Condividiamo l’allarme del giudice Ardita, lo Stato sta perdendo il controllo delle carceri

Dopo le ultime violenti aggressioni a Sulmona e Rebibbia, la rivolta di Santa Maria Capua Vetere e la scelta dell’ospedale di Vasto come luogo per tutte le quarantene di detenuti in Abruzzo, intervista al coordinatore nazionale FP CGIL Polizia Penitenziaria Branchi. Scarsità di personale, svilimento del ruolo da parte dei vertici dell’amministrazione, strutture fatiscenti, scarsa sicurezza, scelta di lasciare le celle aperte alcune dei maggiori problemi

Condividiamo l’allarme del giudice Ardita, lo Stato sta perdendo il controllo delle carceri
fonte: FP CGIL Penitenziaria
Condividiamo l’allarme del giudice Ardita, lo Stato sta perdendo il controllo delle carceri
Condividiamo l’allarme del giudice Ardita, lo Stato sta perdendo il controllo delle carceri
Condividiamo l’allarme del giudice Ardita, lo Stato sta perdendo il controllo delle carceri
Condividiamo l’allarme del giudice Ardita, lo Stato sta perdendo il controllo delle carceri

La situazione degli istituti penitenziari italiani continua ad animare la cronaca e il dibattito nazionale. Sebastiano Ardita, magistrato antimafia e consigliere del CSM, nei giorni scorsi ha lanciato l’allarme su «un sistema penale che è andato in crisi nel suo elemento centrale e cioè nell'esecuzione penitenziaria. Sono usciti moltissimi boss e ciò dà l'impressione che non tenga il sistema», dopo la scarcerazione di Carminati «occorre una riforma che renda più semplice tutto il sistema penale, perché i cittadini comunque non capiranno la circostanza per cui un personaggio ritenuto pericoloso venga scarcerato per motivi di forma.

È  incomprensibile per i cittadini, quindi una riforma va fatta e in modo sostanziale. È  un sistema penale che è in sofferenza perché ci sono moltissimi reati e si paga per molto poco» aggiungendo che «bisogna capire se le carceri sono ancora sotto il controllo dello Stato sulla base di dati che denunciano un’impennata dei reati commessi in carcere e un'impennata del disagio in carcere. Di certo il controllo della sicurezza è insufficiente e molto più carente rispetto al passato. Dunque bisogna interrogarsi perché le rivolte non sono avvenute per caso, sono avvenute perché c'erano condizioni che non hanno consentito il controllo delle carceri, altrimenti non sarebbero avvenute».

«Possiamo condividere le parole del dott. Ardita – ha dichiarato il coordinatore nazionale della FP CGIL Penitenziaria Stefano Branchi - anche a nostro giudizio lo Stato non ha più il controllo delle carceri perché manca il personale, non gli fornisce la giusta formazione e perché troppe situazioni sono lasciate allo sbaraglio. Sulla possibilità di evitare le rivolte non possiamo esprimerci, sulla sorveglianza dinamica siamo favorevoli  ma non alle celle aperte. La vigilanza dinamica può essere migliorata,  abbiamo chiesto incontri all’amministrazione penitenziaria, la scelta di lasciare le celle aperte è tra le cause delle aggressioni e la perdita di controllo degli istituti penitenziari. In risposta ad una sentenza europea e per evitare multe a nostro giudizio è stata portata avanti una scelta sbagliata, mandando allo sbaraglio i poliziotti penitenziari, i dirigenti e tutti i lavoratori».

Nei giorni scorsi è intervenuto sulla questione anche il magistrato Nicola Gratteri, autore di molte maxi inchieste contro la ‘ndrangheta e i colletti bianchi in Calabria e da mesi insultato e minacciato sui social network come ha denunciato lui stesso nei giorni scorsi e noi abbiamo già documentato il 17 aprile e l’11 maggio: «Lasciare le celle aperte non c'entra nulla con la finalità rieducativa della pena. Al contrario, il fatto che fino a oggi non siano state seguite le regole, per rendere più aperta la detenzione, è un messaggio diseducativo ai detenuti. Una gestione allegra, a maglie larghe del carcere, in violazione dell'ordinamento penitenziario, è un incentivo alla non osservanza delle regole». «Le rivolte sono state possibili – la denuncia di Gratteri - anche perché le celle erano aperte, anche nei reparti di alta sicurezza. In questi sono reclusi non i capi, ma gli esecutori, che hanno una normale ammirazione nei confronti dei capi e sono garzoni e strumenti dei capi. Le rivolte nelle carceri sono state possibili e così devastanti proprio per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti».  

