Riciclaggio di danaro «sporco»/2

Tra i reati presupposto quanti quelli tracciabili? La Sextortion.

Riciclaggio di danaro «sporco»/2

Del riciclaggio di denaro sporco ho raccontato (https://www.wordnews.it/il-riciclaggio-di-danaro-sporcola dinamica nelle sue ricadute, non solo sul sistema economico fiscale ma anche nel suo essere una delle principali fonti di finanziamento del terrorismo e dei consorzi malavitosi strutturati con metodo mafioso.

Nell’articolo ho focalizzato le componenti soggettive ed oggettive del reato e evidenziato la difficile ‘tracciabilita’ della condotta ai fini della punibilità soprattutto per la complessa individuabilità della rete dei reati cosiddetti presupposto, che la precedono e corroborano.  Complessità che, nel tempo, diventa sempre maggiore anche a causa della sofisticata articolazione dei flussi di danaro nella nostra era caratterizzata dall’ elevato potenziale tecnologico dei sistemi informatici. 

A fronte della stessa fa da contrappeso l’altrettanto elevata possibilità che le sacche di umana fragilità diventino permeabili e, ultimo ma non ultimo, l’incapacità della legislazione di intervenire con un efficace meccanismo deterrente/punitivo  come nel caso della sextortion (estorsione sessuale).

La sextortion possiede tutti gli attributi per essere considerata un proficuo reato presupposto del riciclaggio. 

Vediamo perché.

La estorsione sessuale, ossia la serialità di condotte estorsive realizzate attraverso la rete a danno della malcapitata vittima della minaccia di diffusione di proprie immagini hard capziosamente estorte,  non è nel nostro ordinamento un reato edittale. In parole povere, a fronte di un fenomeno diffuso spesso con la complice omertosità della vittima che, terrorizzata dall’umiliazione e dalla vergogna, non denuncia i ricatti subiti e si sottomette alle richieste pressanti di denaro (spesso in moneta digitale attraverso i  ‘bitcoin’) non esiste la fattispecie delittuosa dell’ estorsione sessuale.

Le particolari dinamiche dell’illecito de qua fanno sì che non sia  riconducibile al revenge porn (art. 612 ter c. p. ) e nemmeno all’art. 629 c.p.

Tra le fattispecie riscontrate in qualche caso potrebbe essere valutabile un’affinità comportamentale del reo con l’ipotesi di cui all’art. 609 bis c.p. se venisse a realizzarsi un appetito sessuale scantonabile nella violazione della libertà di autodeterminazione della sfera sessuale della vittima ma l’assimilazione è, ripeto, opinabile e comunque non estendibile alla totalità dei casi.

Sta di fatto che la violenza informatica di genere, come denunciato anche dall’Unità Valore Aggiunto Europeo del Servizio Ricerca del parlamento Europeo  è in preoccupante crescita  (una donna su tre e nella sola Europa  9 milioni  di donne).

Ciò rappresenta un fertile terreno di raccolta di denaro da riciclare che le consorterie malavitose s’impegnano a coltivare con solerzia, nell’indifferenza del legislatore nazionale e sovranazionale in paio con Internet Service Provider, Social network e motori di ricerca.

Sugli Internet Provider, d’altra parte, secondo quanto previsto dalla Direttiva Europea sul commercio elettronico (2000/31/Ce recepita in Italia con il DLGS 70/2003) grava, infatti, solamente una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.  ma non l’obbligo di vigilanza. L’inibizione è solo rimessa alla facoltà di autoregolarsi proibendo comportamenti criminali segnalati dagli utenti (come nel caso della policy di Facebook).

È doveroso uscire dal questo limbo con una disciplina puntuale e coordinata sul piano ordinamentale sovranazionale sia per tutelare finalmente le vittime della violenza (palese violazione del Codice Rosso di cui alla legge 69/2019) che per porre fine all’erogazione di fondi a terrorismo e criminalità organizzata.