I MAFIOSI

LA DELINQUENZA MAFIOSA/4. «La maggior parte dei processi iniziati per i fatti delittuosi commessi dalla mafia o si chiudevano senza che la Polizia fosse riuscita a indiziarne gli autori o con l'assoluzione degli imputati, quasi sempre per insufficienza di prove».

I MAFIOSI

L'analisi precisa di Pasquale Villari costituisce un punto di partenza di incomparabile valore per una ricerca più approfondita in ordine ai caratteri che connotarono, nel secolo scorso e nei primi decenni di quello attuale, il comportamento mafioso e la personalità dei soggetti, a cui si fanno risalire, nelle cronache, le azioni di quel tipo.

È certo anzitutto che una parte dei mafiosi, che operarono in Sicilia nell'epoca che qui interessa, provenivano dai ceti inferiori e specialmente della classe dei contadini; molti di loro non riuscirono mai a raggiungere posizioni di vertice, né a procurarsi mezzi economici di una certa consistenza, venendo così a formare quella che è stata chiamata la bassa mafia, una pletora di gregari, di persone disposte a tutto, impiegate dai capi in ogni occasione come un docile mezzo di manovra. Altri invece pervennero al successo, percorrendo una carriera prestigiosa, ed inserendosi, anche se di umili origini, nell'alta mafia, fatta di individui che godevano di potere politico ed economico, che rifiutavano l'esercizio in prima persona della violenza, che svolgevano davvero, nei centri in cui vivevano, funzioni di arbitrio per tutte le vertenze relative a questioni d'onore, di lavoro, di denaro.

Questa differenza di successo spiega la diversità (spesso accentuata) dei mestieri esercitati dai mafiosi. Quando non facevano carriera, rimanevano pecorai o contadini poveri, se invece raggiungevano il successo potevano diventare ricchi proprietari, ma nel tempo in cui era ancora prevalente la struttura agraria della società siciliana, il maggior numero dei mafiosi si ritrovava nelle attività intermedie tra i contadini e i ricchi proprietari terrieri: campieri, guardiani di giardini e dell'acqua nelle zone dei latifondi, commercianti di bestiame e di cereali, mediatori, macellai, che servivano da ricettatori per i frequenti abigeati.

In ogni caso, il mafioso, ieri come oggi, tendeva a monopolizzare la sua posizione e in particolare le fonti di guadagno, e cioè in definitiva le sue funzioni di protettore e di mediatore in certi tipi di rapporti sociali. Erano appunto queste funzioni (esercitate spesso in forme illecite) ad assicurare ai mafiosi i mezzi necessari per arricchire e per realizzare quell'ascesa sociale che avrebbe alla fine garantito loro un potere reale, col quale tenere testa al legittimo potere degli organi statali. Naturalmente le fonti d'introito potevano anche essere costituite da guadagni di una professione regolare, ma nella maggior parte dei casi, è evidente, erano rappresentate dalla strumentalizzazione e monopolizzazione illecita dei mezzi di profitto o direttamente da un'attività delittuosa, soprattutto di tipo estorsivo.

Fin dagli inizi, infatti, una forma di guadagno specificamente mafiosa è rappresentata dalla rivendicazione di un tributo ('u pizzu) per una protezione (reale o fittizia). Basta ciò che si è detto, per comprendere come il ricorso alla violenza, e più in generale al delitto, sia stata sempre una costante (preminente se non esclusiva) del fenomeno mafioso. Per acquistare una posizione di potere nella comunità in cui viveva, il mafioso aveva bisogno di usare la violenza; così come ne aveva bisogno per sfruttare illecitamente, e quindi in modo più redditizio, le normali fonti di profitto o per monopolizzare la sua posizione di prestigio, nei confronti di possibili concorrenti o di opposte fazioni. Una volta almeno nella sua vita, il mafioso doveva usare personalmente la violenza per mettersi poi in condizione, se le cose gli andavano bene, di servirsi dell'opera di sicari, nell'esecuzione dell'attività delittuosa. Nel mondo della mafia, l'uso della violenza è indispensabile per la conquista del potere, ma è altrettanto necessario per la sua conservazione e perciò — come giustamente è stato detto (HESS, Mafia, Bari, 1973, pagina 78) «il mafioso deve essere sempre in grado di incutere timore e di aver davanti a sé la paura del sottomesso, per poter con ciò esercitare un'influenza sugli altri attraverso la sempre presente possibilità di applicare una concreta costrizione fisica».

