Alcide De Gasperi: la politica come servizio e progettualità

Ricordare a 68 anni di distanza la figura di Alcide De Gasperi, morto il 19 agosto 1954 a Borgo Valsugana, rappresenta oggi un’occasione per riflettere sulla politica vissuta come vocazione e servizio, sull’integrità, la dignità e la coerenza quali caratteristiche essenziali per chi si propone di rappresentare i cittadini.

Alcide De Gasperi: la politica come servizio e progettualità

L’impegno politico che animò De Gasperi sin dalla giovinezza nel suo Trentino, ancora parte dell’Impero austro-ungarico, nasceva da una fede profonda e rappresentava la sua vocazione di vita. Egli era un uomo d’azione, e tale amava definirsi egli stesso, ma portava con sé un profondo bisogno di infinito. In lui non vi era contrapposizione tra le esigenze dello spirito e gli impegni politici, ma una sintesi, risultato di un cammino faticoso di riflessione su se stesso e sul suo ruolo nel mondo. La fede lo aveva sostenuto nei momenti difficili, che aveva dovuto affrontare durante gli anni del fascismo a motivo delle sue idee politiche: prima la prigione dal 1927 al 1928 e poi l’isolamento e le umiliazioni, comprese gravi difficoltà economiche.

Le Lettere dalla prigione ci restituiscono il travaglio interiore di un uomo che, come Giobbe, affrontò una sofferenza di cui non comprendeva le ragioni, ma da cui riuscì a non farsi sopraffare, riconoscendo la propria piccolezza e affidandosi completamente al disegno imperscrutabile di Dio.

La base cristiana della politica di De Gasperi era intima, discreta e aperta al dialogo. Come scrisse pochi giorni prima di morire, il 6 agosto 1954, al futuro Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l’ispirazione cristiana che era alla base dell’attività politica come servizio per l’uomo non doveva essere un motivo di vanto, ma doveva trasparire solo dai fatti.

Questo modo di intendere la fede spiega anche la convinzione di De Gasperi che fede e politica dovessero essere indipendenti. Da questo punto di vista, l’episodio più emblematico è sicuramente la cosiddetta “Operazione Sturzo”, cioè il tentativo compiuto, in occasione delle elezioni amministrative di Roma del 1952, di convincere De Gasperi ad accettare un’alleanza elettorale con le forze di destra, attraverso una lista civica senza simboli di partito guidata da Sturzo, alla quale avrebbero potuto aderire anche missini e monarchici. Il progetto, ispirato da una parte della Curia romana, nasceva dalla preoccupazione, condivisa anche da Pio XII, che le elezioni avrebbero decretato una vittoria dei comunisti. Come cattolico, De Gasperi visse momenti di travaglio interiore molto difficili, perché sentiva forte l’obbedienza al Papa e alla Chiesa, che non comprendevano le ragioni politiche del suo agire.

Come uomo politico, invece, ritenne l’iniziativa rischiosa per la salvaguardia del principio di autonomia nei confronti della Chiesa, al quale aveva sempre ispirato la sua azione politica e che era garanzia della sua libertà. Egli, inoltre, considerò tutte le possibili ripercussioni del progetto, sia in termini di rinascita anticlericale che di perdita di credibilità e di coerenza, visto che gli veniva chiesto di collaborare con la forza politica erede del fascismo. Le reazioni da parte degli antifascisti e dei repubblicani avrebbero rischiato di provocare forti divisioni nel Paese. La decisione di De Gasperi di far correre la DC da sola alle elezioni fu premiata dai cittadini, ma segnò profondamente i rapporti tra lo statista e Pio XII, che poco dopo non concesse a De Gasperi e alla moglie l’udienza privata richiesta in occasione del loro trentesimo anniversario di matrimonio e della professione solenne della figlia Suor Lucia. Il rifiuto ferì ancora di più il cattolico De Gasperi che, tuttavia, in qualità di Presidente del Consiglio italiano, si sentì in dovere di inoltrare alla Santa Sede un atto di protesta ufficiale.

Questo episodio mette in luce anche l’integrità, la dignità e la coerenza quali tratti caratteristici della figura di De Gasperi e, conseguentemente, della sua azione politica. Fu ancora durante l’esperienza della prigione che egli si rese conto che non avrebbe mai potuto rinnegare i suoi ideali politici, anche se questa scelta comportava la rinuncia alla sua libertà personale e alla possibilità di badare alla sua famiglia.

