Roberto Mancini, il poliziotto che scoprì la terra dei fuochi

IL SANTO LAICO. Il 30 aprile 2014 è morto Roberto Mancini, dodici anni dopo essersi ammalato di linfoma non Hodgkin, il poliziotto che scoprì la terra dei fuochi. Una vita intera ad impegnarsi per la giustizia, contro le mafie, per la sua terra e i più deboli. Le sue indagini furono accantonate per troppi anni e lo Stato in un primo momento non lo considerò vittima del dovere.

Roberto Mancini, il poliziotto che scoprì la terra dei fuochi
Ph Polizia di Stato

«Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili», la frase di Bertolt Brecht è perfettA per descrivere la forza, il vigore, la preziosità della vita di Roberto Mancini.

Il poliziotto morto, dodici anni dopo essersi ammalato di linfoma non Hodgkin, contratto per le sue indagini nella terra dei fuochi, tra i rifiuti più pericolosi e pestilenziali che il sistema imprenditoriale e criminale possa aver mai prodotto.

Una vita intera che è sempre stata tutt’uno con la lotta per la giustizia, nel documentare e denunciare le mafie, nello schierarsi con i più deboli. Iniziata con i collettivi studenteschi della sinistra extraparlamentare, quando ricevette anche minacce di morte dai neofascisti che preoccuparono la madre mentre lui quasi non si scompose, all’ingresso in polizia e alla lotta contro colletti bianchi mafiosi di ogni risma.

Un percorso di vita che potrebbe apparire incoerente ai più ma in realtà solida, lineare, autentica di chi rimase fino all’ultimo fedele ai suoi ideali, alla giustizia e all’impegno per i più deboli. Quello del poliziotto comunista, così definito anche dai colleghi perché tutte le mattine arrivava con Il Manifesto sotto braccio, che non dava tregua ai criminali e ai loro sodali e con umana fermezza riusciva ad essere presente durante uno sgombero.

Riassumere tutta la sua vita in un solo articolo è probabilmente quasi impossibile, tanto si può dimenticare. Nel 2016 Nello Trocchia e Luca Ferrari, insieme alla moglie Monika, pubblicarono il libro «Io morto per dovere. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la terra dei fuochi», una intensa biografia, pubblicando anche documenti dello stesso Roberto. Ed il libro, insieme alle indagini, alla sua lotta indomita e il suo carattere umano, ci racconta tra i tanti un episodio che commuove: il giorno dopo il funerale i familiari tornano al cimitero e trovano una corona di fiori con scritto «I compagni del 32». Quel 32 è un numero storico della militanza politica romana, è il numero 32 di Via dei Volsci, negli anni settanta una sede importante dell’autonomia operaia. Avevano voluto omaggiare Roberto, il suo impegno generoso, instancabile, autentico, con rispetto e discrezione.

Cosa che troppo spesso non è arrivato, da vivo e dopo la morte, da quelle istituzioni che ha servito tutta la vita. «Durante il funerale vengono accantonati tutti i fiori degli amici e dei parenti – raccontano Nello Trocchia e Luca Ferrari – eccetto quelli di Monika, per far posto alla corona del presidente della Repubblica, del ministero dell’Interno e a quella del presidente del Consiglio», «dopo che è morto – dice il fratello Fabrizio – è cominciato il picchetto d’onore alla camera ardente; lo Stato si è fatto vivo solo allora, a Roberto non avrebbe fatto piacere una cosa del genere, lui che fino a pochi giorni prima si lamentava di essere stato lasciato solo proprio dalle istituzioni».

Si aspettava, racconta la madre, almeno una telefonata che non arrivò mai. «Quando penso a Roberto Mancini mi vengono in mente gli occhi della moglie Monika» ci ha raccontato nell’intervista pubblicata nei giorni scorsi Amalia De Simone, «occhi da un lato di dolore e dall’altro di rabbia» perché quel che colpisce di più è la frustrazione che non è mai stato ascoltato, tutto il suo impegno non è stato considerato.

Solo diversi mesi dopo la morte e un’ampia mobilitazione è stato riconosciuto vittima del dovere, in un primo tempo erano stati riconosciuti solo cinquemila euro di risarcimento. Fino all’ultimo, anche dal letto d’ospedale dove trascorrerà gli ultimi tempi, non ha mai dimenticato le sue inchieste sulla terra dei fuochi, sui rifiuti che stavano avvelenando la sua terra e i traffici tra camorra, colletti bianchi e pezzi dello Stato.

C’è un episodio su tutti che fa capire quanto è stato attaccato al suo lavoro, a quell’impegno che era la sua vita: pochi giorni prima della morte ad un amico che gli disse di riposare, di pensare a se stesso e alle sue condizioni rispose con forza «ma che te stai ad amalgamà? Non è finito un cazzo». Quasi un testamento, parole forti di chi non si è mai voluto arrendere e mai ha dimenticato il marcio, il crimine più spietato, le migliaia di vittime, in un’intervista espresse l’amarezza che la sua informativa avrebbe potuto salvare moltissime persone se non fosse stata dimenticata da chi di dovere.

