Emanuele Piazza, 30anni dopo: dove sono i mandanti?

INTERVISTA ALL’AVVOCATO ANDREA PIAZZA, fratello di Emanuele, collaboratore esterno del SISDE, ammazzato nel marzo del 1990. Gli esecutori materiali sono stati arrestati e condannati. Ma chi manca all’appello? Quali sono le «menti raffinatissime» che hanno progettato l’omicidio? I depistaggi di Stato hanno nascosto la verità sull’omicidio del giovane poliziotto.

Emanuele Piazza, 30anni dopo: dove sono i mandanti?
Foto concesse dalla famiglia Piazza

Nel marzo del 1990, in Sicilia, scompare un giovane poliziotto. Era il collega di Nino Agostino, ammazzato insieme a sua moglie, il 5 agosto del 1989, da Cosa nostra (ma non solo). Entrambi sono legati alla vicenda dell’Addaura (21 giugno del 1989), la località marittima dove Giovanni Falcone passava le sue poche ore di relax. Dove si registrò il famoso tentativo (fallito), organizzato dalle «menti raffinatissime», per eliminare il magistrato. Offeso e dileggiato in vita e diventato “eroe” dopo la strage di Capaci (23 maggio 1992). «Sventurato il paese che ha bisogno di eroi» diceva il poeta Bertolt Brecht. In questo strano Paese, con la memoria corta, non abbiamo più bisogno di eroi. Ma di persone oneste. Ammazzate da entità sconosciute. Alcuni ricordati e commemorati solo dopo la morte. E in vita? Perché non siamo stati attenti quando queste persone erano vive? «Si diventa credibili solo dopo la morte» diceva amaramente Falcone. Ed aveva capito tutto.

  

Emanuele Piazza collaborava con il Sisde, il servizio (segreto) per le informazioni e la sicurezza democratica (coinvolto in diversi e gravi scandali). Emanuele arrestava i latitanti. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. E per ricordare l’ennesima vittima di mafia abbiamo deciso di raccogliere il pensiero del fratello di Emanuele, l’avvocato Andrea Piazza (nella foto in basso), impegnato in questi anni a portare nelle scuole la sua testimonianza. Oltre all’Associazione che porta il nome di Emanuele è attivo, insieme a Carmine Mancuso (figlio di Lenin, maresciallo della polizia, assegnato alla scorta del giudice Cesare Terranova, uccisi entrambi da Cosa nostra il 25 settembre del 1979 a Palermo), nell’Associazione “Memoria dei caduti nella lotta contro la mafia”, dove ricopre il ruolo di segretario. «La finalità è quella di cercare di avere un ricordo uniforme. Abbiamo fatto, come associazione, anche una proposta per un regolamento commemorativo. Soprattutto per evitare che ci siano vittime di serie a, di serie b e di serie c».

 

Soffermiamoci sulla figura di suo fratello Emanuele. Sono passati trent’anni dal suo omicidio.

«Emanuele è scomparso a 29 anni e ne sono passati 30 da quel giorno. Questa è una giornata con una valenza simbolica particolare. Gli esecutori materiali sono stati tutti condannati, circa nove soggetti. Tra cui due collaboratori di giustizia: Ferrante e Onorato. È stata certificata, a distanza di mesi, la sua appartenenza, come collaboratore esterno, al Sisde. In prima battuta il Sisde ha sempre negato, poi su input di Falcone, hanno ammesso la collaborazione. Le indagini nella prima fase sono state assolutamente inutili. C’era La Barbera (capo della squadra mobile di Palermo, nda), quello che ha creato il depistaggio sulla strage di via D’Amelio con il falso collaboratore di giustizia Scarantino, che nella fase iniziale avrebbe potuto benissimo avere elementi per arrivare alla verità».

 

Invece?

