Il 14 giugno 1837 moriva Giacomo Leopardi

Dal “Supplemento alla notizia intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi” racconto scritto nel 1847 che qui vogliamo riportare nella parte relativa agli ultimi istanti di Leopardi.

Il 14 giugno 1837 moriva Giacomo Leopardi

Ed io incontinente mandai e rimandai e tornai a rimandare al prossimo convento degli agostiniani scalzi. In questo mezzo, il Leopardi, mentre tutti i miei gli erano intorno, la Paolina gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore che veniva giù a goccioli da quell’amplissima fronte, ed io, veggendolo soprappreso da un certo infausto e tenebroso stupore, tentavo di ridestarlo con gli aliti eccitanti or di questa or di quella essenza spiritosa; aperti più degli usati gli occhi, mi guardò più fisso che ami. Poscia: Io non ti veggo più, mi disse sospirando.

E cessò di respirare, e il polso,  né il cuore non battevano più; ed entrava  in quel momento stesso nella camera frate Felice da Sant’Agostino, agostiniano scalzo; mentre io, come fuori di me, chiamavo ad alta voce  il mio amico e fratello e padre, che più non mi rispondeva, benchè ancora non pareva che mi guardasse.

Al frate non restò da fare che prendere atto della morte già avvenuta.

(cit. “Questa maledetta vita", Il romanzo autobiografico di Giacomo Leopardi di Raffaele Urraro, Leo S. Olskchki)

Ed è in questo giorno, quasi a duecento anni dalla sua morte, resta vivo il ricordo immortale della sua poesia. Essa scava le viscere e fa ritornare alla vita.

Vogliamo ricordarlo la lirica d’amore “A Silvia” il canto d’amore che rivolge a Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi. Composta tra il 19 e il 20 aprile del 1628, la poesia “A Silvia” parla della distruzione delle speranze e delle illusioni  giovanili.

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

Io, gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Tu, pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.

Anche pería fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negâro i fati
la giovanezza. Ahi, come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
questo è quel mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.