Nascono di qui le causali più frequenti della delinquenza, che dall'unificazione d'Italia in poi, e fino al fascismo, lentamente infestò la Sicilia e soprattutto le sue regioni occidentali.

Negli anni immediatamente successivi al 1860, i disordini creati dalla rivoluzione e la mancanza di un'efficiente forza pubblica si accompagnarono a un aumento verticale della criminalità. In seguito, il fenomeno non conobbe pause, ma raggiunse, in certi momenti, punte elevate, che misero a dura prova la capacità e l'efficienza delle forze dell'ordine. Per determinati periodi e per alcuni tipi di reato, le statistiche provano in modo inconfutabile che nelle provincie occidentali dell'Isola i fatti delittuosi superarono di gran lunga la media nazionale.

Negli anni dal 1890 al 1893, le provincie di Agrigento, Caltanissetta e Palermo furono in testa e di parecchio nelle percentuali degli omicidi volontari, delle rapine e delle estorsioni commesse in Italia. La media annua degli omicidi fu ad Agrigento di 66,87 su 100.000 abitanti, a Caltanissetta di 42,76, a Palermo di 32,07, quando nelle provincie continentali la media più alta fu quella di Napoli con 27,97 omicidi su 100.000 abitanti. Anche per altri periodi si notano differenze analoghe. Così, ad esempio, negli anni dal 1902 al 1906 la media annua degli omicidi per ogni 100.000 abitanti fu in Italia di 8,94, mentre in Sicilia fu di 22,35, e quella delle rapine e delle estorsioni fu in Italia di 11,83, in Sicilia di 31,46. Più in generale si può dire che nel lungo periodo le percentuali dei suddetti delitti (omicidi, rapine ed estorsioni) raggiunsero in Sicilia quasi il triplo della media del Regno, ciò che invece non si riscontra per altri tipi di reato, come ad esempio i furti. Naturalmente non tutti i reati del genere possono attribuirsi a causali di stampo mafioso, ma è fuori discussione che l'indice maggiore di delinquenza accertato in Sicilia rispetto al resto d'Italia fu dovuto, in larga misura, alla presenza della mafia.

Le stesse statistiche documentano peraltro come in quei tempi i più caratteristici reati di mafia siano stati appunto l'omicidio, la rapina e l'estorsione. La soppressione fisica di un avversario o di colui che si era sottratto alle regole del sistema subculturale, nel quale prosperava la mafia, era il mezzo nemmeno straordinario a cui il mafioso doveva (e deve) ricorrere per esercitare (o per continuare ad esercitare) le funzioni proprie del suo ruolo; l'estorsione e la rapina servivano, dal canto loro, ad assicurare ai mafiosi i mezzi di arricchimento, mentre la violenza privata rappresentava lo strumento di impiego abituale (anche se di difficilissimo accertamento) per l'esercizio del potere mafioso.

Accanto a questi, un altro reato di mafia molto frequente fu l'abigeato, diffuso nelle campagne dell'interno e utilizzato dai mafiosi sia per incrementare il mercato della macellazione clandestina, e quindi a scopi immediati di lucro, sia a fini di vendetta o anche di ricatto, per contrattare cioè la restituzione degli animali rubati in cambio di un adeguato corrispettivo. A questa massiccia estensione della delinquenza mafiosa fece riscontro, negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale, un insuccesso pressoché completo della repressione giudiziaria. La maggior parte dei processi iniziati per i fatti delittuosi commessi dalla mafia o si chiudevano senza che la Polizia fosse riuscita a indiziarne gli autori o con l'assoluzione degli imputati, quasi sempre per insufficienza di prove.