Così scriveva il 6 agosto 1927: “Allora rifaccio con la memoria l’ingrato cammino di questi ultimi anni e penso se potevo fare altrimenti. E mi pare di no. Ho resistito è vero, fino all’ultimo, sulla trincea avanzata, alla quale mi aveva chiamato il dovere, ma era proprio la mia coscienza che me lo imponeva, le mie convinzioni, la dignità, il rispetto di me stesso, la fedeltà alla mia bandiera e alla mia vita. Ci sono molti che nella politica fanno solo una piccola incursione, come dilettanti, ed altri che la considerano, e tale è per loro, come un accessorio di secondarissima importanza. Ma per me, fin da ragazzo, era la mia carriera o meglio la mia missione. Non importava rimettere il mandato, abbandonare il giornale, imporre il silenzio alle labbra e la clausura ai piedi. Questo in parte feci, e se l’avessi fatto anche totalmente, forse che io non restavo io e che potevo uscire dalla mia pelle? Rimango sempre un «popolare», il Degasperi dei suoi giovani e dei suoi anni maturi, come un chirurgo rimane un chirurgo, anche se muta ospedale e un ingegnere ingegnere”. […]

Questa stessa integrità, dignità e coerenza dovevano a suo giudizio connotare le relazioni internazionali della nuova Italia, per la cui ricostruzione egli si adoperò a cominciare dal suo primo incarico di governo, come ministro degli Esteri nel dicembre 1944. Entro i limiti strettissimi imposti dal Governo militare alleato, detentore di fatto della sovranità in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, e scontrandosi con la diffidenza alleata, frutto della sconsiderata politica aggressiva fascista, egli pose le basi di una politica estera lungimirante. Al di là dell’interesse immediato di ridurre al minimo le perdite territoriali che le potenze alleate intendevano imporre all’Italia, De Gasperi vedeva nei negoziati e poi nella firma del Trattato di pace le condizioni indispensabili per riportare l’Italia sulla scena internazionale come uno stato affidabile, che avrebbe potuto contribuire alla realizzazione di una pace giusta che ponesse veramente le basi di una pacifica convivenza internazionale dopo la tragedia delle due guerre mondiali.

Questa visione ampia della questione del Trattato di pace emerge chiaramente dal famoso discorso tenuto da De Gasperi il 10 agosto 1946 a Parigi, in occasione della Conferenza dei Ventuno, quando i Paesi sconfitti vennero chiamati ad esprimere le proprie ragioni alle potenze vincitrici.

Chi ha potuto vedere le immagini di questo discorso, disponibile in rete, credo sia stato colpito dall’atmosfera fredda e dalla gravità dell’atteggiamento di De Gasperi che, di fronte ai 300 delegati della Conferenza, parlò in italiano in rappresentanza del primo Paese sconfitto. Una gravità e una dignità che emergono sin dall’incipit del discorso :

“Prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l'essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali?”

De Gasperi accettò subito il ruolo di ex nemico e di imputato che gli era stato assegnato, pur ricordando il suo passato di antifascista, mettendosi così al riparo da quelle critiche che avrebbero rischiato di inficiare tutto il suo intervento. Partendo da questa completa assunzione di responsabilità e analizzando nel dettaglio tutti gli aspetti del Trattato, egli arrivò ad una responsabilizzazione generale di tutti i suoi interlocutori, appellandosi ad un concetto più grande di democrazia e di giustizia che sole avrebbero potuto stabilire un sistema di rapporti internazionali che in futuro avrebbe permesso il superamento del Trattato stesso.

Con uno stile asciutto, avanzando critiche con fermezza, ma senza acredine, usando toni sempre lontani da ogni caduta retorica, De Gasperi riuscì a conquistare la stima dei presenti. Il Segretario di Stato americano Byrnes trovò "inutilmente crudele" che il Presidente del Consiglio italiano passasse fra tante persone che lo conoscevano senza che nessuno gli rivolgesse la parola e gli strinse la mano mentre usciva dalla sala. Anche la stampa nazionale, con l’eccezione di quella comunista, e internazionale accolsero favorevolmente il discorso, perché da più parti fu riconosciuto che era toccato proprio al rappresentante di un Paese sconfitto iniziare a parlare di pace.

In questo modo De Gasperi intendeva archiviare definitivamente le aspirazioni velleitarie e gli atteggiamenti ambigui e tentennanti. Basti pensare al cambio di campo compiuto dall’Italia sia durante la prima che la seconda guerra mondiale, che tanto discredito aveva gettato sulla reputazione italiana. L’adesione all’Alleanza Atlantica e le iniziative a favore della costruzione di un’Europa unita sono state poi lo sviluppo, perseguito dal grande statista con ferma determinazione, di queste premesse.

L’atlantismo e l’europeismo rappresentano due elementi fondamentali del lascito politico di Alcide De Gasperi e continuano ad essere ancora oggi, in uno scenario internazionale radicalmente mutato, condizioni indispensabili perché l’Italia possa continuare a crescere, a dimostrazione del fatto che solo quando si propone di progettare il futuro, inserendo in esso le contingenze del presente, la politica è in grado di offrire vere soluzioni ai bisogni dei cittadini.