, in due vicende gudiziarie distinte, due diverse procure - quella di Milano e quella di Firenze -, intercettando altri soggetti, avevano casualmente registrato telefonate con due capi dello Stato, Scalfaro e lo stesso Napolitano. [...] Non era successo nulla. Nessun conflitto di attribuzioni. Nessun ricorso alla Corte costituzionale. Nessuno scandalo. Nessun procedimento disciplinare. Tutto normale." La vecchia storia dei due pesi e delle due misure

Quando Matteo Renzi in Senato si lamenta dei mugugni contro Napolitano e sottolinea l'importanza di alcuni passaggi storici, infligge un'ulteriore stangata alla battaglia per la ricerca della Verità. Quando difende Napolitano - "lui sa perché e voi sapete perché" - non solo si schiera dalla parte di chi ha contribuito a esporre Nino Di Matteo e i suoi colleghi al fango e alle randellate della gogna mediatica. Ma dimostra ancora una volta che lo Stato non ha e non avrà mai il coraggio di processare se stesso.

La vecchia "ragion di Stato" è dura a morire.