Basta ricordare, per rendersi conto dell'insolita ampiezza del fenomeno, che Vito Cascio Ferro, ritenuto uno dei capimafia più autorevoli, fu processato sessantanove volte, ma fu sempre assolto, fino a quando non venne condannato nel 1926.

Quali le cause della delinquenza che dilagò in Sicilia per tanti decenni? Quali le ragioni che impedirono agli organi statali di reprimere efficacemente, se non di prevenire, le attività delittuose della mafia?

Sarebbe un errore pensare che sia stata la mancanza di una legislazione severa a provocare o a favorire una situazione del genere. In quegli anni, al contrario, furono frequenti i provvedimenti e le leggi repressive, tanto che nel 1875, alla vigilia dell'approvazione di nuove misure eccezionali, proposte dal Governo Minghetti, Francesco Crispi, poteva parlare della Sicilia come di «un paese governato per quindici anni con lo stato d'assedio, con l'ammonizione e con il domicilio coatto». Eppure lo Stato non fu mai in grado di garantire a sufficienza la sicurezza pubblica. Una delle cause di questa inefficacia degli interventi di polizia fu certamente costituita dal mantenimento fino al 1892 di un ordinamento di sicurezza semiprivato, fondato sui militi a cavallo.

Se è vero infatti che costoro, provenendo spesso dalle comunità locali, avevano un accesso più facile alle informazioni e la possibilità quindi di individuare i colpevoli con sufficiente rapidità, è altrettanto certo che essi erano invischiati in una rete di amicizie e di inimicizie e che non sempre riuscivano a conformare la propria condotta alle regole di una necessaria imparzialità. Dal canto loro, le guardie campestri che operavano in molti comuni della Sicilia, invece di svolgere con la necessaria onestà la funzione loro propria di proteggere la terra e gli armenti, agivano nella maggior parte dei casi (e se ne è visto qualche esempio particolarmente significativo) sotto l'influsso dei detentori locali del potere mafioso ed erano talora essi stessi mafiosi, interessati quindi non al mantenimento dell'ordine pubblico, ma piuttosto al raggiungimento di finalità illecite. Accanto a questo, altri fattori ostacolarono l'azione della Magistratura e degli organi statali di Polizia (Carabinieri e Pubblica sicurezza).

Le cause più immediate del fenomeno, ma anche le meno importanti, furono indubbiamente rappresentate dalla configurazione geografica, particolarmente accidentata dell'Isola, che spesso favoriva la fuga e il rifugio dei latitanti, dalla mancanza di adeguate vie di comunicazioni, dal dialetto, spesso incomprensibile ai funzionari continentali. Ma furono altre le cause vere dell'insuccessoIn primo luogo, come già si è accennato, le popolazioni locali rimasero sempre contrarie ad ogni forma di collaborazione con gli organi giudiziali e con quelli di Polizia. Le funzioni e la forza di intimidazione della mafia e la tacita accettazione del suo potere inducevano i cittadini a non presentare denunce o querele, a rifiutare la propria testimonianza anche in occasione di fatti delittuosi di particolare gravita, a ritrattare in giudizio le testimonianze eventualmente rese a seguito delle violenze fisiche e morali esercitate su loro dagli inquirenti. Alla formazione e alla persistenza di questo atteggiamento contribuì anche la condotta dei funzionari di Polizia venuti dal continente, i quali si facevano spesso condizionare da un pregiudizio di superiorità, tanto da considerare i siciliani come barbari che non avevano ancora raggiunto il grado di civiltà necessario per esigere un trattamento conforme alle leggi e ai regolamenti. Per conto loro, i funzionari di origine siciliana si facevano spesso influenzare da motivi estranei a una rigorosa imparzialità, sì che è bene adattabile alla condotta tenuta in Sicilia dagli organi di Polizia nei decenni che seguirono l'Unità, l'amara constatazione che il funzionario scambia spesso la legge di tutti con il privilegio dell'esercizio d'autorità.

