Dino Frisullo, guardare il mondo con gli occhi delle vittime

«Ecco il mio testamento, il testamento di un comunista. Avido di conoscenza e d'amore, vissuto e morto povero e curioso» «Lascio fiumi di parole dette e scritte spesso con rabbia, raramente con saggezza, in malafede mai, un mare di parole che già evapora al vento rovente del tempo. Lascio a chi vorrà raccoglierlo, il testimone del mio entusiasmo, nella folle staffetta mozzafiato -volgendomi indietro dopo vent'anni non so più se ho corso da solo».

Dino Frisullo, guardare il mondo con gli occhi delle vittime
Dino Frisullo
Dino Frisullo, guardare il mondo con gli occhi delle vittime

«Ali ha la febbre batte i denti fa pena rannicchiato sul sedile della Rover è bella la ragazza straniera ma la sua Leyla era più bella più profondi del mare i suoi occhi», quel mare che è vita ma uccide, quel mare dove l’umanità si specchia da millenni ma dove viene quotidianamente uccisa. Sono profondi gli occhi di tutte le Leyla che ogni giorno sogna, strappa alla vita un altro giorno, vedono le brutalità, le ingiustizie e le oppressioni più disumane possibili.

Profondi come lo sguardo di Dino Frisullo, appassionato e infuocato e non si voltava mai indietro donando lacrime e indignazione, rabbia ed entusiasmo a tutti gli occhi che non hanno più lacrime. La storia di Dino è stata la storia di tante storie, una biografia così ricca ed intensa che si può scrivere – senza eccessiva retorica o esagerazione – ne ha vissute tantissime.

E davanti al suo sguardo, dal suo amato Kurdistan alla Palestina, attraversando tanti luoghi d’Italia, è passato l’umanità e la disumanità più diversi. Ne ha viste tante come lo sguardo di Soumaila Sacko, bracciante e sindacalista Usb assassinato due anni fa. L’omicidio di Sacko, le reazioni «politiche» e mediatiche, le dinamiche e l’ambiente in cui è avvenuto raccontano l’Italia di oggi: una storia di sfruttamento, emarginazione, invisibilità e mafia. Nelle scorse settimane il caporalato, lo sfruttamento criminale, la disumanità che gli sfruttati subiscono ogni giorno sembrava potessero far capolino persino nel Parlamento italiano in occasione del «Decreto rilancio» (nato aprile, diventato per poco maggio e che stava per diventare giugno) e di quella che è stata definita «sanatoria dei braccianti».

Braccianti perché l’Italia del 2020 considera migliaia di persone come braccia, come schiavi a cui al massimo concedere qualcosa, non riesce a gettare nella spazzatura della Storia lo sfruttamento e il dominio del profitto. Aboubakar Soumahoro dell’Unione Sindacale di Base lo ricorda quasi ogni giorno, gridandolo dai ghetti e ogni volta che è possibile: non sono braccia ma persone, non sono una merce da sfruttare ma umanità da rispettare con dignità. Quella dignità calpestata e cancellata nelle periferie dello sfruttamento criminale osceno, dai ghetti del caporalato alla logistica, dalle strade dove migliaia di donne ogni anno sono incatenate dalla schiavitù sessuale a tante case dove violenze, abusi, sopraffazione sono pane quotidiano a tanti altri luoghi. Ad ogni latitudine.

In questi giorni si è tornato a parlare, in relazione all’emergenza sanitaria che forse ci stiamo mettendo alle spalle, del confine con l’Austria e delle polemiche scaturite per la decisione del governo austriaco di non riaprire la frontiera con l’Italia. Quella frontiera che da decenni nasconde e uccide migliaia, forse milioni, di persone che hanno attraversato stati, camminando anche per infiniti chilometri a piedi, fuggendo da guerre, fame, disperazione, terrorismo, e che si trovano confinati in ghetti disumani, abissi che strappano il cuore e lacerano l’anima. Muore l’umanità tra Italia e Malta tra cui si gioca da anni un’indegna partita a scacchi tra corruzione, mafie e traffici con i peggiori terroristi, sulla pelle degli invisibili e della disperazione. La dignità e l’umanità che viene quotidianamente massacrata nel Kurdistan, in quel lembo di terra tra Asia ed Europa del popolo più perseguitato e abbandonato al mondo.

Quel popolo senza Stato che qualche mese tutti affermavano di voler difendere, di mettere al centro dei propri interessi. I mesi sono passati e la persecuzione turca prosegue, anche con armi italiane e con la collaborazione di soldati italiani e della Nato. Passano gli anni ma i kurdi continuano ad essere sacrificati sull’altare della geopolitica e degli interessi delle grandi potenze, delle guerre dei «Grandi della Terra» e dei giochi sporchi tra cancellerie. Quegli stessi giochi e interessi, dei latifondisti di oggi e della propaganda politica, delle mafie e dei colossi del profitto, che in questi ultimi anni stanno cercando di spazzare via ogni esperienza di integrazione e solidarietà dei migranti in Italia favorendo le «mafie capitali» che continuano a macinare. Vent’anni fa era il Regina Pacis, uno dei lager per eccellenza nati dopo la legge Turco-Napolitano e che Dino Frisullo denunciò ripetutamente per anni, oggi abbiamo persino multinazionali che hanno fatto irruzione nel «mercato».

