Trattativa Stato-mafia, requisitoria Fici: comportamenti opachi dello Stato

AL VIA LA REQUISITORIA - Il processo d'Appello sulla Trattativa Stato-mafia si avvia a conclusione. Nell'udienza del 24 maggio, il sostituto procuratore Giuseppe Fici, che sostiene l'accusa, ha evidenziato come "qualcosa non ha funzionato per come avrebbe dovuto invece funzionare". Dal riproporsi del "metodo Ros" alla discussione interna al DAP sul trasferimento di Riina dal carcere di Rebibbia nel 1993, il pg ha analizzato le nuove prove acquisite nel corso del processo, sottolineando come ci siano stati "comportamenti opachi o decisamente delittuosi da parte di appartenenti agli organi dello Stato" nel periodo delle stragi del 1992-93. Presente in aula anche Marcello Dell'Utri, condannato in primo grado a 12 anni.

Trattativa Stato-mafia, requisitoria Fici: comportamenti opachi dello Stato
Trattativa Stato-mafia, requisitoria Fici: comportamenti opachi dello Stato

Ha preso il via, a Palermo, la fase della discussione nel processo d'Appello sulla Trattativa Stato-mafia, quello che in primo grado ha visto condannati boss mafiosi e rappresentanti delle Istituzioni per “minaccia a corpo politico dello Stato”. E ha preso il via nel giorno successivo alle commemorazioni per il ventinovesimo anniversario della strage di Capaci.

Presente in aula, a sorpresa, Marcello Dell'Utri, condannato in primo grado a 12 anni.
Il sostituto procuratore generale,
Giuseppe Fici, ha dato avvio alla sua requisitoria rimarcando come “dai fatti riportati dalla sentenza di primo grado e da ciò che è emerso nel corso del lungo dibattimento, possiamo ricavare la certezza che, negli anni in cui si sono verificati i fatti oggetto di contestazione, nella risposta al crimine organizzato da parte delle Istituzioni, qualcosa non ha funzionato per come avrebbe dovuto invece funzionare”. Ci si riferisce a “comportamenti opachi o decisamente delittuosi da parte di appartenenti agli organi dello Stato”, dinanzi ai quali “è difficile, molto difficile, restare del tutto insensibili”.

Come non ricordare, ha detto il procuratore Fici, “quello che gridava, con toni esasperati, piangendo, una moltitudine di cittadini ai funerali di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e di Paolo Borsellino. Come non ricordare la rabbia esasperata dei colleghi di Emanuela Loi, di Vito Schifani e Rocco Di Cillo, di Antonio Montinaro, di Vincenzo Li Muli, di Walter Cosina, di Claudio Traina”, trucidati a Capaci e in via D' Amelio, che chiedevano a gran voce giustizia per le vittime di quelle efferate stragi.

Noi non ripeteremo in quest'aula frasi come 'fuori la mafia dallo Stato'", ha continuato Fici, ma sarà dimostrato come alcune scelte di politica criminale, come alcune incomprensibili omissioni degli organi preposti, siano state "condizionate, se non anche guidate, da logiche rimaste estranee al corretto circuito istituzionale, ovvero alle corrette dinamiche democratiche".

Chi ha agito nell'ombra e per conto di chi? "Neppure in questa sede processuale si è fatta definitiva chiarezza, anche se i fatti oggetto di contestazione sono rimasti accertati al di là di ogni ragionevole dubbio ed anche se si sono fatti passi avanti verso il disvelamento di ciò che è realmente avvenuto".

"Le verità nascoste", ha continuato il sostituto procuratore, "sono sempre meno nascoste, ma altro c'è ancora da dire".
"C'è qualcuno in quest'aula", ha poi detto, rivolgendosi alla Corte e ai presenti, "c'è qualcuno che dubita dell'esistenza di soggetti che, dall'interno delle istituzioni, hanno agito per finalità non dichiarate? Nessuno, ne siamo certi. Nessuno dubita dell'esistenza di menti raffinatissime e mandanti occulti". Ma queste menti raffinatissime, questi mandanti occulti, hanno agito per il bene del Paese? Se tutto è stato fatto a fin di bene, sostiene l'accusa, perché tacere e negare l'evidenza dei fatti?

