Le attività mafiose

LA MAFIA COME ORGANIZZAZIONE E COME COMPORTAMENTO/3. «La Commissione perciò ha ritenuto utile ai propri fini tentare una descrizione delle attività proprie della mafia ed indicare le modalità con cui venne esercitato il potere mafioso tra la fine del 1800 e i primi decenni di questo secolo, valutando naturalmente il fenomeno nel contesto delle vicende sociali e politiche del Paese e in particolare della Sicilia»

Le attività mafiose
Lotte contadine

Alla ricerca che riguarda le prime origini della mafia e i significati tradizionali del nome poi impiegato per designarla, è più difficile far seguire - sia pure nei limiti e ai fini dell'inchiesta affidata alla Commissione - l'analisi critica delle vicende che diedero corpo al fenomeno mafioso nei decenni successivi all'Unità d'Italia. Il compito, certo, sarebbe più agevole, se fosse possibile accertare le conclusioni di quella letteratura che ha descritto la mafia come una specie di supergoverno del crimine, con manifestazioni interregionali, con a capo un pontefice massimo, con sottocapi, con parole d'ordine. Si è anche ipotizzato che l'organizzazione mafiosa, o meglio le singole associazioni che ne farebbero parte opererebbero secondo regolamenti codificati a cui gli aderenti sono tenuti ad attenersi, e non è nemmeno mancato chi ha creduto di poter affermare che questi regolamenti si articolano in concreto: a) nell'obbligo per gli associati di aiutarsi scambievolmente a vendicare col sangue le offese ricevute; b) nell'obbligo di procurare e propugnare la difesa e la liberazione del socio caduto nelle mani della giustizia; e) nel diritto dei soci di partecipare alla distribuzione, secondo il prudente arbitrio dei capi, del prodotto dei ricatti, delle estorsioni, delle rapine, dei furti e degli altri delitti perpetrati; d) nell'obbligo di conservare il segreto, pena per i contravventori la morte, in seguito a una decisione del competente organo giurisdizionale della mafia.

Senonché, la realtà sembra diversa. Anche se in certi periodi hanno operato in Sicilia associazioni a delinquere di stampo mafioso, i più pensano oggi che la mafia, come tale, non si è mai organizzata secondo formule sacramentali, non ha mai avuto statuti, né segni di riconoscimento, né parole d'ordine o riti di iniziazione, non ha mai eletto o nominato in altri modi i propri capi. La mafia, in altre parole, non è sorta e non si è mai trasformata nel lungo periodo della sua vita in un'organizzazione formale, e non può quindi considerarsi come un'associazione o una setta, i cui aderenti siano inquadrati secondo una scala gerarchica.

La più recente ricerca scientifica ritiene che la mafia non sia un'organizzazione o una società segreta, ma un metodo, un comportamento a cui ricorrono singole persone o gruppi di persone per finalità  determinate e secondo le regole di un vero e proprio sistema subculturale, con la conseguenza che sarebbe addirittura impossibile una storia delle manifestazioni che ha avuto il fenomeno mafioso e delle tappe che ne hanno scandito l'evoluzione fino ai tempi più recenti; ciò appunto perché la mafia non può considerarsi un'associazione in senso proprio, anche se non è estraneo alla sua natura uno spirito organizzativo e se non è mancato e non manca tuttora nella letteratura chi l'ha concepita come un'organizzazione chiusa con i suoi riti e le sue gerarchie.

