TI CONOSCO, MASCHERINA!

Parla il geriatra Mino Dentizzi sull'uso della mascherina al tempo del Covid-19 offrendo considerazioni mediche , ma anche psicologiche ed umane, come è suo solito fare, frutto della sensibilità umana che investe , da sempre, nella sua professione medica.

TI CONOSCO, MASCHERINA!

“Professore, lei mi dice bene di sorridere al paziente quando si presenta in ambulatorio o in ospedale per una visita. Ma come faccio a sorridergli se indosso la mascherina…?”. Inizio da questa domanda che mi ha rivolto una studentessa per un ragionamento sulle mascherine.

Le mascherine, l’accessorio più usato nel 2020, sono diventate l’aspetto che forse più degli altri resterà nell'immaginario di questo periodo pandemico. Molto si è discusso, e si sta ancora discutendo su di esse: per esempio se sia lesivo della libertà imporre il loro uso obbligatorio, sulla reale efficacia nella protezione oppure sugli effetti dell'uso prolungato sul respiro; ed ancora sull’efficacia dei diversi modelli (chirurgiche, FFP1,FFP2, con valvola o senza…), sulla maniera in cui sono indossate, utilizzate o abbassate durante le relazioni quotidiane, sui loro effetti psicologici in rapporto alla fiducia nella relazione.

La mascherina, comunque, va usata perché è uno spezzone della lotta per riprenderci le nostre vite, anche se da fastidio, tiene caldo, appanna gli occhiali. La mascherina non è una limitazione, un segnale di pericolo, ma di protezione sia sanitaria sia affettiva e solidale nei confronti degli altri. E poi la mascherina rende tutti più belli, fa parlare gli sguardi senza toglierci la voce. E non dimentichiamo che oltre gli sguardi ci sono sempre la nostra postura e il nostro corpo.

La comunicazione delegata allo sguardo, agli occhi costringe tutti noi a una maggiore attenzione e ad una maggiore sensibilità nei confronti degli altri, ad iniziare dal riconoscerli.

La protezione della mascherina non ci fa distinguere i lineamenti del volto: in compenso rende più intenso il linguaggio degli occhi. Una anziana signora ricoverata per alcune settimane in una RSA e poi trasferitasi altrove nel salutarmi mi dice: “Quando la incontrerò di nuovo non ricorderò distintamente il suo viso, ma riconoscerò di sicuro il suo sguardo”. Ed una altra anziana che aveva potuto ascoltare solo la mia voce: “Dottore non ero certo che fosse lei, ma ora che vedo i suoi occhi la riconosco.”

Una delle perle di saggezza dei nostri vecchi afferma che lo sguardo è lo specchio dell’anima. E ritornando alla domanda iniziale della studentessa, non è con la bocca che si sorride, ma con gli occhi. Con gli occhi comunichiamo emozioni, apertura, chiusura, collera, disponibilità, disappunto, rancore, turbamenti.

Quando una persona parla, non comunica solo con la voce, ma con l’insieme di voce, corpo ed espressioni del viso; nel contempo il destinatario della comunicazione non si limita ad ascoltare il suo interlocutore, ma inconsciamente studia i suoi gesti, le sue espressioni e le sue parole tutte insieme: quando non possiamo osservare una faccia per intero questa analisi globale e unitaria è compromessa.

Non potendo fare affidabilità sui movimenti delle labbra, guardarsi negli occhi è importante.

Secondo delle teorie psicologiche basta guardarli per capire come si sente chi ci sta attorno: è per via della cosiddetta teoria della mente, cioè la capacità di attribuire stati mentali agli altri e capire che possano essere diversi dai propri. Per esempio uno dei test per comprendere se una persona ha un disturbo nello spettro autistico si basa proprio sulla capacità di interpretare lo stato d’animo di qualcun altro guardandone gli occhi.

Un abbraccio può arrivare anche attraverso l’intensità del nostro sguardo e il tono della nostra voce.

Mino Dentizzi