Se ci venisse spiegato il perché del più grande depistaggio della storia (quello su via D'Amelio), se si trovasse il perché della restituzione di tre telefoni cellulari e del rilevatore di microspie a Giovanni Napoli il giorno dopo il suo arresto, saremo certamente in grado di valutare e comprendere. E se ci convincessimo che ciò che è stato fatto, è stato fatto per il bene del Paese, potrebbe essere un buon inizio per una riconciliazione tra chi in questi decenni ha taciuto e continua a tacere e chi invece reclama verità e giustizia perché non ha capito quello che è avvenuto e vuole invece capire”.

Ma poiché così non è, poiché le spiegazioni che vengono date sono evasive e fuorvianti, è lecito convincersi che chi ha agito al di fuori della legge, più che per il bene del Paese, lo abbia fatto “per la salvezza di un determinato assetto di potere, per tutelare chi si è arricchito e ha fatto carriera negli apparati della politica facendo favori ai mafiosi”.

Oggetto della requisitoria, sono stati essenzialmente tre punti: la vicenda dell'arresto del fedelissimo di Bernardo Provenzano, Giovanni Napoli, e l'anomala restituzione alla moglie dell'arrestato dei telefoni cellulari e del rilevatore di microspie; il richiamo al “giallo” del telefono utilizzato da Salvatore Riina nel carcere di Rebibbia, mentre era detenuto al 41bis e mentre nel continente esplodevano le bombe, e la discussione interna al DAP sul suo trasferimento; infine, il narrato dei collaboratori di giustizia che hanno parlato dei legami tra Cosa nostra, 'Ndrangheta e Servizi di sicurezza nel periodo delle stragi.

 

Metodo ROS e vicenda Napoli

Il procuratore è partito dai verbali sugli accertamenti a proposito della misteriosa vicenda della gravidanza delle compagne dei fratelli Graviano, detenuti in regime di 41 bis, definita “una beffa della Prima repubblica”, per cercare di comprendere quale era il metodo utilizzato dal Ros negli anni delle stragi. Un metodo che ha fatto rilevare come gli atti di polizia giudiziaria venivano molto spesso “fatti firmare da ufficiali e sottufficiali che poi riconoscono la firma, ma negano o affermano di non ricordare di aver partecipato all'atto descritto dal verbale”. Un metodo “già verificato da questo ufficio nel processo Mori-Obinu relativo alla mancata cattura di Bernardo Provenzano, nel contesto del quale sono stati effettuati accertamenti anche in merito alla mancata cattura di Benedetto Santapaola”. E metodo che pare sia stato applicato anche in merito alla vicenda dell'arresto di Giovanni Napoli, dal momento che tutti i testimoni sentiti non sono stati in grado di chiarire la vicenda del “rinvenimento” anziché del sequestro di materiale che sarebbe stato utile all'individuazione e alla cattura di Bernardo Provenzano.

Bisogna leggere questi eventi a partire dai fatti di Mezzojuso in poi (la mancata cattura di Provenzano), per rendersi conto della “filiera di anomalie che hanno caratterizzato l’operato del Ros” ai tempi delle stragi. Secondo il procuratore, “dietro questi persistenti misteri, si intravedono le sagome sinistre di grumi di un potere eversivo ancora attivo, che tutela ricchezze illecite e privilegi, che assicura indegne latitanze, che persegue impunità, che agisce per indirizzare le sorti del Paese al di fuori di ogni logica istituzionale democratica, che ha agito ed agisce con la forza del ricatto, non rifuggendo al tritolo dalle stragi in caso di estrema necessità”.