Per la verità, la tradizione e le fonti riferiscono dell'esistenza in Sicilia durante gli anni dal 1870 al 1880 di parecchie associazioni a delinquere, delle quali si ricordano e si tramandano anche i nomi, come quelli dei "Fratuzzi" di Bargheria, degli "Stoppaglieri" di Monreale, degli "Oblonica" di Castrogiovanni (in provincia di Erma), dei "Fontanuova" di Misilmeri, dei "Fratellanza" di Favara. In tutti i casi si trattava - come risulta anche dalle prove raccolte in vari procedimenti penali – di associazioni create e mantenute per favorire la mutua assistenza nel delitto, per preparare e svolgere insieme un'attività di rapine e di estorsioni, per fornirsi inoltre di testimoni falsi o compiacenti e per procurare agli arrestati i necessari mezzi economici per la loro difesa. Quasi sempre questi gruppi vivevano in un'ombra di mistero, come vere e proprie associazioni segrete, con iniziazioni, gradi gerarchici, servizi di medici e di avvocati, pagamento di contributi, e con l'impegno, per tutti i consociati, di rispettare il segreto, a prezzo della propria vita, in caso di tradimento. Tutti i gruppi, anche se dislocati in territori diversi, si aggregavano e si confondevano tra loro, secondo il potere di accentramento che avevano i rispettivi capi, mentre altre volte si muovevano guerra allo scopo di esercitare la propria egemonia su una contrada o su tutto il territorio.

La presenza operante di questi gruppi in Sicilia, la conseguente terminologia usata dalla Polizia, dai testimoni e dai tribunali nei processi penali relativi alla loro attività e infine le cronache giudiziarie (spesso romanzate o arricchite di particolari inesistenti) determinarono e rinsaldarono la convinzione che la mafia fosse nel suo complesso una associazione o una lega segreta e furono all'origine delle opinioni, a cui prima si accennava; ciononostante che i fatti, o meglio ancora, il tempo smentissero, in modo sempre più evidente, la tesi di un'identificazione della mafia con una organizzazione delittuosa.

Questo naturalmente non significa che i singoli mafiosi agissero isolatamente, al di fuori di rapporti e di contatti con altri mafiosi; al contrario il loro comportamento è stato sempre condizionato da un reciproco spirito di solidarietà, così come è certo che il metodo si è espresso e si è imposto, in zone determinate della Sicilia, attraverso l'azione di Strutture, le cosiddette cosche, in cui se non è presente un dato organizzativo formale, è tuttavia identificabile la presenza di più persone che operano insieme, se non per la realizzazione di un programma comune, certamente per il raggiungimento di scopi contingenti, prefigurati di volta in volta, secondo il corso degli avvenimenti.

Resta comunque il fatto che l'inesistenza di un'organizzazione formale, unica o plurima, impedisce di collegare a un filone unitario la storia della mafia e di ipotizzarne le vicende secondo uno sviluppo globale ed ordinato nella realtà. La storia del fenomeno mafioso è intessuta di fatti e avvenimenti, non collegati tra loro e che rispondono a stimoli immediati e contingenti; piuttosto che a un disegno prestabilito ed organico, magari elaborato attorno a un tavolo da una assemblea di capi.

Negli anni successivi all'Unità d'Italia, la storia della mafia si identifica con la storia di personaggi a cui viene attribuita la qualifica di mafioso, e perciò si fraziona in tanti rivoli quante sono le vicende che fanno capo a questi singoli individui o ai raggruppamenti in cui casualmente si trovano riuniti per il raggiungimento di uno scopo comune. Le loro attività però sono connotate, nel lungo periodo che va dal 1860 ai primi anni del fascismo, da caratteri di sostanziale identità e si svolgono sempre a difesa di determinati interessi e secondo moduli operativi in pratica eguali; mentre le persone, che di tali attività fanno la propria regola di vita, rispondono tutte a note comuni di origine e di comportamento, tanto che le più recenti indagini sociologiche hanno potuto individuare e definire il tipo del mafioso.

La Commissione perciò ha ritenuto utile ai propri fini tentare una descrizione delle attività proprie della mafia, negli anni successivi all'unificazione, ed indicare le modalità con cui venne esercitato il potere mafioso tra la fine del 1800 e i primi decenni di questo secolo, valutando naturalmente il fenomeno nel contesto delle vicende sociali e politiche del Paese e in particolare della Sicilia, così da poter disporre di una valida chiave interpretativa della genesi della mafia e dei fatti che ne determinarono la nascita e ne hanno impedito la sconfitta, nonostante i reiterati tentativi compiuti al riguardo dai pubblici poteri.