A tutto ciò deve aggiungersi che la presenza contemporanea di più polizie creava continui attriti, anche e forse soprattutto perché la diversità degli ordini impartiti alle varie unità rendeva impossibile o difficile ogni forma di collaborazione. Altrettanto complessi e spesso caratterizzati da un'estrema tensione erano i rapporti tra Polizia e Magistratura, mentre non mancarono episodi di disonestà, di inefficienza o di arbitrio, tali da giustificare un giudizio storico non certo benevolo sugli organi statali, a cui era affidata in Sicilia la lotta contro la delinquenza e in particolare contro la mafia. Gli attriti tra Magistratura e Polizia e tra le varie polizie si esprimevano spesso in reciproci atti d'accusa, o addirittura in una vera e propria guerriglia, di cui finivano per giovarsi soltanto i delinquenti.

Nel 1868, il Procuratore generale Borsani lamentava in un rapporto al Ministro della giustizia che interventi di gente facoltosa avevano fatto ritardare il processo a carico della banda di Angelo Pugliesi, e scriveva testualmente: «È questo uno scandalo aggiunto a molti che dimostrano non essere in Sicilia soggetti alle leggi penali gli uomini che hanno denaro. In una causa complessa di moltissime accuse, collegate in una vastissima associazione di malfattori o mafiosi era evidente l'interesse di procedere lestamente per non fare affievolire la memoria dei fatti. La celerità poi diventava la suprema condizione della riuscita di questa causa, ...ma il denaro ha sopraffatto ancora una volta la giustizia e di un famoso processo non rimane che la memoria di pochi cenciosi, mandati ad espiare nelle galere la colpa comune ai ricchi rimasti impuniti».

In questo stesso quadro, è molto significativa una lettera del 12 novembre 1885, nella quale il Questore di Palermo, nel dare notizia al Prefetto dell'assoluzione del noto mafioso Giuseppe Valenza di Frizzi, affermava esplicitamente che il compito della difesa era stato agevolato dalla deposizione del delegato Farini, che aveva sconfessato i suoi rapporti, dicendo di essere stato tratto in inganno e sostenendo che Valenza era una persona dabbene. «Ciò invero non mi sorprende» concludeva il Questore «avendo ritenuto sempre il Farini un impiegato poco fedele».

Altrettanto duro (sull'opposto versante) era il giudizio che in una nota del 18 luglio 1885 dava il sottoprefetto di Cefalù sul vicepretore di Cangi, arrivando a scrivere che «come pubblico funzionario (era) indiscutibilmente disonesto e sfiduciatissimo». Traendo spunto da questi e da analoghi episodi, Franchetti potrà giudicare negativamente l'operato della Polizia e degli organi giudiziari in Sicilia ed affermare esplicitamente che non sempre la Magistratura era stata «all'altezza del proprio ufficio».

Sarà poi lo stesso Franchetti a farsi eco della ricorrente denuncia di uno dei fattori, che maggiormente intralciavano le indagini di polizia, scrivendo che «fra gli uffici di Pubblica sicurezza, gli stessi uffici giudiziari da un lato e il pubblico dall'altro v'ha una corrente di relazioni continue e misteriose... Persone designate per essere colpite da arresto, sono avvertite prima ancora che si firmi il relativo mandato, e la forza che viene per prenderli li trova partiti da tre o quattro giorni o più». Ma nel secolo scorso l'episodio più noto degli arbitri addebitabili alle forze di Polizia e dei loro contrasti con la Magistratura fu certamente quello che ebbe come protagonista il questore di Palermo, Giuseppe Albanese, «un personaggio» è stato detto (S. ROMANO, op cit., pag. 149) «che riassumeva in se stesso tutti gli elementi caratteristici della mentalità e dei metodi delle autorità governative di quegli anni in Sicilia».

