Trattativa Stato-mafia, «il dialogo doveva salvare vite umane»

DIFESA DE DONNO. La Trattativa non c'è stata, perché gli ufficiali del Ros avvicinarono Ciancimino per operazioni info-investigative volte ad acquisire informazioni sui latitanti da catturare, e la "minaccia a corpo politico" non si è mai configurata. A sostenerlo è l'avvocato Francesco Romito, il legale dell'ex ufficiale del ROS Giuseppe De Donno, condannato in primo grado a 8 anni. Anche se una trattativa ci fosse stata, però, per il legale questa sarebbe stata "lodevole e meritoria", perché l'unica finalità che si poneva era quella di salvare altre vite umane.

Trattativa Stato-mafia, «il dialogo doveva salvare vite umane»

Dopo l'arringa dell'avvocato Basilio Milio, al processo d'Appello sulla Trattativa Stato-mafia è stata la volta di Francesco Romito, il difensore dell'ufficiale del ROS Giuseppe De Donno, condannato in primo grado a 8 anni.
L'arringa di Romito è stata molto critica nei confronti della sentenza di primo grado che, a suo dire, “pecca di generalità e astrattezza”, è “contorta” e “contraddittoria”.
“Una sentenza di condanna deve essere precisa”, ha sostenuto la difesa. Qui, invece, “da una parte si sostiene che un nesso causale tra Trattativa e minaccia esista, dall'altra che non c'è alcun nesso causale”.

“La sentenza ha una grossa difficoltà ad andare avanti nel momento in cui ammette che la Trattativa non è reato”.

Come aveva già tenuto a precisare l'avvocato Milio, anche la difesa De Donno sostiene che non si possano condannare degli imputati per il semplice fatto di aver messo in piedi una trattativa. E per giustificare un modo d'agire, a suo dire, ben radicato nella tradizione e nella storia d'Italia, l'avvocato Romito scomoda persino Berlinguer e il compromesso storico, la lotta al terrorismo, Salvo D'Acquisto.

“Il principio della storia del nostro Paese è salvare vite umane”, quindi mettere in piedi trattative con chi ha trucidato Falcone e Borsellino insieme agli agenti di scorta nelle stragi del '92, è pienamente lecito. "Se devi salvare vite umane, ti turi il naso e lo fai”. L'avvocato ha pescato esempi anche dalla storia più recente, ricordando come Silvia Romano e i tanti ostaggi italiani liberati nel mondo non sarebbero mai potuti tornare a casa se qualcuno non avesse messo in piedi delle trattative. “Perché lì nessuna Procura si è mossa per incriminare ministri, servizi segreti e quant'altro?”.

E sul sacrificio di Salvo D'Acquisto, che trattò con i peggiori criminali della storia dell'umanità sacrificando la propria vita, l'avvocato si è commosso. 

La domanda che vuole suscitare nella Corte è chiara: trattare con Cosa nostra è davvero così riprovevole se il fine ultimo è quello di salvare altre vite umane?

Quello che però l'avvocato Romito evita di ricordare è che le stragi del '93 causarono la morte di 15 persone, tra cui una bambina di nove anni e un'altra di appena cinquanta giorni. E avrebbero potuto realizzare una delle più gravi stragi della storia repubblicana se, per puro caso, il telecomando per l'attentato allo Stadio Olimpico di Roma non si fosse miracolosamente inceppato evitando la morte o il ferimento di centinaia di persone. 

Secondo la difesa, comunque, “i nostri trattative non ne hanno mai fatte”. Si è trattato solo di “operazioni info-investigative per acquisire informazioni per annientare Cosa nostra”. E i contatti con Vito Ciancimino servivano proprio a quello, rientrerebbero nell'ambito di una strategia del ROS per arrivare ai latitanti.

L'arresto di Riina e Biondino, in tal senso, sarebbe addirittura “uno spartiacque della lotta alla mafia”. Un'operazione in cui tutto ha funzionato bene. Bernardo Provenzano, però, rimase latitante per un altro decennio e Matteo Messina Denaro lo è ancora oggi.

“A luglio arrivarono 5 mila militari in Sicilia per contrastare la mafia”, è per questo che i latitanti decisero di spostare le stragi in continente. Dunque non per effetto di “suggerimenti esterni”, né per dare maggiore risalto alla strategia del “fare la guerra per fare la pace”. La sentenza di Reggio Calabria ('Ndrangheta stragista), d'altronde, dimostrerebbe, sempre secondo la difesa, come la trattativa fosse un elemento di secondo piano rispetto a un disegno criminale eversivo con cui gli imputati avevano poco a che fare. 

Come la difesa Mori, anche il legale di De Donno è tornato sulla “minaccia a corpo politico dello Stato”. “È sufficiente che Conso abbia percepito la minaccia”, dice la sentenza di primo grado. Ma a trasmettere quella minaccia al ministro non furono certo gli odierni imputati, secondo i difensori. La spaccatura interna ai vertici di Cosa nostra non fu riportata da Mori al vicedirettore del DAP Francesco Di Maggio. E Conso, d'altro canto, avrebbe preso delle decisioni in solitaria, senza nessuna collegialità con il Consiglio dei ministri. Per cui, non ci sarebbero i presupposti per una minaccia a “corpo politico” dello Stato, dove per corpo non si intende un singolo ministro.

L'arringa poi si è soffermata ancora sul rapporto mafia-appalti, quello che per le difese Mori-De Donno-Subranni è il vero movente dell'accelerazione improvvisa della strage di via D'Amelio, ricalcando su questo punto quella che è stata la linea dell'avvocato Milio. 

De Donno va quindi assolto, perché il reato non sussiste. Perché trattare con i vertici di Cosa nostra era il presupposto per salvare altre vite umane (salvo decretare la morte di altre) e perché la minaccia che è alla base del reato contestato non si è mai configurata, né per Mori né per De Donno. 

Lunedì 12, a parlare sarà l'avvocato Centonze per la difesa dell'ex senatore Marcello Dell'Utri. 

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