Ogni sfruttamento della prostituzione è inaccettabile

Seconda parte dell’intervista a Irene Ciambezi, della Comunità Papa Giovanni XXIII, sullo sfruttamento della prostituzione, la devastazione delle ragazze sfruttate e l’impegno contro la tratta a partire dalla campagna «Questo è il mio corpo».

Ogni sfruttamento della prostituzione è inaccettabile
fonte: pagina facebook campagna «Questo è il mio corpo»

La tratta della schiavitù sessuale è sempre attiva e florida: le notizie di operazioni delle forze dell’ordine contro organizzazioni sempre più consolidate sono frequenti e presenti in ogni territorio, intrecciandosi con lo spaccio di droga, quello di armi e altre attività criminali. Tali attività rappresentano una fonte di lucro sicura e cospicua per le mafie e sono tra le leve principali per l’affermarsi di mafie come quelle nigeriane. Traffici criminali che sfruttano la disperazione e la fragilità di ragazze schiavizzate, vite devastate che vivono drammi disumani di cui non si parla mai.

La tratta della schiavitù sessuale è uno dei business criminali più solidi e redditizi. Ancora troppo spesso è considerato accettabile trattare la donna come un oggetto per disgustosi piaceri sessuali e una ipocrita condanna perbenista cerca di trasformare le vittime in colpevoli. Nei mesi scorsi abbiamo raccontato le terribili vicende di Lilian Solomon in Abruzzo e di Maris Davis, due tra le tantissime ragazze vittime della disumanità delle mafie che sfruttano la schiavitù sessuale.

Nelle scorse settimane a Roma è stata ricordata Maria, assassinata e poi, per tantissimo tempo, abbandonata. «Mi hanno legata al letto ed hanno cominciato. Ci si sono messi in tre, ma non ci sono riusciti. Dicevano che era colpa mia, che ero una stupida perchè urlavo e mi dimenavo. Dovevo star ferma e tutto si risolveva in un attimo. Poi hanno preso una cosa, me l’hanno infilata dentro e ci sono riusciti… Perdevo sangue, avevo un dolore terribile, ho pregato che avessero pietà, ho chiesto aiuto… mi hanno curata con una doccia di acqua e sale. Altro dolore.Ho pensato che sarei morta. Urlavo, piangevo, ma loro niente. Era colpa mia, tutta colpa mia se ero ancora vergine. Tre giorni dopo mi hanno messo sulla strada».

Rosalyn era una ragazza nigeriana di quattordici anni: questa è la sua testimonianza raccolta dal giornalista Silvestro Montanaro tre anni fa, una delle tante che – almeno dai tempi del libro «Le ragazze di Benin City» - raccontano quel che nelle periferie delle nostre città, sul ciglio di importanti arterie stradali o anche nel cuore delle stesse città avviene ogni giorno.

Per denunciare tutto questo, per costruire una mobilitazione civile che possa liberare le schiave del sesso e fermare tutto questo è l’obiettivo della campagna «Questo è il mio corpo». Per denunciare quest’umanità negata a migliaia di ragazze, di questa campagna e delle costanti attività sociali contro la tratta abbiamo intervistato Irene Ciambezi della Comunità Papa Giovanni XXIII.  

Martina Taricco (Comunità Papa Giovanni XXIII, Chieti) in un’intervista qualche mese fa ci ha segnalato la tendenza dalle strade alle case, è una tendenza nazionale? In altri territori cosa sta succedendo?

«Una mappatura, per forti difficoltà a raggiungere le ragazze sfruttate, della prostituzione in luoghi chiusi purtroppo non c’è. In varie regioni ci sono forme di sperimentazione di analisi, per esempio, degli annunci pubblicati e tentativi di contatti delle donne che possono essere vittime della tratta. Presumibilmente è lo sviluppo dello sfruttamento della prostituzione, anche in questo periodo di emergenza sanitaria, in cui gli sfruttatori hanno cercato di modificare i loro traffici.

