LEA GAROFALO, la Testimone di giustizia abbandonata dallo Stato e bruciata dalla 'ndrangheta

SPECIALE LEA GAROFALO. UNDICI ANNI DOPO - Il 24 novembre del 2009 il clan Cosco mette le sue mani sporche su una fimmina calabrese. Una donna, nata in un contesto mafioso, che mai aveva commesso reati. In vita abbandonata dallo Stato (ma non solo), bruciata in un bidone dalla 'ndrangheta e inserita, erroneamente, tra i collaboratori di giustizia.

LEA GAROFALO, la Testimone di giustizia abbandonata dallo Stato e bruciata dalla 'ndrangheta
Lea Garofalo, la testimone di giustizia abbandonata

Alla fine di questo racconto tragico, rimane una
grande amarezza. Siamo stati distratti, indifferenti, sordi, Lea ci chiedeva aiuto e noi – che pure ci riempiamo la bocca di parole e l’animo di indignazione nei convegni antimafia – non abbiamo voluto capire. “Ho bisogno di aiuto, qualcuno ci aiuti, please”. Si concludeva così la lettera che Lea inviò al Sig. Presidente della Repubblica il 28 aprile 2009. Lettera che però “non risulta essere pervenuta”, sul Colle più importante della Repubblica. Forse è così, ma un dato è certo: quelle parole non sono mai arrivate al nostro cuore, e della solitudine di Lea, della sua orrenda morte, siamo tutti un po’ responsabili.
L’Italia civile, democratica, l’Italia che chiama Falcone e Borsellino “Giovanni e Paolo”, l’Italia dello Stato che “sconfiggeremo le mafie”, nella vicenda tragica di Lea ha consentito che a vincere fosse la ‘ndrangheta.

dalla post-fazione (Il Coraggio di dire No, 2012 e 2018) di Enrico Fierro

 

Lea Garofalo è una fimmina ribelle calabrese, una donna che non ha girato la testa dall’altra parte, che l’ha alzata davanti ai mafiosi vigliacchi.

Nata in un contesto di ‘ndrangheta, ha sentito il puzzo della criminalità organizzata sin dalla culla. All’età di otto mesi, nel 1975, la prima tragedia: viene ammazzato a colpi di lupara suo padre Antonio, il boss di un paesino in provincia di Crotone.

 

Nel 2005 tocca a suo fratello Floriano, detto Fifì, il boss dei petilini a Milano, il contabile del clan. Checché ne dica l’ex ministro dell’Interno Maroni (addirittura chiese una puntata riparatrice alla Rai per rispondere a una denuncia dettagliata sulla presenza delle mafie nell’Italia settentrionale). Le mafie al Nord ci sono e fanno i loro sporchi affari da quarant’anni.

 

Lea Garofalo nasce in questo contesto criminale: con la morte del padre inizia la faida con i Mirabelli, l’altra famiglia mafiosa di Pagliarelle, una piccola frazione di Petilia Policastro (Kr). Sono gli anni della prima guerra di ‘ndrangheta che toccherà tutta la Calabria.

I vecchi boss, che si pisciano nelle mutande, vengono sostituiti dai nuovi capi bastone. Sul mercato sono prepotentemente apparse le sostanze stupefacenti, il grosso business dell’epoca che permetterà alla mafia calabrese di fare il salto di qualità e di trasformarsi nell’organizzazione criminale più forte al mondo, oggi, capace di mercanteggiare direttamente con i cartelli colombiani e di avere il monopolio in Europa per il traffico di cocaina.

 

Anche a Pagliarelle si spara. E si uccideranno per molto tempo, sino agli anni ’90. Quindici anni di faida, quindici anni di sangue. La nonna di Lea, davanti ai morti ammazzati della sua famiglia, ripeterà in continuazione: «il sangue si lava con il sangue».

 

Ma la giovane Lea è diversa, non è fatta di quella pasta. Incontra un piccolo e insignificante guappo di paese, Carlo Cosco. E si innamora.

Una mera illusione per la giovane donna, intenzionata ad affidare il suo cuore nelle mani di un uomo (in questo caso, di un quaquaraquà). Ma commette un grave errore: il guappo non ha sentimenti, è solo una bestia assetata di sangue e potere.

Lui sfrutterà l’amore della donna, la figlia del boss ammazzato e la sorella del contabile Fifì, per tentare la scalata criminale, per conquistare la piazza di spaccio milanese, in via Montello.

Un comprensorio, all’epoca, di proprietà dell’Ospedale Maggiore in mano alla ‘ndrangheta.