Erano gli anni in cui lo sguardo di Dino, primo italiano catturato ed imprigionato dal regime turco per essere andato in quelle terre lontane accanto ad un popolo oppresso, divenne anche lo sguardo dei kurdi e l’Italia li scoprì per la prima volta. Ricordare Dino senza volgere lo sguardo su quel che ci accade intorno, indignandoci e smuovendoci per l’oggi non è possibile. Diciassette anni dopo la sua morte la memoria di Dino Frisullo s’intreccia con le lotte e le lacrime di oggi, con un mondo sempre ingiusto e disumano da attraversare in una folla staffetta mozzafiato tra gli ultimi e gli emarginati, gli oppressi e le vittime di ogni ingiustizia. Quella folle staffetta mozzafiato, senza orari e mai fermo, che lo portava negli anni Ottanta ad andare in bicicletta da Bari a Roma per Democrazia Proletaria così da poter donare agli impoveriti e ai lavoratori il rimborso che gli spettava del biglietto ferroviario.

Stiamo forse uscendo da mesi di angoscia e sarà necessario ripartire, una ripartenza che non può essere neutra: l’emergenza sanitaria ci ha sbattuto in faccia una volta di più la realtà della malattia, dei diritti negati, del profitto che è disposto a sacrificare le vite per gonfiare i forzieri di pochi, stiamo ancora vivendo settimane in cui i più deboli, a partire dai malati e dagli anziani, sono considerati vittime collaterali e si esulta perché i morti quotidiani sono considerati «pochi» e in diminuzione. Mesi partiti con i restare a casa e gli andrà tutto bene mentre migliaia di persone si son ritrovate ancora più abbandonate di prima (e addirittura multati) ai margini delle città e abusi e violenze sono aumentate tra le mura domestiche.

E l’elenco potrebbe continuare per pagine e pagine. Come si può ripartire, quale «normalità» si dovrebbe riconquistare? Dino Frisullo, le sue poesie appassionate, le migliaia di pagine dense e fitte che ci ha lasciato per denunciare, documentate e gridare con chi non aveva voce ci indicano il cammino. Che non è la seconda stella a destra e dritti fino al mattino come la canzone ma è quella di chi vive nel buio perenne ma sogna ancora un mattino. Anche se non l’ha mai visto e non ne conosce i colori e i sapori. Perché questi mesi dovrebbero averci insegnato che, mentre noi ci sentivamo rinchiusi nelle nostre tiepide e sicure case, ci sono milioni di persone in Italia e nel mondo che non hanno tempo da perdere con le dotte dissertazioni filosofiche o le arie fritte della politica politicante, che non possono scegliere se mollare o andare avanti, tra interessi di bottega e di propaganda, di «politica» e consorteria: milioni di persone che muoiono di malattia e di fame, sfruttate e incatenate, che rischiano la vita per la violenza e le guerre e tanto altro.

«Per riprendere il filo della lettura del mondo c’è un solo modo: mettersi dalla parte delle vittime. Guardare il mondo, anche il nostro, con i loro occhi. Con gli occhi dei profughi, dei discriminati, degli affamati. Ma questo non è possibile se, anche solo per un attimo, non si condivide una parte della loro vita». Così scrisse, e prima ancora visse fino agli ultimi mesi quando dal letto di ospedale si preoccupava solo di non potere essere presente nelle manifestazioni contro le guerre, lo stesso Dino Frisullo. Se lo si facesse anche solo un giorno non si potrebbe più smettere e si scoprirebbe il mondo che esiste oltre le torri d’avorio e i comodi residence di vuote e ottuse autoreferenzialità, delle chiacchiere di chi (s)parla senza affrontare la realtà, di chi ha abbandonato davanti alle percentuali elettorali o perché stanco. Ma stanco di cosa? Come ci si può definire stanchi nelle comodità e nelle convenienze del momento davanti al grido di milioni di persone, davanti alle lacrime che sgorgano più di tutti i fiumi, i mari e i laghi del mondo, davanti a chi muore di abusi e disperazione ogni secondo. Si scoprirebbe ancora una volta l’intreccio marcio tra profitto, mafie, sfruttamento che ad ogni latitudine è ancora oggi l’unica vera realtà.

Quella che da decenni ci viene raccontata e analizzata, della «borghesia mafiosa» e di un’economia criminale che tutto schiaccia, sfrutta e devasta. Dino oltre vent’anni fa, senza neanche utilizzare la posta elettronica, scoprì, denunciò e documentò l’ultimo mese dalla Kater i Radesh (le cui vittime non hanno mai avuto giustizia) e la holding degli schiavisti che attraversava il Mediterraneo. Camminò accanto alle comunità migranti scoprendo e dando voce a tutti i drammi delle loro terre, conobbe il mondo e portò il mondo nelle nostre strade. Giunsero due navi sulle nostre coste e sulle fiancate spiccava il suo cognome, trascritto male ma che si comprendeva benissimo, issarono come un vessillo quel cognome che per loro era amore, passione, cuore, di chi veramente aveva vissuto e fatto proprio i loro drammi, oppressioni e ingiustizie. Credevano di trovare il Paese di Dino, accoglienza, umanità e giustizia. Non fu così, e non lo è ancora oggi.

Ripercorrere tutta la vita di Dino, le sue mille e più battaglie in una corsa che poteva portarlo persino a dormire nei «sacri palazzi» o davanti l’uscio di casa di un compagno, è possibile. Le sue analisi, la sua profonda capacità di intrecciare i fatti (come fece quando denunciando cosa accadeva nel centro di San Foca ci descrisse quale rete tra integralismo cattolico e business dei lager e degli affari stava sorgendo) e di indignarsi con passione ogni giorno (e notte) erano infinite. Quel mondo è il mondo di oggi, peggiorato e sempre più iniquo. E allora quella staffetta mozzafiato continua a cercare chi raccolga il testimone e, parafrasando la splendida Frizullo di Alessio Lega, inciampare «sulla coscienza come una bomba innescata, un futuro di resistenza».

 

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