Questi temi si legano alla campagna «Questo è il mio corpo» e al rischio di riapertura delle case chiuse. Fondamentale può essere ricordare la sentenza dell’anno scorso sul caso Tarantini, legato alle escort teoricamente libere di prostituirsi ingaggiate per le feste nella villa di Arcore. Vi erano presenti personaggi che le ingaggiavano e un’organizzazione che gestiva i guadagni non in maniera diretta, libera ed individuale dalle ragazze ma strutturata da altri. Questi intermediari, in primis Tarantini, sono stati di fatto condannati e i loro avvocati hanno cercato di sollevare l’incostituzionalità della legge Merlin.

Con la sentenza della Corte Costituzionale di un anno fa si è chiusa una volta per tutte la questione della messa in discussione della legge Merlin, confermando la costituzionalità della previsione che qualsiasi forma di intermediazione è favoreggiamento della prostituzione. È quindi un reato e la sentenza dell’anno scorso attesta che la prostituzione non è mai libera e le donne si espongono a rischi sanitari e personali inaccettabili.

Il prostituirsi non può mai essere libero e sicuro, con i clienti possono sempre avanzare imposizioni pericolose o fatti più o meno accidentali – esponendo la donna a gravi rischi – e i clienti hanno la convinzione di averle acquistate e quindi si sentono in diritto di pretendere ed obbligarle a qualsiasi cosa. La sentenza sul caso Tarantini ha ribadito, da un punto di vista di analisi del contesto, che nella prostituzione la donna non potrà mai avere una sicurezza e una libertà».

Eppure, ricompare più o meno periodicamente la proposta di riaprire le case chiuse: l’aumento dello sfruttamento della prostituzione negli appartamenti e quanto ci stai raccontando dimostrano che la tratta non verrebbe assolutamente scalfita e anzi sono proposte pericolose che la favorirebbero?

«Nei paesi ai nostri confini si sono moltiplicate attività come SPA che si presentano come centri benessere e, in realtà, sfruttano la prostituzione per clienti italiani. Sono casi in cui le donne vengono esposte come se fossero merci nelle vetrine, siccome non è concepibile che una persona non sia considerata nella sua integrità ma solo in parti del suo corpo considerate merci. La legge Merlin per questo ha realizzato passi fondamentali, chiudendo le case chiuse e introducendo i reati di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Un altro passo fondamentale ulteriore, ed è la nostra proposta da anni, è modificare l’articolo 3 della legge con l’assunzione ai clienti: se non si riduce in maniera decisa la «domanda», come chiedono da anni anche direttive europee, i rischi per le donne sono enormi e non esiste nessuna pari opportunità di genere.

Permettere di comprare permette di violare la persona. Lo testimonia anche i centri anti-violenza: ci sono uomini violenti perché hanno avuto la possibilità di «comprare», situazioni in cui le donne subiscono l’assoggettamento nella paura e nel silenzio. Dinamiche che coinvolgono soprattutto donne che vengono da stati totalitari dove non c’è libertà di pensiero e loro sono considerate come «stracci da utilizzare». Se non si agisce sulla domanda ci sarà una crescita e in una visione tutta maschile. Altro che riaprire le case chiuse, è necessario piuttosto contrastare tutte le forme di sfruttamento della prostituzione che avvengono in luoghi chiusi e web che si vanno diffondendo.

Favorite anche da una cultura europea che non si è ancora sganciata da una visione troppo maschile della vita e della relazioni sociali di genere. Non è un caso che la prima legge europea, approvata già sul finire degli anni novanta, che considera le donne sempre vittime e gli uomini sempre responsabili è svedese. Seguita da altri Stati tra cui la Francia, Paese considerato da sempre un luogo dove si segue un’idea di «amore libero», lo Stato del «moulin rouge» e dell’idea che le ragazze vi si potevano realizzare, ha avuto il coraggio nel 2016 di affermare che è inaccettabile qualsiasi sfruttamento della prostituzione che crea altre catene di violenza: l’uomo che le sfrutta e poi torna a casa ripeterà gli stessi comportamenti e continuerà a violare anche la moglie, fidanzata o compagna considerandole corpi da sfruttare a proprio piacimento. Una catena di sopraffazione che si diffonde così in tutti i contesti sociali. Per questo è molto pericoloso che ci siano organizzazioni che si battono per considerare la prostituzione una scelta come le altre. 