Trent’anni di anarchia criminale (spaccio di droga, omicidi, covo di latitanti, traffico di armi, locali affittati e venduti illegalmente agli immigrati), nella totale impunità, dove nessuno ha mai mosso un dito per riappropriarsi di una struttura pubblica.

 

Lea seguirà il suo uomo, il guappo diventato gregario di Fifì, proprio in via Montello.

Abbandona la sua terra per allontanarsi da un ambiente malsano. Ha una figlia piccola, Denise, concepita con il criminale dopo la tradizionale fuitina, da tutelare e proteggere.

Arriva nel comprensorio, ma la situazione non è affatto migliorata. Sembra di rivivere la faida di Pagliarelle. Non può uscire di casa, è succube del suo compagno violento. È costretta a subire la violenza animalesca della bestia, che conosce solo un linguaggio, e non è quello della ragione. Assiste anche a un omicidio, di un certo Antonio Comberiati, eliminato dai Cosco per completare la scalata criminale.

 

La donna decide di abbandonare il suo uomo, la sua “famiglia” e il covo mafioso. Prende sua figlia Denise e scappa. Ma una donna, secondo quella mentalità criminale, non può decidere con la propria testa. Comincia l’inferno per Lea Garofalo. Subisce due aggressioni durante i colloqui in carcere, dopo aver comunicato la sua definitiva decisione: il piccolo mafiosetto che colpisce senza pietà e due vigliacchi, il padre e uno dei fratelli, che guardano senza muovere un dito. 

La seguono, tentano continue mediazioni, anche il fratello boss prende posizione e la schiaffeggia in pubblica piazza. Tutti devono vedere, tutti devono sapere.

Ma sua sorella è calabrese, ha la testa dura, continua per la sua strada. Denise deve respirare un’altra aria.

Le bruciano tre macchine. «Non mi volete far vivere in pace?», si confida con la sorella Marisa. «Adesso vi sistemo io e dico tutto quello che so».

 

Capisce che l’unica strada da seguire è quella della Giustizia e si affida allo Stato. Incontra un magistrato, Salvatore Dolce, a Catanzaro («Dopo numerose minacce psichiche, verbali e mentali di denunciare tutti», scriverà nel suo memoriale nell’aprile del 2009, «vengo ascoltata da un magistrato dopo un mese dalle mie dichiarazioni in presenza di un maresciallo e di un legale assegnatomi, mi dissero che bisognava aspettare di trovare un magistrato che non fosse corrotto dopo oltre un mese passato scappando di città in città con una figlia piccola, i carabinieri ci condussero alla procura della Repubblica di Catanzaro e lì fui sentita in presenza di un avvocato») e comincia a raccontare la sua storia, il suo dramma: parla della morte del padre, della faida di Pagliarelle, dei traffici e degli affari della sua famiglia, parla del fratello boss, degli affari dei Cosco, delle attività a Milano.

Svela ciò che non andava svelato e rompe il codice secolare della maledetta ‘ndrangheta. Diventa una collaboratrice di giustizia, senza aver commesso mai alcun tipo di reato.

 

Entra nel programma di protezione, dal 2002 al 2009: sette anni di tribolazioni. Le sue dichiarazioni non servono a nulla, non verrà mai istruito un processo.

 

In vita Lea Garofalo non viene ritenuta credibile. Anzi, viene definita una «pentita», una «prostituta», una «tossica». Il suo testamento, il memoriale scritto nel 2009, indirizzato al Capo dello Stato dell’epoca (Giorgio Napolitano, nda) e agli organi di informazione nazionali, verrà pubblicato solo dopo la sua tragica morte.

Non è mai stata aiutata da nessuno.

 

Negli anni della protezione cambia continuamente città, con sua figlia Denise è costretta a scappare da questi criminali che hanno deciso la sua condanna a morte. Durante il programma la protezione funziona. I tentativi dei Cosco, di mettere le mani sulla donna, risultano inutili. Ma questa nuova vita non soddisfa le esigenze delle due donne: sono anni difficili, pieni di sacrifici, non riescono nemmeno ad arrivare alla fine del mese.

A Bojano, in Molise, Lea chiama sua sorella e chiede di poter rientrare in Calabria. Svela la sua residenza protetta e viene cacciata, insieme a sua figlia, dal programma. Dopo un ricorso al Tar e al Consiglio di Stato, le due donne, riacquistano la protezione. Per poco tempo.

 

Rientrano in Calabria, con il permesso della ‘ndrangheta, e dopo diversi anni, la donna ribelle, si rivede con il suo ex convivente Carlo Cosco.

Nella sua mente criminale c’è il piano, nato agli inizi degli anni 2000, per l’eliminazione della donna. Sta cercando l’occasione giusta per sopprimere fisicamente la madre di sua figlia. Denise sta frequentando il secondo anno delle superiori a Campobasso e decidono di ritornare in Molise per permettere alla giovane di terminare l’anno scolastico.