«C’è stata la volontà di non fare le indagini. Anche la notizia sulla stampa è passata dopo tanti mesi. Emanuele scompare a marzo e la pubblicazione arriva a settembre, dopo sei mesi, con l’articolo di Francesco Viviano di Repubblica. Questi sei mesi sono serviti non per fare le indagini ma per confondere le acque. Poi c’era la documentazione che poteva portare a Francesco Onorato, il collaboratore di giustizia che ha partecipato materialmente all’omicidio di Emanuele. Onorato non è mai stato chiamato, nonostante fosse un soggetto già con precedenti penali. C’è stata la volontà di non fare nulla. Così anche la circostanza, nonostante fosse stata disposta da Falcone perché era lui che portava avanti le indagini, di sentire i funzionari di polizia che avevano avuto rapporti con Emanuele. Anziché essere ascoltati accuratamente presentarono una relazione di servizio e, processualmente, si accertò che erano state tra di loro concordate. C’è stata solo un’attività finalizzata a screditare. In quel periodo Emanuele aveva fatto arrestare un latitante, un certo Sammarco, e fece scoprire un deposito di armi. Tutte queste cose non sono mai emerse dalla prima indagine. Nella fase iniziale la vicenda di Emanuele è stata destinata al nulla. In tutte queste vicende nostrane restano sempre oscuri i mandanti. Oltre ai due collaboratori c’era pure l’uomo di Salvatore Riina, Salvatore Biondino, che ha preso trent’anni. Come sulle stragi del ’92, dove Cosa nostra c’entra marginalmente, tutto si basa sempre sul discorso del movente, peraltro ci sono pure i depistaggi di Stato. Se fosse una questione solo di mafia non ci sarebbe il depistaggio. Queste vicende sono di caratura internazionale. C’è una schematicità che si ripete in ordine a questi eventi. Si crea un colpevole apparente per nascondere tutto il resto. In questo mi allineo totalmente al pensiero della famiglia Borsellino. Inquadro la vicenda in un quadro internazionale, con dinamiche di grossi flussi di interessi.»

 

C’è una data importante da ricordare: 21 giugno 1989. Quel giorno viene sventato all’Addaura un attentato contro il giudice Falcone.

«Se Emanuele ha potuto o meno essere utile per evitare la strage? Non ho elementi validi per affermarlo. Aveva una sua carriera in polizia, che poi lasciò di colpo. Aveva preso parte al gruppo sportivo di lotta libera, poi aveva fatto la scorta a Pertini e poi era finito alla Criminalpol con De Gennaro, di cui aveva un’idea assolutamente negativa. Secondo gli esecutori materiali è stato ucciso perché era alla ricerca di latitanti».

 

Ma questa motivazione, la ricerca di latitanti, cozza con il depistaggio. Perché depistare?

«I mafiosi sono stati impiegati come subappaltatori, come esecutori apparenti».

 

Suo fratello cominciò ad indagare sulla morte del collega Agostino, ucciso qualche mese prima.

«C’è stata una riunione, dove risulta che lui ha dato degli indizi sull’omicidio».

 

C’è una frase riferita da suo fratello Emanuele all’altro suo fratello Gianmarco: «In quell’attentato (Addaura,nda) c’entra la polizia».

«Abbiamo due visioni completamente diverse. Quando passano gli anni si possono fondere i pensieri con qualcosa che si ricordava».

 

Quindi non è d’accordo su questa affermazione?

«Tutto può essere, in un’ottica di dinamiche di caratura internazionale».

 

Dove è stato ucciso Emanuele?

«A Capaci, poco distante dal luogo della strage, nei pressi della torretta dove erano presenti i rappresentanti di Cosa nostra».

 

Tra gli esecutori materiali c’è un certo Troia Erasmo, assolto in Cassazione per un vizio procedurale nel procedimento di estradizione dal Canada. Che fine ha fatto questo soggetto?

«Fu arrestato in Canada, quando fu emesso il decreto di estradizione gli fu contestato un omicidio e dimenticarono di contestare l’omicidio di Emanuele Piazza. È stato fin dall’inizio presente al processo, è stato condannato in primo grado e in appello. Poi in Cassazione, per questo vizio procedurale, è stato assolto. Oggi dovrebbe essere a piede libero».

 

Gli esecutori materiali sono stati arrestati e condannati. Per i mandanti, secondo lei, dobbiamo aspettare ancora molto?

«Non c’è più niente da fare. Il sistema non è idoneo, non è pronto per arrivare ad un livello superiore. Noi viviamo di verità apparente, legata alla semplicità dei fatti. In tutti gli omicidi eccellenti i mandanti restano sempre oscuri. In tante occasioni la Sicilia è stata utilizzata per eliminare personaggi scomodi. Nella relazione di minoranza sulla mafia, della Commissione Antimafia del ’76, è evidente che quando c’è stato lo sbarco degli americani ci si è avvalsi del gangsterismo italo-americano, una forma di legame profondo. Considero la mafia un unicum, uno Stato nello Stato. I depistaggi di Stato ci sono solo nelle vicende di mafia. La mafia è dentro il sistema».

 

Come è cambiata la sua vita dopo la morte di suo fratello?

«Sono vicende che si ripercuotono su tutte le persone vicine alla vittima, che possono cambiare anche la prospettiva di vita. La mia visione delle Istituzioni è ancora più negativa: dovrebbero essere da esempio invece, spesso, accade che, attraverso gli uomini che le rappresentano, sono ancora peggio».