Da diversi mesi abbiamo intrapreso un cammino insieme alla Rete abolizionista italiana, animata da organizzazioni femministe, sindacali e altre, che come noi crede sia necessario adottare il «modello nordico». La raccolta firme della campagna «Questo è il mio corpo» ha ormai superato le 32.000 firme. Non ce l’aspettavamo, ma anche durante il lockdown tantissime persone hanno continuato a farlo».

Come è possibile sostenere la campagna «Questo è il mio corpo» e come si stanno ripensando le attività dopo il lockdown?

«Il 20 febbraio è saltato, con l’arrivo dell’emergenza sanitaria, l’incontro con alcune forze politiche sui temi della campagna. Il Senato ha portato avanti un’indagine sul fenomeno della prostituzione e in questo incontro volevamo affrontare i suoi risultati, in più c’è una proposta di legge molto vicina alla nostra idea di modifica della legge Merlin. Sono lavori portati avanti spesso da forze politiche che non hanno capacità di dialogo tra loro e di convergere. Il nostro obiettivo è anche quello di far ascoltare la voce delle organizzazioni anti violenza e anti tratta, a fine giugno abbiamo organizzato una diretta facebook a cui dovrebbe partecipare anche la Ministra della Famiglia e delle Pari Opportunità.

All’interno del Dipartimento Pari Opportunità c’è tutto il lavoro del numero nazionale anti tratta e dell’impegno contro la violenza di genere. A settembre è prevista una seconda diretta a cui parteciperà anche Save The Children e a fine ottobre ci sarà un altro appuntamento online in cui presenteremo altre attività: attraverso il teatro e il cinema, nell’ambito dei progetti della campagna «nemmeno con un fiore! stop alla violenza» abbiamo cercato di raccontare il dramma della prostituzione e dello sfruttamento delle donne, abbiamo realizzato uno spettacolo teatrale che inizieremo a diffondere con video promozionali e speriamo da fine anno di poter portare nei teatri italiani.

A fine ottobre verrà presentato anche il cortometraggio «Ballerina». Tutto avverrà tramite i nostri canali social e il sito web www.questoeilmiocorpo.org e già abbiamo realizzato una pubblicazione plurilingue sulla connessione tra violenza di genere, prostituzione e tratta e quante forme ci sono di violenza sulle donne rese possibili dalla convinzione che la prostituzione sia un «lavoro» e quanto le reti criminali possono, così, continuare ad organizzarsi».    

Nelle scorse settimana ha rapidamente conquistato un po’ di attenzione mediatica la storia a Roma di Maria, una ragazza massacrata di botte e trovata morta il 12 maggio scorso e il 6 giugno è stata ricordata in una veglia di preghiera. In questi anni avete documentato il dramma di tante di vite: puoi raccontare la storia di Maria e – se possibile – altre testimonianze?

«La vicenda di Maria è tra le più drammatiche, un caso di terribile femminicidio. Crimini che avvengono ad opera degli stessi sfruttatori o, molto più spesso, dei clienti. A dicembre, insieme anche ad un gruppo di Libera, ho accompagnato la salma di una giovane donna ungherese abbandonata in obitorio per diciotto mesi.

La famiglia non aveva i mezzi economici necessari ma noi abbiamo fatto da ponte insieme anche all’amministrazione comunale per riportare la salma nel suo Paese e organizzare il funerale. Purtroppo non siamo riusciti a salvarla creando quella relazione di fiducia che permette di farla fuggire dagli sfruttatori e abbiamo cercato di restituirle un po’ di giustizia: fu arrestata la banda che la sfruttava e dopo un anno il cliente che l’ha assassinata è stato condannato. I casi di femminicidi di donne costrette alla prostituzione sono tanti, dimenticati e rimangono spesso nel silenzio.