È Cosco che si preoccupa di tutto, sembra cambiato, diverso. Ma è solo una tattica, una strategia. Tramite un’agenzia immobiliare affitta un’abitazione nel capoluogo molisano, in via Sant’Antonio Abate, numero 58.

Le due donne, insieme al Cosco e alla madre, ritornano in Molise. Ma Lea non è autorizzata a dormire nella nuova casa, deve restare in macchina.  

Dopo diversi giorni, stanca di essere trattata peggio di una bestia, fa irruzione in casa e affronta la suocera, la madre del mafiosetto di provincia.

 

Campobasso, via Sant’Antonio Abate, 58 (ph Paolo De Chiara)

 

Il 5 maggio 2009, il clan Cosco mette in pratica il piano preparato qualche anno prima. Un falso tecnico della lavatrice si presenta nell’abitazione molisana. La fimmina calabrese si accorge che il soggetto non è adatto ad aggiustare l’elettrodomestico rotto. È solo un sicario inviato dal clan per raggiungere l’obiettivo stabilito: stordire la donna, impacchettarla con dei cartoni, nasconderla in un furgone (prestato da un cinese, titolare di un’attività commerciale in via Montello a Milano), trasportala in Puglia, in aperta campagna, interrogarla, ucciderla e scioglierla nell’acido.

Secondo i magistrati di primo grado nel furgone parcheggiato davanti all’abitazione di Campobasso è presente un fusto con 50 litri di acido.

Il piano fallisce.

Miseramente.

 

Lea e Denise riescono ad avere la meglio. Sembrano dei dilettanti questi Cosco.

L’appuntamento con la morte è solo rinviato.

 

Il 24 novembre 2009, a Milano, dopo altri innumerevoli tentativi falliti, sei uomini si scagliano vigliaccamente contro una donna. Lea viene allontanata da sua figlia Denise, la fimmina che ha rotto il maledetto codice secolare della mafia calabrese deve morire.

 

La uccidono brutalmente in un appartamento. Per questi vigliacchi non basta, devono cancellare anche il suo corpo, che viene bruciato in un bidone in provincia di Monza.

Il luogo del delitto, San Fruttuoso - Monza (ph Paolo De Chiara)

 

Alla fine del primo grado di giudizio (30 marzo 2012), senza il corpo della donna, i magistrati parlano (e lo scrivono nelle motivazioni della sentenza) dei 50 litri di acido utilizzati per cancellare ogni traccia della donna.

 

Sei ergastoli: Carlo, Giuseppe e Vito Cosco, Rosario Curcio, Carmine Venturino e il falso tecnico della lavatrice Massimo Sabatino.

 

Tra il primo e il secondo grado si registra il colpo di scena. Uno dei soggetti condannati all’ergastolo diventa collaboratore di giustizia. Venturino (ritenuto dai magistrati parzialmente credibile), l’ex fidanzatino di Denise, utilizzato dal padre per controllare la figlia, offre la sua versione.

 

Lea Garofalo non è stata sciolta nell’acido. È stata uccisa a colpi di pugni, poi strangolata, poi trasportata in un magazzino a San Fruttuoso (Monza) e bruciata in un bidone.

Il bidone della morte (archivio Tribunale di Milano)

In un tombino – tre anni dopo la morte – verranno ritrovati 2.810 frammenti ossei della donna. Non riconosciuti con l’esame del DNA, ma utilizzando una vecchia lastra dentaria di Lea. Fornita da sua figlia Denise.  

 

Hanno distrutto una vita e un corpo, ma non sono riusciti a cancellare la memoria di una eroina che ha avuto la forza e il coraggio di dire No.

 

La fimmina calabrese ha vinto la sua battaglia: il clan è stato annientato con gli ergastoli. Nel secondo grado (29 maggio 2013) viene riformata parzialmente la precedente sentenza.

Quattro ergastoli: Carlo e Vito Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino; venticinque anni di reclusione per il collaboratore di giustizia Venturino e un’assoluzione per Giuseppe Cosco, detto Smith).

 

Il 18 dicembre del 2014 la Cassazione ha messo la parola fine, respingendo i ricorsi dei condannati. Denise, la figlia con lo stesso coraggio di sua madre, vive in località protetta, lontana da tutti e da tutto.

 

Oggi, Lea Garofalo, è ricordata in molte piazze, in molte città, in molte scuole. Perché la memoria, nel Paese senza memoria, è di vitale importanza.

Cimitero Monumentale, Milano (foto Paolo De Chiara)

 

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