Le attività mafiose.

L'abolizione del feudalesimo non segnò la fine delle funzioni che avevano espletato i «bravi» del barone, in quanto lo stato borbonico prima e poi quello italiano non riuscirono a garantire con sufficiente efficacia la protezione dei beni dei ceti possidenti e nemmeno delle loro persone. Per i ricchi, pertanto, l'aiuto privato continuò ad essere una necessità e i «bravi» perciò continuarono ad esistere come campieri, guardiani e guardaspalle.

I proprietari di terre o di armenti si vedevano costretti ad assoldare uomini capaci di tenere a bada (ed eventualmente di punire) ladri o banditi. Questi uomini furono appunto i mafiosi. «È ributtante» scrive al Prefetto nel 1874 il Questore di Palermo «lo scandalo a cui si assiste tuttodì: quello cioè di vedere il proprietario sulla traccia di birbanti e scegliere fra tutti a castaldo nelle sue possidenze chi per più protervia d'animo e per più consumati delitti o reduce dall'ergastolo, abbia saputo acquistarsi reputazione di mafioso e di malandrino nella contrada. E sventuratamente è questo un andazzo che si riscontra altresì in molti agiati che per nobiltà di origine, per estremo patriottismo e liberalità di propositi, hanno riscosso e riscuotono le simpatie del Paese».

La pratica tuttavia non incontrava la riprovazione dell'opinione pubblica, perché si riteneva che ciascuno avesse il diritto di difendersi da sé quando il Governo si era dimostrato incapace di assicurare l'incolumità delle persone e la sicurezza dei beni. «Non si può pretendere» si scrisse «che tutti accettino un duello a morte con gli assassini, e per un lungo periodo l'amministrazione locale adottò addirittura il sistema di rimettere in libertà i delinquenti, ritenuti meno pericolosi, con la garanzia delle persone di un certo rango, permettendo così a questi uomini di assicurarsi la dovuta protezione di coloro che avevano fatto liberare.

La protezione mafiosa veniva naturalmente esercitata col ricorso ad azioni di terrore, ma in molti casi, specie dopo la «punizione» di qualche contravventore, bastava il prestigio del mafioso (campiere o guardiano che fosse), a scoraggiare le iniziative di chi volesse attentare alla tranquillità e al benessere dei ceti possidenti. In un primo tempo, la protezione del mafioso fu diretta contro i banditi e contro i ladri, ma ben presto prese anche altre direzioni, e fu in particolare impiegata contro i movimenti rivoluzionari dei contadini, per impedire che il sistema, attraverso la distribuzione delle terre, potesse subire un mutamento radicale.

Un'altra attività, a cui si dedicarono i mafiosi nel periodo considerato, fu costituita dalla funzione di mediazione, che essi esercitavano in vari settori, anzitutto fra i ladri e i derubati, poi in relazione ai sequestri di persona, infine in tutte le controversie che potessero giustificare l'intervento di un intermediario. La persona che veniva derubata o che subiva danni di altro genere (un incendio, un danneggiamento) sapeva bene che solo raramente lo Stato avrebbe identificato e punito i colpevoli e preferiva perciò rivolgersi ai mafiosi (alle persone di rispetto), incaricandole di una missione, che secondo l'opinione espressa dal prefetto Mori, non veniva coronata da successo soltanto nel 5 per cento dei casi. Il derubato così recuperava la refurtiva e il danneggiato veniva ristorato dei danni subiti, mentre naturalmente il mafioso riceveva un regalo e vedeva accresciuto il proprio prestigio.