Sarebbe inutile esporre qui tutte le vicende in cui rimase implicato il questore Albanese, e che gettano un'ombra sinistra sui metodi usati allora dalle forze di Polizia. Basta ricordare che il funzionario e i suoi uomini (tra cui l'ispettore di Pubblica sicurezza David Figlia) furono tra l'altro accusati di avere imposto una conciliazione tra gli assassini di una donna e i suoi parenti, d'essere ricorsi alla formazione di documenti falsi, per indirizzare determinati processi in un senso sbagliato, di aver usato sevizie e torture contro persone arrestate, di essersi compromessi in un grosso furto nel museo nazionale di Palermo. L'Albanese infine fu accusato dell'omicidio di Santi Termini e del tentato omicidio di Salvatore Lo Biondo, che erano entrambi latitanti e che avevano chiesto un salvacondotto all'Autorità giudiziaria, per fare rivelazioni compromettenti contro le forze di Polizia.

Nel 1871, il Procuratore generale Diego Trapani fece arrestare il Questore per istigazione all'omicidio, nel presupposto che l'Albanese avesse preso accordi con mafiosi per fare eliminare dei testimoni pericolosi, ma la Sezione istruttoria prosciolse il Questore per insufficienza di prove e quindi il Procuratore generale si dimise, venendo poi eletto deputato al Parlamento nelle liste dell'opposizione.

L'accettazione del potere mafioso. L'omertà. Lo spirito di gruppo. Episodi di collusione con i pubblici poteri.

Le cose dette fin qui documentano, sia pure per grandi linee, come la mafia si sia espressa nel passato se non esclusivamente almeno prevalentemente mediante il ricorso a forme delittuose, quasi sempre violente, in contrasto con le leggi e con la stessa morale dello Stato; ma se l'uso della violenza accomuna la mafia al banditismo, altre caratteristiche hanno sottolineato in modo netto la differenza tra i due fenomeni. In primo luogo i mafiosi hanno sempre cercato di legittimare la loro presenza nella comunità sociale in cui vivono, senza esibirsi, ma offrendo con cautela i propri servizi; a differenza dei banditi, inoltre, i mafiosi non hanno mai sfidato in forme aperte l'apparato statale, ma hanno al contrario tentato di stabilire agganci e contatti con gli organi pubblici, aspirando a creare un rapporto con i detentori del potere formale o ad apparire come i loro indispensabili sostituti.

Sotto il primo aspetto, le cronache e la ricerca storica documentano chiaramente che i mafiosi riuscirono ad ottenere, nei decenni successivi all'Unità, che le popolazioni locali riconoscessero ed accettassero, come necessaria, la loro posizione di preminenza e di potere. Basta considerare che i mafiosi venivano chiamati «uomini di rispetto» per intendere quanto estesa e profonda fosse l'accettazione tacita del potere mafioso da parte delle comunità isolane. Una delle componenti principali di questo fenomeno è certamente stata nel passato quella norma del sistema subculturale siciliano che va sotto il nome d'omertà.

La parola omertà non significa umiltà, come potrebbe sembrare a prima vista, ma deriva dal siciliano «omu», uomo, e, secondo Cutrera e l'accezione entrata nell'uso comune, sta a indicare la capacità di farsi rispettare con i propri mezzi, senza rivolgerei mai all'autorità, sapendo anche accettare la galera, piuttosto di dire ciò che si sa o di accusane l'autore di un torto subito. La tradizione siciliana è ricca di poesie e di leggende che esaltano questa attitudine a risolvere problemi e controversie con le proprie forze e a mantenere il segreto su tutto ciò che riguarda la propria persona, perché - ha scritto Titone - «il vero uomo è anzitutto il suo silenzio, la segreta presenza di un potere occulto e di vie lunghe e nascoste, l'essere e di farsi ritenere al centro di altri uomini, che come lui operano nell'ombra».

Così concepita, l'omertà appare come una caratteristica del costume isolano, addirittura come una connotazione dell'essere siciliano; ed è indubbio che da più parti l'omertà è stata talora esaltata come la qualità tipica di un popolo, indicativa, in mancanza di una superiorità materiale, certo di una preminenza morale, che farebbe dei siciliani uomini veri a fronte degli altri, e soprattutto di coloro che nel corso dei secoli si sono succeduti nel governo dell'Isola. Ma è facile rinvenire al fondo di questa concezione un senso di frustrazione per le condizioni di inferiorità e di sostanziale emarginazione in cui il popolo siciliano è stato costretto a vivere (rispetto ai detentori del potere formale e quindi una volontà di rivincita e di affermazione psicologica della propria persona).