«Una volta aperte le celle – sottolinea Branchi - il controllo diventa impossibile, si creano anche piazze di spaccio, l’arruolamento della manovalanza per la criminalità organizzata, non c’è un circuito che differenzi gli ingressi dai detenuti già presenti, non c’è un circuito premiale per chi merita l’accesso ad una sorveglianza dinamica. Appena si libera un posto si trasferisce un detenuto senza capire se ci sono le condizioni minime. Sono stati commessi errori madornali, per questo ha ragione il consigliere del CSM Ardita, è necessario riflettere se l’amministrazione penitenziaria e lo Stato controllano il carcere, che deve essere sempre un sistema democratico ma deve svolgere il suo compito costituzionale di rieducazione del condannato. Nell’attuale situazione invece non c’è nessuna rieducazione».

Nei giorni scorsi violente aggressioni contro poliziotti penitenziari ci sono state a Sulmona e Rebibbia, nell’istituto abruzzese da parte di un detenuto in alta sicurezza e a Rebibbia da un condannato all’ergastolo detenuto al 41bis ed entrambi già autori in passato di atti violenti. A Vasto  invece i sindacati penitenziari hanno fortemente criticato la scelta di individuare il locale istituto penitenziario come luogo dove inviare i detenuti di tutti gli istituti della regione posti in quarantena, causa nuovo coronavirus, e senza consultare sindacati e lavoratori. Mercoledì 17 giugno una delegazione della FP CGIL Penitenziaria, guidata dal coordinatore nazionale Branchi e dal rappresentante regionale campano Orlando Scocca, si è recato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dopo gli avvisi di garanzia recapiti platealmente a molti loro colleghi e la rivolta di sabato scorso. Per approfondire queste situazioni abbiamo posto intervistato Stefano Branchi.

Nella visita a santa Maria Capua Vetere cosa avete potuto riscontrare?

«Durante la visita di mercoledì non siamo entrati nell’istituto per altri impegni del comandante e il direttore, siamo riusciti comunque a parlare con entrambi. A Santa Maria Capua Vetere c’è uno stato di abbandono della polizia penitenziaria che perdura da molto tempo: ogni poliziotto penitenziario è costretto ad impegnarsi in più posti di servizio, con ritmi di lavoro insostenibili, e chiamato a guardare più situazioni durante la giornata, una situazione che provoca forti tensioni e stress. L’amministrazione ha inviato il GOM (Gruppo Operativo Mobile) che non ha ruoli di supporto ma solo di garanzia, un errore a nostro giudizio perché dovrebbe invece prendere in mano la situazione. I colleghi hanno acquisito un po’ di maggior tranquillità ma l’amministrazione doveva prendere posizione: nel carcere esistono regole che vanno rispettate, la magistratura farà il suo corso e se qualcuno ha sbagliato pagherà il suo conto con la giustizia ,a non è possibile che un poliziotto deve lavorare con il timore che ogni diverbio o tensione può portarlo a subire un’indagine. Al di fuori di situazione nelle quali la maggior parte della polizia penitenziaria non entra nel merito, i poliziotti penitenziari non sono dei picchiatori ma un altro ruolo che col passare del tempo l’amministrazione penitenziaria sta sminuendo non formando, non impiegando le giuste risorse per l’implementazione delle tecnologie necessarie, costringendoci a lavorare in strutture fatiscenti, i dirigenti portano avanti progetti senza interpellare il personale di polizia penitenziaria, in pochi istituti c’è raccordo tra dirigenza e personale di polizia penitenziaria, ci sono liti sempre più frequenti tra dirigenti e funzionari sui vari compiti organizzativi. Tutto questo va a scapito dei poliziotti penitenziari, così non è possibile andare avanti. Abbiamo preso posizione per tutelare i diritti e la salute del personale, compito di un sindacato.