Silenzio rotto in alcuni casi solo perché capita un annuncio o un breve articolo di un giornalista o un fotoreporter che si accorge di una morte che spesso neanche i media locali raccontano.

Ci sono diverse versioni dei fatti, alcune anche che negano la prostituzione, ma chi conosce il parco don Mario Picchi conosce la realtà in cui donne indigenti vengono sfruttate per la prostituzione da compagni che cercano di ottenere soldi. Quella violenza dimenticata dovevamo riportarla in un momento di ricordo, anche di preghiera, ed è importante che sia stato presente il presidente del municipio. A fine gennaio c’è stato un altro omicidio, una donna uccisa in un incidente stradale su un’arteria nota per il giro di prostituzione. Anche in questo caso non eravamo riusciti ad entrare in contatto con lei e a riuscire a salvarla. Il nostro impegno ora con la nostra unità di strada sarà di cercare di essere presenti in maniera più efficace.

Le storie che ci colpiscono di più sono quelle quotidiane delle ragazze che incontriamo. Penso ad una donna macedone madre di due figli che ci ha chiesto aiuto durante il lockdown, anche per un accompagnamento sanitario perché ha scoperto di avere un tumore. Una vita che ci dimostra quanto sono presenti anche nel tessuto cittadino, invisibili, dimenticate e sconosciute, senza reti parentali e di amicizia solide: questa donna, che cerca anche di lavorare come badante, è vittima di indigenza e della «proposta» di qualcuno.

Mi ha colpito molto che ha scelto di condividere senza nessun filtro la sua sofferenza di trovarsi sulla strada e non voler vivere due vite parallele, quella dell’assistenza durante la settimana e poi costretta a prostituirsi nel fine settimana. Lei era consapevole di questa doppia vita nei colloqui telefonici che abbiamo avuto durante il lockdown e, dopo, anche di persona quando le abbiamo portato degli aiuti. La sua consapevolezza era che doveva pensare al suo stato di salute e curarsi dal tumore. Gli psicologi sottolineano sempre il processo di annichilimento e annientamento dell’identità: quando ci si prostituisce ci si trasforma e si assume la maschera di una persona diversa che non vive la propria vita ma vive solo in funzione delle richieste di un uomo.

Quando si incontrano queste donne fuori dalla strada, come accaduto anche durante il lockdown, nella vita reale e si aprono senza filtri anche noi operatori ci troviamo di fronte a situazioni che non immaginavamo. Di persone che non vorrebbero prostituirsi e di voler lavorare, mantenersi autonomamente e non vergognarsi davanti ai figli. In molti casi negli anni cresce una dissociazione della personalità, sono anni che anche gli psicoterapeuti chiedono attenzione su questo: anni fa ci fu anche un manifesto in cui dissero di non voler più vedere troppe donne che escono dai bordelli da curare e ricostruire, quando a 40 anni non si vive più la prostituzione si arriva ad essere una persona distrutta, con problemi gravissimi persino a livello psichiatrico tra cui ansia, depressione, disturbo post traumatico da stress.

Se per tanti anni una donna si è concentrata solo su una parte del proprio corpo perché l’hanno convinta che era l’unico che poteva avere un valore a quarant’anni «sei finita». Non è possibile augurarlo a nessuno.

Stiamo ricominciando i colloqui con le ragazze e molte sono spaventate dai rischi e consapevoli che non c’è mascherina o altro dispositivo di protezione efficace. Rischi sanitari ampiamente presenti anche prima della pandemia: non c’è nessun dibattito e presa di coscienza per esempio sulla diffusione della sifilide, una delle malattie che si diffonde ad ampio raggio proprio a seguito dei rapporti sessuali nella prostituzione. Tra le altre malattie ci sono HIV ed epatite B. Rischi sanitari gravissimi di cui non si parla mai e che coinvolgono le donne costrette a prostituirsi, mentre ad alimentare la tratta sono gli uomini e a loro volta i familiari. Il nuovo coronavirus ha solo messo in maggior luce questo dramma sanitario».