L'omertà perciò anziché come una caratteristica naturale del costume siciliano, sembra doversi interpretare come l'espressione di una situazione di necessità, il frutto di una lunga esperienza, che aveva provato ai siciliani come fosse inutile denunciare i torti subiti alle autorità statali, che troppo spesso identificavano i propri interessi con quelli dei ceti dominanti, e come fosse invece più vantaggioso accettare le regole di un sistema subculturale, almeno più efficiente nel mantenere l'ordine e nell'assicurare la risoluzione delle controversie secondo la morale vigente negli ambienti popolari.

Deve essere spiegato nella stessa chiave l'altro elemento che fu all'origine dell'accettazione del potere mafioso e che si concreta nei particolari vincoli che legano i siciliani, non alla società, ma entro la società, a determinati gruppi autonomi e ai sistemi normativi che li governano, in primo luogo alla famiglia, poi al comparaggio, all'amicizia e così via. «In Sicilia» è stato detto (HESS, op. cit.) «il comparatico è la parentela spirituale più considerevole e stimata, è un vincolo pari a quello di sangue e talvolta ha una forza di affetto anche maggiore. Il compare vuol bene al compare come a un fratello e se questi è di età minore con venerazione... comparatico vuoi dire fiducia cieca, fedeltà a tutta prova, silenzio scrupoloso nei più pericolosi segreti.

Il compare, in una parola, "è pronto a mettersi, per aiuto al compare, a qualunque sbaraglio"».

Allo stesso modo l'amicizia cementa un rapporto di forza speciale, che può resistere anche agli imperativi della legge o della morale. Nascono di qui, dall'omertà e dalla logica del «gruppo», che anima i siciliani, la sfiducia e la diffidenza verso i poteri costituiti e trova qui le sue radici un'altra causa (e non certo la meno importante) del fallimento in Sicilia dell'amministrazione della giustizia.

Le ricorrenti assoluzioni dei mafiosi, che costellano la storia giudiziaria degli anni successivi all'Unità e fino al fascismo, si spiegano non solo con le ragioni di ordine generale, che sono state prima indicate, ma anche con l'influenza (spesso decisiva) che esercitavano sui testimoni e sugli stessi offesi la regola dell'omertà e la logica del gruppo.

Risulta inoltre da alcuni degli episodi prima ricordati che non dovettero essere rari i casi in cui, per essere assolti, i mafiosi si avvalsero dei loro rapporti con amici influenti e con autorevoli protettori. Come già si è accennato, la mafia, se non è stata mai un'organizzazione in senso formale, ha sempre cercato di favorire la formazione di gruppi «le cosche» che potessero funzionare, in caso di necessità, come strumenti di azione, di lotta o di mutua assistenza.

«L'alta mafia» scrisse il sottoprefetto di Cefalù in un suo rapporto del 1885 «quando la sicurezza scopre e colpisce, si affretta a montar le difese, ad ammannire alibi e testimonianze, a falsare l'opinione pubblica nella piazza, ad intrigare nelle carceri, nelle cancellerie, a protestare contro la forza pubblica e contro gli stessi funzionali». Nello stesso tempo, proprio nella misura in cui tende ad assicurarsi posizioni di dominio, la mafia ha sempre mirato a crearsi un «partito», a crearsi cioè relazioni con personalità socialmente ed economicamente altolocate e, direttamente o tramite la loro mediazione, anche con i detentori del potere formale, uomini politici e titolari di pubblici uffici.

La lontananza e la debolezza dello Stato possono essere sufficienti alla mafia, per sostituirsi con la propria forza alla loro mancanza, ma sono anche il fattore principale di illecite connivenze o di pericolose complicità, proprio perché possono indurre a funzionari statali e gli uomini politici a cercare per primi contatti e rapporti con i mafiosi o a subirne la suggestiva presenza. Nelle loro relazioni del 1876, Sannino e Franchetti scrissero che era assolutamente impossibile a «chi entrava nella gara delle ambizioni politiche locali sottrarsi a contatti con persone che debbono la loro influenza al delitto», e non v'è autore che si sia occupato della sua storia che non attesti la presenza costante di un rapporto della mafia con la politica, o più in generale, con i pubblici poteri.