 

Il giallo del trasferimento di Riina

Altro punto toccato dalla requisitoria, è stato quello del trasferimento del detenuto Salvatore Riina dal carcere di Rebibbia a quello di Firenze Sollicciano, con destinazione finale Asinara, disposto nel luglio del 1993, nei giorni in cui esplodevano le bombe di Roma e Milano. Sul trasferimento urgente del capo dei capi, al DAP erano tutti d'accordo. Il funzionario Andrea Calabria, aveva concordato con il vicedirettore Francesco Di Maggio, tutti i particolari del trasferimento, dopodiché era andato in ferie. Al rientro, qualcosa era cambiato.

Evidentemente succede qualcosa che induce, ovvero che impone, al Di Maggio di sospendere prima e di revocare dopo il già disposto trasferimento del Riina a Firenze Sollicciano, c'è un'inversione di 180 gradi” rispetto a quello su cui tutti erano concordi. Perché all'improvviso il trasferimento di Riina non è più così urgente?

Secondo il procuratore, questa vicenda pone in evidenza “il ruolo molto più che ambiguo di Francesco Di Maggio all' interno del DAP”, subordinato a “un potere esterno ed occulto”. E ancora: “la disinvoltura con cui il capo della polizia è ricorso a false informazioni dei servizi nella guerra occulta con altre realtà deviate e devianti; la diversità di linea, in quel contesto, tra Parisi e Di Maggio, non rispondendo quest'ultimo alla sollecitazione del primo, suo grande sponsor per la nomina a vicedirettore del DAP”.

 

I collaboratori di giustizia

Per la seconda parte della requisitoria, ha preso la parola il sostituto procuratore Sergio Barbiera, che ha sostenuto come le dichiarazioni dei “collaboratori calabresi” siano “riscontrate e credibili”. Antonino Cuzzola, Antonino Fiume, Vittorio Foschini e Salvatore Pace hanno testimoniato in vari processi sui legami tra la 'Ndrangheta calabrese, Cosa nostra e i Servizi di sicurezza, molto attivi anche nelle carceri. Sono emerse, da tali dichiarazioni, la collaborazione tra le varie criminalità organizzate, le modalità operative tipiche degli apparati dei Servizi che sono scesi a patti con le consorterie mafiose e la figura ambigua del generale Delfino.

Tutti hanno parlato anche della sigla Falange armata, con cui vennero rivendicati alcuni fatti di sangue come l'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile, quello del giudice Scopelliti e le stragi del 1992/93. È inverosimile, ha sostenuto Barbiera, che un soggetto rozzo come Riina avesse pensato di ricorrere alla sigla Falange armata per depistare le indagini. “Dietro l'utilizzo della sigla Falange armata, in relazione ai delitti inseriti nella strategia stragista, vi sono sicure connivenze di soggetti appartenenti ai servizi segreti deviati, in termini quantomeno di favoreggiamento dei responsabili mediante il suggerimento di tecniche e modalità idonee a provocare una forte reazione dell'opinione pubblica per realizzare il convogliamento di rotta auspicato dalle mafie”.

Rilevanti anche le dichiarazioni dei collaboratori Francesco Squillaci e Armando Palmeri. Il primo, sentito dalla Corte nel settembre del 2019, ha raccontato di come in Cosa nostra si puntasse su Forza Italia, che avrebbe “cambiato la giustizia”, e su Berlusconi che “poteva aiutarci”. Palmeri ha invece parlato dei contatti tra la mafia e gli uomini dei Servizi per mettere a punto la strategia stragista.

Nella prossima udienza, fissata a lunedì 31 maggio, la requisitoria affronterà il tema delicato delle dichiarazioni emerse dalla collaborazione di Riggio e le valutazioni sulla sentenza di assoluzione nei confronti di Calogero Mannino, che aveva scelto il rito abbreviato ed è stato assolto in Cassazione.

WORDNEWS.IT © Riproduzione vietata