Umberto Santino: «Nella società ci sono caratteristiche mafiogene»

INTERVENTO. Parla in fondatore del Centro Siciliano di Documentazione «Giuseppe Impastato», sull’evoluzione delle mafie e sulla borghesia mafiosa e finanziaria.

Umberto Santino: «Nella società ci sono caratteristiche mafiogene»
Umberto Santino

Umberto Santino, fondatore del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato onlus, ha pubblicato in questi decenni libri, saggi, articoli e studi sulla storia e l’evoluzione delle mafie e li intrecci col mondo economico e politico tra cui «L’omicidio mafioso» (1989), «L’impresa mafiosa» (1990) e «Dietro la droga» (1993) con Giovanni La Fiura, «La borghesia mafiosa» (1994), «L’alleanza e il compromesso» (1997), «La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre» (1997), «La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi» (2000), «Dalla mafia alle mafie. Scienze sociali e crimine organizzato» (2006), «Mafie e globalizzazione» (2007), «Storia del movimento antimafia» (2000, 2009), «Breve storia della mafia e dell’antimafia» (2008, 2011), «Don Vito a Gomorra» (2011), «Mafia and Antimafia. A Brief History (2015)», «La strage rimossa. La Sicilia e la Resistenza» (2016), «Phänomen Mafia» (2016), «La mafia dimenticata. La criminalità organizzata in Sicilia dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento» (2017).

«Mafia e società» è un progetto di ricerca del Centro in gran parte realizzato con le ricerche sulla violenza mafiosa, sulle attività imprenditoriali riconducibili alla mafia, sul traffico internazionale di droghe, sulle idee di mafia, su mafia e politica, su mafie e globalizzazione, sul ruolo delle donne e sul movimento antimafia.

In questi decenni diversi libri, articoli e saggi di Umberto Santino hanno studiato e analizzato la borghesia mafiosa, di cui già decenni fa scrisse Mario Mineo e ancor prima Leopoldo Franchetti nel 1876, gli abbiamo chiesto come si è evoluta negli anni e un’analisi della situazione sociale odierna.

«Sì, la mia analisi fondata sulla  borghesia mafiosa ha come precedenti Leopoldo Franchetti, che parlava dei «facinorosi della classe media» che per arricchirsi e comandare praticavano «l’industria della violenza», e le riflessioni di Mario Mineo sulla «borghesia capitalistico-mafiosa» che si sarebbe affermata come soggetto dominante a partire dagli anni ’50 del secolo scorso.

Alla base delle ricerche condotte all’interno del Centro Impastato c’è il «paradigma della complessità» che analizza l’organizzazione criminale, in particolare Cosa nostra, e il suo sistema relazionale. Senza questo la mafia sarebbe soltanto un’organizzazione criminale assimilabile a tante altre. Cosa nostra è interclassista e lo è pure il sistema relazionale, con un ventaglio sociale molto ampio, che va dagli strati più bassi della popolazione agli strati più alti. All’interno di questo sistema la parte più alta è rappresentata da professionisti, imprenditori, amministratori, rappresentanti della politica e delle istituzioni. Sono questi soggetti che compongono la «borghesia mafiosa» e  che in combutta con i capimafia determinano le strategie complessive.

Sula base di questa visione abbiamo svolto delle ricerche, tra cui quelle sull’omicidio, sulle imprese, sul traffico di droga, sul ruolo delle donne, sulla globalizzazione, sulle idee di mafia, sulla storia della mafia e dell’antimafia.

Rispetto allo stereotipo secondo cui ci sarebbe una vecchia mafia e una nuova mafia, abbiamo ricostruito la storia come un intreccio di continuità e innovazione. L’estorsione è documentata a Palermo fin dal XVI secolo ed è una forma di esercizio di quella che chiamo «signoria territoriale», un aspetto arcaico ma perfettamente funzionale ai traffici degli ultimi decenni, come il traffico di droga. Badalamenti aveva il dominio sul territorio di Cinisi e dintorni  e poteva installare le raffinerie di eroina che imbarcava per gli Stati Uniti all’aeroporto di Punta Raisi, ora «Falcone e Borsellino». Volendo tracciare, sinteticamente, una periodizzazione, possiamo dire che c’è un lungo periodo d’incubazione, in cui sono documentabili i fenomeni che ho definito «premafiosi»: dagli anni precedenti l’Unità d’Italia fino agli anni ’50 del secolo scorso si può parlare di mafia agraria, nel senso che al centro c’è l’agricoltura e la violenza mafiosa era indispensabile per fronteggiare e reprimere le lotte contadine, la prima forma di antimafia sociale; segue una fase imprenditoriale, con la speculazione edilizia, e l’attuale fase si può definire finanziaria, con la lievitazione dell’accumulazione legata ai traffici internazionali.

Attualmente la mafia e le altre organizzazioni che possiamo considerare mafie, perche hanno in comune il modello che lega insieme associazionismo criminale e sistema relazionale, sono una componente di quello che è stato definito «finanzcapitalismo». Nell’analisi del sociologo Luciano Gallino, uno degli studiosi più lucidi, il finanzcapitalismo è potere in sé, nel senso che determina e condiziona le politiche internazionali. Dovremo vedere come si comporteranno le grandi centrali finanziarie di fronte alla crisi generata dalla pandemia.

Un problema che ci siamo posti riguarda un tema di fondo: come mai la mafia, parlo di quella siciliana, anche dopo colpi molto duri riesce a rigenerarsi? Negli anni ’60, dopo una guerra interna e i successivi processi, nonostante in buona parte si siano risolti in lievi condanne e assoluzioni e con l’invio degli imputati al confino (che ha avuto il risultato di diffondere la mafia su tutto il territorio nazionale), la mafia era vicina a sciogliersi ma poi si è ripresa ed è cominciata la stagione della lievitazione dell’accumulazione illegale con il potenziamento del suo ruolo sociale e politico.

Negli anni più recenti il maxiprocesso e gli altri processi hanno dato un durissimo colpo eppure c’è ancora, anche se con i problemi di cui parlavo. Una risposta può essere che la società presenta alcune caratteristiche che la rendono mafiogena: un’economia legale debole, quasi inesistente, per cui è conveniente il ricorso all’economia illegale, una sedimentata cultura dell’illegalità anche nelle classi più alte, la condizione di marginalità di ampi strati della popolazione, le istituzioni disponibili. Anche per la globalizzazione possiamo parlare di criminogenicità, almeno per due aspetti: l’aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, per cui per gran parte della popolazione mondiale l’illegalità è l’unica o la principale fonte di reddito; la finanziarizzazione dell’economia, in gran parte speculativa, che rende sempre più difficile distinguere flussi illegali e legali del capitale. La sfida oggi è a questi livelli». 

 

Per approfondimenti: 

L’assassinio di Peppino fu solo mafia?