Roberto Mancini è un seme, a tutti noi il compito di farlo fiorire

DIAMO VOCE. Incontro online con la moglie Monika Dobrowolska per ricordare Roberto Mancini, il poliziotto che scoprì la terra dei fuochi, la sua passione per la giustizia e in difesa della sua terra. L’impegno di una vita esemplare che interroga le coscienze e chiama tutte le coscienze.

In ospedale Roberto scriveva ancora, si informava, seguiva le inchieste e le sue informative. Si commuove Monica Dobrowolska Mancini mentre lo ricorda. Roberto Mancini era ormai gravemente malato, la malattia che lo strapperà alla vita che lo segna sempre più. Ma non si arrende e la sete di giustizia, gli ideali di tutta una vita, la schiena dritta che lo ha sempre accompagnato erano più forti. In quelle settimane gridò ad un amico “ma che te stai ad amalgamà? Non è finito un cazzo” perché per lui, fino all’ultimo secondo doveva essere donato agli altri, alla sua terra, alle persone avvelenate e assassinate dalle ecomafie. Quel dono che lo portò, nonostante i possibili rischi e la gravità della sua situazione, a chiedere (ed ottenere) il permesso di uscire dall’ospedale alcune ore e partecipare ad una puntata di Servizio Pubblico.

Roberto Mancini ha ricordato il nostro direttore Paolo De Chiara all’inizio non era un eroe da issare su un laico altarino. Così da sentirlo distante, irraggiungibile e giustificare l’ignavia delle coscienze addormentate. Roberto così come Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assassinati mentre indagavano sui traffici di rifiuti ed armi dall’Italia alla Somalia. Un assassinio, il cui anniversario è avvenuto nei giorni scorsi, che ci ricorda una realtà fondamentale: la «terra dei fuochi» non è un perimetro geografico ma un sistema economico criminale che va molto oltre la fu Campania Felix. Hanno disseminato rifiuti per tutto il Nord, Nunzio Perrella anni fa dichiarò che tutto il nord Italia è pieno, in capannoni, terreni, sotto i piloni autostradali. Il bresciano, lo ha ricordato Monika durante la video diretta, vive una realtà drammatica e terribile. Avvelenata dalle ecomafie, un termine che anni fa la Direzione Investigativa Antimafia scrisse in una relazione semestrale scrisse che va superata nella sua concezione tradizionale. È delitto d’impresa, è capitalismo criminale al massimo livello, imprenditori che «per puro scopo utilitaristico deviano dal solco della legalità». Quello scopo utilitaristico sono gli affari sporchi di un Paese sporco, parafrasando Pasolini, marcio e assassino. Omicidi di mafia, masso mafia, colletti bianchi, politica corrotta e traditrice dell’interesse pubblico e della polis. Una politica che tradisce ripetutamente se stessa e diventa altro, il sovversivismo delle classi dirigenti denunciata da Antonio Gramsci, la borghesia mafiosa descritta da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino e da Mario Mineo decenni dopo.

Il sistema criminale della «terra dei fuochi» smentisce alcuni luoghi comuni delle tastiere a comando, dei riportisti del padrone di turno, sulle mafie. Che uccidono ancora, assassinano e assassineranno ancora. Sono vittime di mafie i malati di cancro e altre malattie, per troppi mortali. Uccidono con le armi e con i fusti, le balle, i rifiuti accumulati, interrati, incendiati. Roberto Mancini e Michele Liguori non sono più fisicamente tra noi, uccisi dai veleni su cui stavano indagando. Sono purtroppo, invece, ancora tra noi i pupari, i colletti bianchi, gli imprenditori, i massoni, i politici che si sono inchinati alle più squallide consorterie di questo Paese. Il 2021 è iniziato con la condanna in Cassazione, sentenza ormai passata in giudicato, di Cipriano Chianese. Il dominus della discarica Resit, vicenda simbolo della «terra dei fuochi» della Campania Felix. Le menti raffinatissime, gli altissimi livelli, i complici e i conniventi nelle istituzioni si annidano ancora nei gangli dello Stato. Quello Stato che isolò e abbandonò Roberto Mancini, che non diede seguito alle sue informative. Per poi comparire in prima fila il giorno del funerale col picchetto d’onore. A conclusione del libro scritto da Nello Trocchia e Luca Ferrari insieme con Monika, «Io morto per dovere», si ricorda quanto accadde in quelle tristi ore. E che, il giorno dopo, i familiari di Roberto trovarono una corona di fiori firmata «i compagni del 32». Il 32 è un numero civico di Via dei Volsci a Roma, storica sede dell’Autonomia Operaia negli Anni Settanta e ancora oggi centro sociale. Quell’area della sinistra extraparlamentare da sempre distinta e distante dallo Stato, in perenne conflitto con le istituzioni e i suoi rappresentanti. Che decisero di omaggiare un poliziotto, un uomo vero delle Istituzioni, una persona che non si è mai amalgamata ed è rimasta sempre fedele al cuore e all’anima, la sua sete di giustizia che lo ha portato dalla giovane militanza proprio in quell’area politica a diventare uomo delle istituzioni, un poliziotto. A cui non interessava accumulare arresti e atti di forza solo per compiacere i superiori e fare carriera. Ma la difesa dei più deboli, degli inermi, la giustizia per chi è sopraffatto dall’oppressione e dalla pre-potenza criminale, schiacciato da chi è forte di fondi, potere, reti di clientele e di affari, a chi si compra e devasta interi territori. La corona dei «compagni del 32», conclude il libro, per i familiari di Roberto fu l’omaggio più vero e sincero.

«Mi hanno sepolto ma quello che non sapevano è che io sono un seme». È la frase di Wangari Maathai, l’attivista ambientalista keniota premio Nobel per la Pace nel 2004 morta di tumore nel 2011, riportata all’inizio di «Io morto per dovere». La testimonianza e l’impegno di Roberto Mancini in questi anni è stato portato nelle scuole, fatto conoscere a milioni di italiani, gli sono stati intitolati circoli e presidi di associazioni. Racconta Monika durante la video diretta di aver incontrato i ragazzi di una scuola che non sapevano neanche chi fosse Roberto. Si sono appassionati, hanno cercato, approfondito e studiato e già il giorno dopo grande era la conoscenza. Per passione, per essersi innamorati di Roberto, per l’ardore giovanile del cuore, in pochissimo tempo hanno fatto miracoli. Semi che sono germogliati. Il crimine perpetuo delle terre dei fuochi, il seme piantato da Roberto Mancini scuotono le coscienze, chiamano all’impegno ognuno di noi. Il ricordo è importante, è compito di ognuno di noi non dimenticare Roberto e portarlo sempre nel cuore e nell’anima. Commemoralo, fare concreta commemorazione ogni giorno. Ovvero, riprendendo la parola stessa azione, impegno. È l’omaggio più vero e autentico che si può fare, ovunque, in Campania come in Molise, in Abruzzo come nel profondo. Senza mai amalgamarsi, mai tacere e chinare il capo di fronte ai meccanismi di potenti e pre-potenti.

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