Il magistrato anti camorra Catello Maresca nell’intervista pubblicata il 7 aprile ha ricordato «la grande competenza ma soprattutto la grande passione che stava dietro l’uomo e l’investigatore che ho preso ad esempio nella selezione dei miei collaboratori, i miei collaboratori devono essere bravi, capaci, volenterosi ma devono avere soprattutto passione nel lavoro che fanno».

Ma la sua informativa per troppi anni rimase in un cassetto abbandonata finché non furono ritrovate da Alessandro Milita che, insieme allo stesso Roberto, continuò ad indagare, ricostruì la mappa dei traffici criminali fino al processo in tribunale. Il 17 gennaio dell’anno scorso la Corte d’Appello di Napoli ha emesso la sentenza di secondo grado, 18 anni è stata la condanna per Cipriano Chianese, gestore della discarica Resit, considerato da molti l’inventore delle ecomafie e al centro dell’informativa di Roberto Mancini.

La discarica Resit, di cui l’avvocato e imprenditore Cipriano Chianese era il gestore, è stata uno dei simboli delle eco camorre della terra dei fuochi, dei traffici e della devastazione criminale, e vi confluirono immense quantità di rifiuti di ogni tipo grazie a complicità e connivenze tra camorristi, imprenditori del nord che inviavano in Campania rifiuti di ogni tipo, massoneria e pezzi infedeli dello Stato. Erano gli anni della più violenta emergenza rifiuti e in quella stagione Chianese trattò con politici di ogni schieramento, diventandone un punto di riferimento e rafforzandosi in maniera clamorosa, mentre l’informativa di Roberta era già stata abbandonata in un cassetto.  

In quei mesi, come scrisse Rosaria Capacchione nel 2011 su Il Mattino, ci fu la resa dello Stato «in quei mesi del 2003, quando (tanto per cambiare) si cercavano affannosamente fosse e buchi nei quali depositare i rifiuti che si accumulavano nelle strade napoletane, che gli uomini dello Stato incontrarono la camorra», «le discariche c’erano, erano piuttosto illegali, e appartenevano a Cipriano Chianese» ed altri imprenditori e «fu in quella giornata – era primavera – del 2003 che il destino di Villa Literno, e delle vicinissime Giugliano e Parete, fu definitivamente segnato».

Ci fu «una riunione ufficiale – racconta sempre Rosaria Capacchione - con i dirigenti del commissariato di governo, Massimo Paolucci e Giulio Facchi, che scesero a patti con un gruppetto di imprenditori in odor di mafia che quei buchi avevano disponibili». Facchi è stato assolto nel processo per la discarica Resit, Paolucci non ha mai avuto nessuna contestazione penale e non esiste nessun atto da lui firmato che sia mai stato oggetto di rilievi. Paolucci, nominato nella segreteria del ministro della Salute Speranza nel settembre scorso, il 1° aprile è stato nominato global advisor della struttura commissariale per l’emergenza covid19 di Arcuri.

La notizia, nel silenzio generale, è stata resa nota da Nello Trocchia nelle scorse settimane su facebook: «Sono passati venti anni, ma il commissario Domenico Arcuri ha pensato bene di scegliere Massimo Paolucci (già capo segreteria del ministro Speranza) come braccio destro nella struttura di supporto al commissario. Paolucci sarà global advisor. Venti anni fa venne nominato commissario vicario, protagonista della disastrosa gestione commissariale dell'emergenza rifiuti in campania, quella delle balle stoccate a milioni, della buca di Cipriano Chianese, degli incontri mai smentiti con i servizi, dei consorzi a perdere. Paolucci torna per gestire la più difficile, tra le emergenze, degli ultimi decenni. Quando ho letto i nomi ho pensato, sconfortato, è l'Italia, il paese che tratta la memoria come un inutile orpello» il suo commento a cui ha aggiunto un passaggio del libro «La peste», scritto insieme a Tommaso Sodano dieci anni fa sulla gestione dei rifiuti in Campania, «Paolucci che – fatto curioso –, non avendo mai firmato direttamente gli atti e preferendo lasciare l’incarico al presidente commissario Bassolino o al vice Giulio Facchi, durante gli anni al vertice del Commissariato, esce indenne dalle indagini. Anche se è l’uomo che in prima persona stringe patti, tiene relazioni con imprese private, con la Fibe e con gli amministratori locali e per la gestione del sistema delle assunzioni negli impianti di Cdr. Una lista lunga, quasi interminabile, di santi in paradiso e di segnalati che danno la misura di cosa sia stato effettivamente il Commissariato: un luogo di spartizione, di spesa allegra, un eldorado di spreco e inefficienza».

«Voglio sperare che abbia fatto tesoro di quel periodo e l’attuale ruolo possa avvenire nella gestione di una trasparenza che è mancata finora nei regimi di emergenza» ha commentato Amalia De Simone nell’intervista pubblicata nello stesso articolo ricordato nei paragrafi precedenti chiarendo, a scarso di fraintendimenti, «Paolucci è una persona libera legittimata a ricoprire qualsiasi ruolo istituzionale, dovremmo chiederci però sempre l’opportunità».