Quando l’amministrazione afferma che c’è il personale sufficiente sostiene qualcosa che non corrisponde alla realtà dei fatti: un poliziotto penitenziario dovrebbe svolgere il turno su sei ore giornaliere, come previsto dal contratto, ed invece arriva a svolgerne anche dieci, dodici o tredici. Un carico di lavoro eccessivo che comporta forte stress e il non riuscire a controllare l’andamento dell’istituto, tutti i giorni assistiamo a video di ritrovamenti di cellulari e droga a cui si aggiunge un altro grandissimo problema: a breve lanceremo una campagna contro le aggressioni, il personale di polizia penitenziaria ne subisce quotidianamente con gravi conseguenze, ad alcuni è stato anche staccato un dito come accaduto l’altro giorno a Rebibbia. Il livello di civiltà dentro un istituto penitenziario non può essere questo! Esistono delle regole e il compito della polizia penitenziaria è di farle rispettare, il nostro motto una volta era «vigilando redimere», oggi non riusciamo a redimere nessuno e non riusciamo a vigilare. Il nostro compito viene così sminuito e in più subiamo aggressioni quotidiane».       

Dopo le aggressioni di questi ultimi giorni avete posto l’attenzione sulla carenza di personale ed espresso fiducia in un «vero e proprio cambiamento rispetto alle politiche detentive passate, nell'interesse collettivo», quale potrebbe e dovrebbe essere questo cambiamento?

«Non è possibile che l’amministrazione lasci passare in sordina questi episodi. Una volta verificati i fatti un detenuto va trasferito, gli devono essere tolti i benefici della «buona condotta». Faccio un esempio: se un poliziotto penitenziario arriva a lavoro con dieci minuti di ritardo il suo responsabile eleva un rapporto disciplinare, nel caso di ritardi reiterati viene abbassato il giudizio di fine anno che ha conseguenze sulla carriera tra cui l’impossibilità di accedere per esempio a determinati concorsi, possibile invece che ad un detenuto che aggredisce un poliziotto penitenziario staccandogli anche la falange di un dito o picchia il suo compagno di cella non subisce nulla? Al massimo vengono stabiliti tre o quattro giorni di isolamento ma non perde nessun beneficio, la «buona condotta» siamo tutti d’accordo che deve permettere di accedere a privilegi ma quando ci sono comportamenti violenti devono essere tolti, se non lavoro e produco il datore di lavoro mi licenzia e così deve essere in carcere, il regolamento deve essere attuato in tutte le sue forme e nella sostanza».

«In tutte le regioni italiane si sta portando avanti il progetto di riaprire i padiglioni ristrutturati o aprirne di nuovi. In Puglia vogliono aprirne tre dove si potranno trasferire 600 detenuti circa, attualmente i detenuti sono all’incirca 3500/4000 e gli operatori di polizia penitenziaria sono intorno ai 2000. All’inizio dell’estate, senza realmente sentire le organizzazioni sindacali e solo una blanda convocazione dal provveditore e senza interrogarsi sui numeri del personale presente, hanno affermato di aver inviato personale ma non hanno osservato il posto di servizio, nasce così un problema fondamentale di cui si dovrebbe discutere. Non può funzionare così, non stiamo giocando come se fosse un’operazione di marketing in cui ad un certo numero di clienti facciamo solo corrispondere un certo numero di operatori: negli istituti penitenziari c’è un problema di sicurezza, noi siamo responsabili di vite umane, ogni giorno ne salviamo tantissime, l’unico sempre presente negli istituti è il poliziotto penitenziario. Lo Stato può essere solo un poliziotto di fronte anche a 300/400 detenuti?»

Situazione simile a quella che si sta creando a Sulmona?

«Assolutamente si, a Sulmona i colleghi sono distrutti, stanchi e sempre più spesso vengono aggrediti e picchiati, sono costretti a turni massacranti. Non c’è nessuna progettualità nell’amministrazione penitenziaria e non c’è dialogo col personale, non viene data la possibilità al personale di esprimersi sulle difficoltà oggettive attuali. Va ribadito a chiare lettere: una persona va a lavorare e gli viene staccato un dito, ci si rende conto che del livello?»

Cosa sta succedendo nella casa lavoro, ex carcere dove sono stati detenuti anche condannati per mafia tra cui il terzogenito di Totò Riina, di Vasto?

«L’amministrazione ha proceduto da sola senza interpellare le parti sociali ad individuare le strutture, necessario farlo ma bisogna anche capire quali possono essere le più idonee e se è disponibile un ospedale attrezzato. Siamo di fronte invece ad un periodo buio dell’amministrazione penitenziaria. Anche lì il nostro personale ha la giusta formazione e gli indispensabili dispositivi di protezione?  Il personale è sufficiente? C’è tutto quanto previsto nel protocollo e nelle circolari emanate? Sono tutte questioni di cui dobbiamo essere messi a conoscenza per intervenire e tutelare i lavoratori. Perché l’amministrazione procede unilateralmente?».