Nella stessa prospettiva, soprattutto nei piccoli centri agiati dell'interno dell'Isola, il mafioso si serviva della sua forza coercitiva per risolvere altre questioni (ad esempio costringere i debitori a pagare i propri debiti) e per esercitare più in generale quella che è stata chiamata una funzione di regolamentazione economica, influenzando, con i propri interventi, ogni specie di rapporti giuridici e tra l'altro il mercato dei prezzi per acquisti e affitti di terre. Nell'economia agricola siciliana del secolo scorso e dei primi decenni del XX secolo, i mafiosi esercitavano le attività che si sono sommariamente descritte all'ombra del latifondo, svolgendo la loro funzione di intermediazione parassitaria, nei rapporti tra grandi proprietari e contadini e in tutte le transazioni relative all'acquisto dei fondi, al loro affitto, allo smercio e alla ripartizione dei prodotti agricoli.

Il loro impegno fu diretto anzitutto a prendere in fitto i grandi fondi dell'interno, a trasformarsi quindi in ricchi gabellotti e magari in proprietari, permettersi così in condizione di esercitare meglio la propria forza economica sui ceti meno fortunati e di acquistare ad un tempo una vera e propria forza politica.

In questo modo, i mafiosi divengono, in un certo senso, gli arbitri dei conflitti economici e sociali che caratterizzano la storia siciliana successiva all'Unità. La loro posizione è tale che essi possono anche taglieggiare i grandi proprietari, costringerli a fittare le loro terre a prezzi non sempre remunerativi, derurbarli sui prodotti del suolo, impossessarsi a poco a poco delle loro terre, e arrivare così a sostituirsi almeno in parte alla vecchia classe baronale nell'esercizio di una vera e propria egemonia sulle popolazioni contadine.

Ma ciononostante i latifondisti non possono fare a meno del loro aiuto, perché in ogni occasione in cui se ne presenti la necessità, i mafiosi si mostrano sempre disposti a difendere, anche con la violenza, l'assetto economico e sociale esistente contro le rivendicazioni e le tendenze rivoluzionarie che partono dal ceto dei contadini.

Già nel 1860, quando Garibaldi promise ai contadini la terra, la mafia, allora nascente, si schierò con decisione a favore del feudo e contro il frazionamento del latifondo, favorendo così l'accettazione delle tesi cavouriane dell'annessione «incondizionata», e impedendo una soluzione politica che servisse a garantire alla Sicilia una certa autonomia.

Anche nel 1867, la mafia appoggiò la borghesia agraria contro il tentativo del Governo nazionale di attuare un programma di riforme sociali, che incidendo sui rapporti esistenti nell'Isola tra i ceti possidenti e le classi popolari, servisse a garantire, in termini nuovi, lo sviluppo economico della Sicilia; ma fu certamente nell'offensiva contro il movimento dei Fasci dei lavoratori che i gruppi mafiosi riuscirono a guadagnarsi le maggiori benemerenze. È inutile rifare qui, sia pure sommariamente, la storia dei Fasci dei lavoratori e delle azioni che il movimento conduceva a difesa degli interessi contadini; basta soltanto ricordare che tra il 1892 e il 1894 i Fasci cercarono di ottenere il cambiamento delle condizioni di affitto delle terre e promossero la formazione tra i contadini di grandi consorzi d'appalto; si voleva così che i contadini non fossero più isolati di fronte ai proprietari ed è evidente che se il disegno fosse riuscito, e se i latifondisti fossero stati costretti a trattare con i consorzi, si sarebbero certo affievolite le condizioni di dipendenza dei contadini dai proprietari.

Per sostenere queste rivendicazioni, i Fasci organizzarono con frequenza scioperi e dimostrazioni, provocando da parte delle autorità governative una reazione sempre più decisa, che doveva culminare nel 1894 nella proclamazione dello stato d'assedio e nello scioglimento delle organizzazioni dei lavoratori. Prima che questo si verificasse, molte dimostrazioni organizzate dai Fasci furono seguite da tumulti e da sanguinose repressioni, e in alcuni casi l'azione delle forze statali di polizia fu affiancata, o addirittura preceduta, dall'intervento dei gruppi mafiosi dei comuni interessati, «che difendevano la propria egemonia e anzi il proprio potere dispotico nelle amministrazioni locali.