Nella seconda metà del secolo XIX e nella prima metà del XX questo rapporto si espresse in forme varie, tra l'altro nella collaborazione prestata dai mafiosi alla Polizia nella lotta contro i banditi, ma soprattutto nell'appoggio ai candidati nelle elezioni amministrative e politiche. La forma più frequente che assunse in quei tempi l'appoggio ai candidati fu quello dell'uso della violenza o della minaccia per acquistare voti o anche quello dell'impiego di violenze contro i candidati avversari o di manovre truffaldine (le «pastette», i «coppini») per alterare i risultati delle elezioni o direttamente l'espressione del voto popolare.

È naturalmente superfluo in questa sede attardarsi a descrivere i singoli episodi di infiltrazioni e collusioni clientelistiche di origine mafiosa, posto che il fenomeno ebbe certamente carattere generale e un'estensione amplissima, se nel 1911 Michele Vaina potette scrivere, nei quaderni de La Voce: «Ormai in Sicilia siamo abituati ad un genere siffatto di elezioni senza proteste e senza ribellioni: di ciò sono causa principale la forma e i1 significato diverso che da noi assumono le lotte amministrative, basate sull'intrigo e sulla camorra che vanno a braccio con la mafia».

Allo stesso modo sarebbe inutile elencare i singoli episodi di collusione tra la mafia e i pubblici poteri, di genere diverso da quello elettorale. «La clientela» scriveva Francesco Saverio Merlino «ecco la forma originaria della mafia. I gruppi di clienti hanno il loro protettore nel paese o nella città, difendono la sua persona e il suo patrimonio, fanno le sue vendette, sono docile strumento dei suoi capricci e delle sue ambizioni, ma nello stesso tempo commettono delitti per conto loro, con la quasi certezza dell'impunità. Il feudo è il rifugio, la causa dei delitti più gravi».

L'episodio che meglio esprime questa situazione, e che è il solo forse che vale la pena di ricordare, è quello in cui furono coinvolti il marchese Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, e l'onorevole Raffaele Palizzolo, deputato al Parlamento e membro del Consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia.

Tra il 1891 e il 1892 il Notarbartolo denunziò la situazione Scandalosa del Banco, raccogliendo elementi di prova, che coinvolgevano alti esponenti del mondo politico in Parlamento e mettevano in particolare a repentaglio la reputazione dell'onorevole PalizzoloFu pertanto promossa un'inchiesta ministeriale, ma subito dopo, il 1° febbraio 1893, il Notarbartolo venne ucciso con ventisette colpi di pugnale, mentre viaggiava in uno scompartimento del treno Termini Imerese-Palermo. Durante il processo contro i ferrovieri esecutori materiali del delitto, emersero gravi indizi contro Palizzolo, il quale, dopo l'autorizzazione a procedere della Camera, fu incriminato e arrestato l'8 dicembre 1899. Successivamente il Palizzolo venne condannato a trent'anni di reclusione dalla Corte d'Assise di Bologna a cui il processo era stato rimesso per legittima suspicione, ma in appello fu assolto con la solita formula dell'insufficienza di prove.

Ma ciò che conta mettere qui in rilievo è che dagli atti del processo emersero prove irrefutabili dei rapporti che il parlamentare aveva avuto con mafiosi pregiudicati della zona di Palermo e di numerosi interventi che egli aveva effettuato a loro favore presso pubblici funzionali. «Comunque» conclude sull'episodio uno storico della mafia (S. ROMANO, op. cit., pagina 205) «per un Palizzolo scoperto, c'è da pensare che, prima e poi e nello stesso tempo, non mancassero altri più abili e fortunati».

 

Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafieVI legislatura, 4 febbraio 1976

 

Per approfondimenti:

Prima parte, venerdì 27 marzo 2020MAFIA, le origini remote

Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia

Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose