Trattativa Stato-mafia, parola alla difesa di Mori

DIFESA MORI - Al processo d'Appello sulla Trattativa Stato-mafia, la difesa dell'imputato Mario Mori (condannato a 12 anni in primo grado) ha cercato di smontare l'accusa di minaccia a corpo politico dello Stato, sottolineando come non sia l'esistenza della Trattativa l'oggetto del processo, ma la minaccia al governo della Repubblica, che però, secondo la difesa, non ci sarebbe mai stata. L'avvocato Milio si è poi soffermato sulla strage di via D'Amelio, sostenendo ancora una volta che l'accelerazione del progetto criminale fosse da ricercare nell'interessamento di Paolo Borsellino al rapporto mafia-appalti e non alla trattativa messa in piedi dal Ros con Ciancimino. “La trattativa è un' invenzione, una favoletta che è stata spacciata all'opinione pubblica per distrarla da vicende poco commendevoli"

Trattativa Stato-mafia, parola alla difesa di Mori

L'arringa difensiva dell'avvocato Basilio Milio, che difende l'imputato Mario Mori al processo d'Appello sulla Trattativa Stato-mafia, è durata circa tre ore e mezza e si è concentrata su due punti principali: smontare l'accusa di “minaccia a corpo politico dello Stato” e dimostrare come non fu la Trattativa a decretare l'improvvisa accelerazione della strage di via D'Amelio, ma altri elementi, primo tra tutti il rapporto mafia-appalti

 

L'ACCUSA DI MINACCIA

Sull'accusa di minaccia, l'avvocato Milio è stato molto chiaro: il suo assistito non è imputato (e già condannato a 12 anni in primo grado) per aver trattato con Vito Ciancimino. Mario Mori e i carabinieri sono imputati per una “minaccia al governo” che, secondo la difesa, non si sarebbe potuta mai concretizzare. Primo, perché non è provato che Mori fosse a conoscenza di una spaccatura tra Riina e Provenzano ai tempi delle stragi.

“Siamo sicuri che Ciancimino abbia detto a Mori della spaccatura?” Secondo Milio, no. Ciancimino non avrebbe mai parlato di Riina e Provenzano e nemmeno Cancemi avrebbe mai fatto cenno a frizioni. Ergo: se Mori non sapeva della spaccatura tra Provenzano e Riina, non ha potuto riferirne a Francesco Di Maggio (vicedirettore del DAP) e quindi non ha potuto mettere in atto la minaccia.
Ma di spaccature in seno al vertice di Cosa nostra, già diversi mesi prima, ne parlava anche lo stesso Borsellino, per il quale i due boss erano come “due pugili sul ring”

Per l'avvocato Milio, comunque, ammesso che Mori fosse a conoscenza di questa spaccatura, l'averla comunicata a Di Maggio non rappresenta di per sé una minaccia al governo.

La trattativa venne innescata nel momento in cui l'onorevole Mannino incaricò il generale Subranni di attivarsi affinché lo mettesse in salvo dalla condanna a morte decretata da Riina. Subranni avrebbe poi incaricato Mori, che avrebbe a sua volta incaricato De Donno, il quale trovò poi un canale di dialogo con Ciancimino.
Ma dal momento in cui Mannino è stato assolto per non avere commesso il fatto, ne segue che l'assoluzione di Subranni, Mori e De Donno dovrebbe essere automatica e scontata.

Ad avvalorare la tesi della trattativa, secondo l'accusa, sarebbe stato lo stesso Mori che, interrogato dai magistrati di Firenze, parlò per la prima volta proprio di “trattativa”, del “muro contro muro” che poteva essere superato da un dialogo con la controparte.
Per l'avvocato Milio, però, le dichiarazioni del suo assistito sarebbero state citate sempre monche, tagliuzzate. Diceva Mori: "
Dissi a Ciancimino, ormai c'è un muro contro muro. Ma non si può parlare con questa gente? Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?'' La buttai lì convinto che lui dicesse: ''cosa vuole da me colonnello?'' Invece dice: ''ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo''. E allora restammo ... dissi: ''allora provi'.

Il senso di questo ragionamento, per la difesa, era che i carabinieri volevano avviare un'attività per trasformare Ciancimino in un confidente. Ma qui ritornano le osservazioni fatte dai giudici di primo grado: perché, se si trattava solo di un confidente, i carabinieri non redassero la documentazione necessaria ad attestare l'attività svolta? Perché, quando ebbero certezza dei contatti di Ciancimino con i vertici di Cosa nostra, non si adoperarono per catturarli? Perché non ne informarono mai l'autorità giudiziaria? Solo perché non si fidavano di Giammanco? E allora perché non lo fecero dopo con Caselli? Perché cercarono una copertura politica per il loro operato?

Ma l'avvocato Milio osserva: “Non dovevano essere lodevoli e meritorie le iniziative per trattare la fine delle stragi?”

Non c'è nessuna prova, ha proseguito l'arringa, che Mori abbia riferito a Di Maggio l'oggetto della minaccia, né che Di Maggio ne abbia poi parlato col ministro Conso, né che il generale Subranni abbia incaricato Mori di alcunché.
Quindi Mori non può essere condannato per minaccia al governo, un'iniziativa della quale nessuno lo aveva incaricato e che non avrebbe mai potuto portare avanti neppure autonomamente perché “mancano: il dolo di minaccia, condotta minatoria, motivi per cui avrebbe agito autonomamente”.

 

ACCELERAZIONE STRAGE VIA D'AMELIO

Ma un'accusa ancora più grave mossa ai carabinieri, secondo Milio, è l'accusa morale, perché “si accusano i carabinieri di aver causato la morte di Paolo Borsellino”. Un'accusa dinanzi alla quale “ho l'obbligo morale di rispondere”.

E qui, com'era prevedibile, la difesa rispolvera l'ormai celebre rapporto mafia-appalti. “La strage di via D'Amelio era già stata programmata” e infatti la sentenza di primo grado non lo ha mai messo in discussione. C'è però stata un'improvvisa accelerazione del progetto stragista, del quale hanno riferito diversi collaboratori di giustizia e lo ha involontariamente confermato anche Riina intercettato in carcere.

Secondo Milio, Borsellino sarebbe venuto a conoscenza della trattativa e si sarebbe opposto il 15 luglio, quando riferì alla moglie che “Subranni è punciutu”. Come avrebbe fatto, nel giro di quattro giorni, ad opporsi alla trattativa? E come avrebbe fatto Cosa nostra a venirne subito a conoscenza? Questa sono le domande che si è posta la difesa, ma è probabile che Borsellino fosse venuto a conoscenza della trattativa già diversi giorni prima, probabilmente dal 25 giugno del 1992, quando volle incontrare De Donno nella caserma Carini per parlare personalmente con lui.

Le difese di Mori-De Donno-Subranni continuano a sostenere che in quell'incontro si fosse parlato di mafia-appalti. Ma se davvero fosse stato così – e se il contenuto di quel fascicolo avrebbe potuto costituire, a parere degli imputati, un movente per accelerare la strage – perché i carabinieri non lo riferirono successivamente all'autorità giudiziaria?

Cosa avrebbe potuto fare, Borsellino, se avesse saputo quello che c'era nel contenuto del fascicolo?” si è chiesto l'avvocato. Immaginiamo che sarebbe stato assalito da uno sconcerto ancora maggiore se fosse venuto a conoscenza delle trattative del ROS con Cosa nostra.

Carmelo Canale dice che Borsellino conosceva quel rapporto da quando era a Marsala” e che lo teneva in grande considerazione, “lo faceva vedere a tutti”. Ma Canale, al Borsellino quater, disse anche che Borsellino volle incontrare De Donno il 25 giugno per la vicenda del “Corvo2” e i riferimenti a una trattativa in corso tra Calogero Mannino e Totò Riina. Quindi, poco a che vedere con il rapporto mafia-appalti.
Di cui la difesa tenta anche di smontare l'esistenza della doppia informativa, sostenendo che, prima del rapporto consegnato a Falcone nel febbraio del 1991, il Ros ne avesse consegnato un altro, più dettagliato, alla Procura di Catania. 

La trattativa è un' invenzione, è una favoletta che è stata spacciata all'opinione pubblica per distrarla da vicende poco commendevoli e non aggiungo altro”.

 

RILIEVI ALLA REQUISITORIA PROCURATORE

Infine, l'arringa si è concentrata brevemente sulla vicenda Napoli, affrontata nella requisitoria del Procuratore. “Possibile che 'menti raffinatissime' si affidassero a due marescialli per gestire l'arresto di Napoli e favorire Provenzano?”. E “non è vero che Mori non poteva non sapere del mancato sequestro [e della successiva restituzione] dei telefonini a Napoli, perché nel '98 era comandante del Ros, figuratevi se poteva pensare a tre telefonini”.

Il procuratore ha dipinto un quadro, utilizzando solo alcuni colori”, per questo ne è venuto fuori uno spaccato fosco e lugubre. “Se li avesse usati tutti, avremmo avuto un quadro più chiaro e anche più bello”.

Milio ha parlato spesso di “killeraggio mediatico”, ha affermato che l'unico a dover essere incriminato, per falsa testimonianza, è il collaboratore Pietro Riggio e ha ricordato alla Corte quanto questo processo abbia influito anche sulla sua vita personale. “Mio padre è stato ucciso da questo processo e la mia vita ne è stata stravolta”

Per il suo assistito, Milio ha chiesto l'assoluzione. Lunedì sarà la volta della difesa di De Donno.

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