Se una parte infatti dei morti in quei disordini fu dovuta all'intervento delle truppe che usarono le armi, un'altra parte fu dovuta ai gruppi di guardie al servizio dei capi mafiosi dei comuni (i sindaci), che si inserirono facilmente in quei disordini e sfuggirono, mimetizzandosi, alle denunce e alle condanne». (S. ROMANO, Storia della mafia, Verona, 1966, pag. 216). Così a Lercara, durante una dimostrazione popolare avvenuta il 25 dicembre 1893, le guardie municipali spararono sulla folla dal campanile della chiesa contigua alla casa comunale, e a terra rimasero i cadaveri di undici lavoratori.

Anche a Gibellina, il 2 gennaio 1894, le guardie campestri spararono sui dimostranti, e a Giardinello, il 10 dicembre 1893, i contadini furono presi tra due fuochi, quello delle truppe e quello delle guardie del corpo dei gruppi mafiosi locali. Le vittime in questa occasione furono sette e gli organi dì polizia, al termine delle indagini, denunciarono come autori dell'eccidio le guardie campestri e il loro capo, Girolamo Miceli, un boss locale, avendo potuto stabilire «con certezza matematica» e sulla base di «prove irrefragabili», come si esprime il rapporto, la loro responsabilità nella strage. Tuttavia, il processo per i fatti di Giardinello e quelli relativi agli episodi di Lercara e di Gibellina si chiusero con l'assoluzione delle guardie campestri e con la condanna a pene talora gravissime (e in qualche caso all'ergastolo) degli esponenti contadini.

Niente meglio di questi episodi potrebbe illustrare la funzione svolta dalla mafia nei decenni che seguirono l'unificazione d'Italia. Fu essenzialmente una funzione di intermediazione, esercitata da gruppi di persone prive di ogni scrupolo, che erano riuscite a raggiungere nei piccoli paesi dell'interno una posizione di potere reale e che presto mirarono ad estendere la loro influenza anche nelle città.

Il fenomeno fu descritto con efficacia da Pasquale Villari, già nel 1878: «Non abbiamo che classi distinte; in Palermo stanno, i grandi possessori di vasti latifondi o ex feudi, nei dintorni abitano i contadini agiati, dai quali sorge o accanto ai quali si forma una classe di gabellotti, di guardiani e di negozianti di grano. I primi sono spesso vittime della mafia, se con essa non si intendono; fra i secondi essa recluta i suoi soldati, i terzi ne sono i capitani.

Fra i tiranni dei contadini sono le guardie campestri, gente pronta alle armi e ai delitti e sono ancora quei contadini più audaci che hanno qualche vendetta da fare o sperano di trovare coi delitti maggiore agiatezza: così la potenza della mafia è costituita. Essa forma come un muro tra il contadino e il proprietario... Spesso al proprietario è imposta la guardia dei suoi campi e colui che deve prenderli in affitto. Chiunque minaccia un tale stato di cose, corre pericolo di vita».

E ancora: «La base, le radici più profonde della potenza dei mafiosi sono nell'interno dell'Isola, fra i contadini che opprimono e su cui guadagnano, ma questa potenza si estende e si esercita anche nella città, dove la mafia ha i suoi aderenti perché vi ha anche i suoi interessi. A Palermo infatti sono i proprietari, a Palermo si vende il grano e si trovano i capitali, a Palermo vive una plebe pronta al coltello che può all'occorrenza dare un braccio. E così la mafia è qualche volta divenuta come un governo più forte del Governo.

Il mafioso dipende in apparenza dal proprietario, ma in conseguenza della forza che gli viene dalla associazione, in cui il proprietario stesso si trova qualche volta attirato, egli riesce di fatto ad essere il padrone».

3 parte/continua

 

Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafieVI legislatura, 4 febbraio 1976

 

Per approfondimenti:

Prima parte, venerdì 27 marzo 2020MAFIA, le origini remote

Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020: La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia