«Uno Stato che non ammette di aver sbagliato è uno Stato che non esiste»

SPECIALE PINO PINELLI/Seconda parte. L’Italia delle STRAGI e dei SEGRETI DI STATO, dicembre 1969. L’INTERVISTA a Silvia Pinelli, la figlia della staffetta partigiana. Il ferroviere anarchico innocente, “precipitato” dal quarto piano della questura di Milano. «Sono 51 anni che chiediamo di sapere. Ci sono delle persone che sanno e che sono ancora vive. So che ha subìto tortura, so che è entrato vivo e ne è uscito morto, dal quarto piano dell’ufficio del commissario Calabresi. So che l’idea del “malore attivo” è un’ipotesi che non esiste. Sappiamo che nostro padre è stato ammazzato nel momento in cui è entrato in quella questura.»

«Uno Stato che non ammette di aver sbagliato è uno Stato che non esiste»

“Il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa”. Il fantasioso questore-fascista di Milano, Marcello Guida, cerca in tutti i modi di allontanare i sospetti che, dalla stanza del commissario Calabresi, hanno invaso un Paese intero. Tutti hanno capito, tutti hanno compreso. La “caduta” non si può attribuire né ad uno “scatto felino” (suicidio) né ad un “malore attivo”. Termine quest’ultimo apparso in una sentenza scandalosa. Un uomo entra dalla porta principale e “precipita” dalla finestra-balcone (con una ringhiera alta 97cm.) dell’ufficio politico del commissario Calabresi al quarto piano della questura di Milano.

 

Il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio (con la sentenza di proscioglimento per tutti gli imputati, ottobre 1975) si trasforma in un Ponzio Pilato. Nessun colpevole, nessun omicidio, nessun suicidio. Ecco cosa si può leggere nella famosa sentenza romanzata: «Pinelli accende la sigaretta… L’aria della stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare una boccata d’aria fresca, una improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto. Tutti gli elementi raccolti depongono per questa ipotesi. La mancanza di qualsiasi indizio e di qualsiasi motivo di sospetto per l’omicidio volontario. L’assenza di una qualsiasi causa scatenante l’impulso suicida. L’assenza comprovata di una rincorsa per superare l’ostacolo… La presenza di fattori alteranti del centro di equilibrio. La traiettoria molto prossima a quella derivante dalla sola forza viva della rotazione del corpo intorno alla ringhiera. La sigaretta che precipita insieme al corpo».

E ad un tratto Pinelli cascò!

 

 

Con 51 anni di ritardo sono arrivate le parole del generale Maletti, ex numero due del servizio segreto militare. Questa è la sua versione pubblicata dal Fatto: “Pinelli si rifiuta di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedere sul davanzale. A ogni risposta negativa, Pinelli viene spinto un po’ più verso il vuoto. Infine perde l’equilibrio e cade”.

Un metodo giù utilizzato e denunciato da altri anarchici. Sicuramente, non servivano le parole di un generale per smontare la tesi del “malore attivo” o delle balle raccontate dai protagonisti e dai presenti in quella stanza delle torture (ufficio politico della questura di Milano).

Pinelli, 41 anni, già staffetta partigiana, ferroviere anarchico e padre di famiglia subisce un trattamento vergognoso. Ad oggi, nessuno ha pagato per quella morte. Anzi lo Stato, responsabile di quella morte e di tante altre morti, ha fatto pure pagare le spese processuali alla vedova Pinelli.

 

E siccome la memoria (nel Paese senza memoria) è fondamentale abbiamo ritenuto utile rinfrescarla con qualche altro passaggio della vergognosa sentenza.

«Dall’attento e critico esame degli atti processuali, emerge che, subito dopo la precipitazione vi furono, da parte dei presenti, reazioni di sgomento dovute non tanto a sentimenti di pietà verso il Pinelli quanto a considerazioni più o meno conscie delle conseguenze negative personali che da quell’episodio potevano loro derivare. …il dott. Allegra dopo essersi portato le mani fra i capelli e lo stesso dott. Calabresi, non si preoccuparono di precipitarsi nel cortile e di accertare le condizioni di salute del Pinelli ma di avvertire il Questore...». Marcello Guida, l’ex direttore del carcere di Ventotene, luogo di confino per gli antifascisti, «tenne una conferenza stampa sulle modalità della morte del Pinelli nel corso della quale fece affermazioni poi riportate dalla stampa, quali: «Era fortemente indiziato». «Ci aveva fornito un alibi ma questo alibi era completamente caduto». «Il funzionario e l’ufficiale gli hanno rivolto un’ultima contestazione. Un nome, un gruppo: li conosceva? Li aveva visti? Quando? Poi sono usciti dalla stanza. Di improvviso Giuseppe Pinelli è scattato. Ha spalancato i battenti della finestra socchiusi e si è buttato nel vuoto» («Corriere della Sera» del 16-12-69). «Quando si è accorto che lo Stato che lui combatteva lo stava per incastrare, ha agito come avrei agito io stesso se fossi un anarchico» («l’Unità» del 17-12-69), «È stato coerente con i suoi principi. Se fossi stato in lui avrei fatto la stessa cosa. Quando ha visto che la legge lo aveva preso si è tolto la vita» («Corriere d’Informazione» del 16-12-69)».

Balle vergognose di un rappresentante dello Stato vergognoso (che, in seguito, verrà pure promosso), utilizzate «come strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici».

 

 

Bugiardi di Stato. Il questore Giuda, meglio conosciuto come bagnino penale (per la sua esperienza a Ventotene), è in ottima compagnia. Queste le versioni raccolte dal magistrato Caizzi il giorno successivo (16 dicembre 1969): «scatto felino» per il brigadiere di polizia Vito Panessa; «scatto verso la finestra» per il tenente dei carabinieri Savino Lograno e per il brigadiere di polizia Carlo Mainardi; «tuffo oltre la ringhiera» per il brigadiere di polizia Pietro Mucilli; «balzo repentino verso la finestra» per il brigadiere di polizia Giuseppe Caracuta.

Tutti presenti nella stanza da cui “precipitò” Pinelli, tutti assolti dalla magistratura. Prosciolti, «perché il fatto non sussiste».

Versioni che cambieranno, in continuazione. Addirittura il brigadiere Caracutta (udienza 28 ottobre 1970) ammetterà di aver mentito. «Mentre rileggevo le copie dei verbale udii sbattere la finestra, vidi Panessa (nei pressi della ringhiera) sporgersi come per trattenere qualcosa».

 

 

Ma come viene trattato l’innocente Pinelli durante il fermo di polizia illegale? «Dalle 18,30 del 12 dicembre sino a pochi minuti prima delle 24 del 15 dicembre, fu sottoposto ad una serie di stress, non consumò pasti regolari e dormì solo poche ore, una sola volta steso in una branda. Fermato intorno alle 18,30 fu collocato in un salone del quarto piano dell’Ufficio Politico… Alle 3 del mattino fu sottoposto al primo interrogatorio… Rimase ancora nello stesso stanzone senza possibilità di stendersi e di beneficiare di un sonno ristoratore sino alle 23,30 del 13 dicembre, ora in cui venne accompagnato nelle camere di sicurezza della questura. La mattina del 14 fu ricondotto nel salone dell’ufficio politico e subì lo stress dell’attesa di un nuovo interrogatorio... subì ancora lo stress di un nuovo interrogatorio… Subì quindi ancora lo stress dell’attesa di un nuovo interrogatorio… Alle ore 19 del 15 dicembre, senza che avesse potuto beneficiare di un sonno ristoratore in un letto, fu chiamato di nuovo per l’interrogatorio. «Valpreda ha confessato» esordì il commissario Calabresi. Era vero o era il solito «saltafosso» della polizia?... La mancanza di sonno, di un’alimentazione adeguata, le numerosissime sigarette fumate, dettero il loro contributo allo stato di stanchezza che ne derivò». Ecco come arriva il famoso e fantasioso «malore attivo». Degno di un mediocre romanziere.   

 

Licia Pinelli

 

«Pino è stato il granellino di sabbia che ha inceppato un meccanismo», spiega la signora Licia, la vedova Pinelli, nel bellissimo libro Una storia quasi soltanto mia, scritto con Piero Scaramucci. «Dopo la bomba di piazza Fontana avevano cominciato la caccia agli anarchici, che erano la parte più debole, e poi sarebbero andati avanti grado a grado contro tutta la sinistra. La morte di Pino è stata un infortunio sul lavoro, per loro sarebbe stato più comodo metterlo in galera con gravi imputazioni e tenerlo dentro per anni, come Valpreda. Invece gli è successo questo infortunio e lì l’opinione pubblica ha cominciato a capire.»

 

Ma chi era Pino Pinelli? E con questa domanda riprendiamo il dialogo con sua figlia Silvia.

«Di Pino si conosce molto dopo. Si parla sempre del dopo, di come è morto. Noi raccontiamo nostro padre anche attraverso le persone che lo hanno conosciuto. Mio padre era del ’28, era nato a Milano. A dieci aveva dovuto lasciare la scuola perché aveva dovuto aiutare economicamente la famiglia. Era una cosa molto comune in quegli anni. Il primo datore di lavoro lo aveva preso come magazziniere e fu lui che gli diede i primi libri da leggere sull’Anarchia. A mio padre mancava il fatto di non aver potuto continuare a studiare. Grazie a questi libri si appassiona all’idea, leggendo Bakunin o Proudhon. A quindici anni partecipa alla lotta partigiana, come staffetta. Di quel periodo non conosciamo quasi niente, perché i partigiani hanno cominciato a raccontare dopo. Non credo trasportasse armi, perché era un non violento di natura. La sua famiglia era sfollata a Lacchiarella e mio padre spariva per giorni. Mia nonna veniva a Milano, con il coprifuoco, a cercarlo. Poi ogni tanto ricompariva. Finito il periodo della resistenza l’impegno di Pino è continuato.»

Pino Pinelli

In che modo?

«Aveva partecipato, nel corso degli anni, all’apertura di vari Circoli anarchici. Aveva fondato la Croce Nera Anarchica che, in teoria, doveva dare supporto agli Anarchici che venivano perseguitati nel mondo. Un supporto anche di tipo economico. Già nel 1968 dovevano aiutare gli Anarchici accusati degli attentati che non avevano compiuto. Aveva ridato vita all’Unione Sindacale italiana.»

 

Di cosa si occupava?

«Come sindacalista si occupava della tutela della salute nei luoghi di lavoro. Temi che riportano a ciò che sta succedendo in questi giorni. Licia la conobbe nella scuola di esperanto e poi si sposarono. L’esperanto è una lingua universale, in disuso, che una volta avrebbe dovuto aprire le frontiere. Però, probabilmente, aveva uno spirito anche diverso, gli esperantisti erano dei pacifisti aperti verso un mondo di pace, di libertà, di eguaglianza. Con Licia si sposarono dopo che aveva vinto il concorso alle ferrovie. Sono tanti i racconti delle persone che lo hanno conosciuto nel corso degli anni. Ricordano di nostro padre che faceva da tramite tra i giovani e i vecchi. E non aveva quella supponenza, ma accoglieva. Le prime cose che dava erano i libri da leggere. Questo è mio padre in linea di massina, fino ad arrivare a quel giorno del 12 dicembre.»

 

Cosa è l’Anarchia?

«Da quello che ho visto è un bellissimo sogno. È un sogno, secondo me.»

 

Perché è un sogno?

«È un sogno dove ognuno possa sentirsi responsabile degli altri come si sentirebbe responsabile di sé stesso. Dove non esiste una proprietà privata, dove tutto è di tutti e si lavora insieme, per creare qualche cosa di bello. È una grande utopia.»

 

E perché, nel corso degli anni, questa “grande utopia” viene costantemente colpita?

«Perché il movimento anarchico è il movimento che ha meno controlli all’interno. Era più facile entrare. C’è un episodio che ci è stato raccontato da un amico di mio padre. Stavano facendo una riunione al Ponte della Ghisolfa e ad un certo punto mio padre dice: “so che c’è un infiltrato della polizia. Adesso spengo la luce, conto fino a tre. Quando la riaccendo, se questa persona non è sparita, io la indico”. Spegne la luce, si sente un grande trambusto e quando viene riaccesa la luce manca una persona. Mio padre era un pacifista, non era uno sprovveduto.»

 

Perché il movimento viene individuato come capro espiatorio?

«Era più facile da colpire. Non era ben inviso dai partiti istituzionali il movimento anarchico. Pensavano, probabilmente, che incolpando gli anarchici nessuno si sarebbe mosso. Anche adesso, quando non sanno cosa dire, accusano gli anarchici. Non ha un’organizzazione, come poteva avere un partito Comunista.»

 

Subito dopo lo scoppio della bomba del 12 dicembre suo padre viene “invitato” dal commissario Calabresi…

«A seguire la volante con il suo motorino.»

 

La famiglia quando viene a sapere di questo “invito” in questura?

«Con la perquisizione a casa. Tanto è vero che i poliziotti avevano chiamato in questura, dicendo: “qua Pinelli non c’è”. E dalla questura rispondono: “è già qua da noi”.»

 

E ci resterà fino alla fine dei suoi giorni.

«Fino alla notte del 15 dicembre, quando uscirà dalla finestra del quarto piano dell’ufficio del commissario Calabresi. Dopo che il fermo era diventato illegale, perché non era stato confermato dal magistrato.»

 

Tre giorni di totale illegalità.

«Dai verbali risultano gli interrogatori. Mio padre è stato privato di sonno, di cibo. Questo risulta anche dalle varie sentenze. Tanto è vero che D’Ambrosio conclude la sua istruttoria dicendo, appunto, che fu “privato di sonno, privato di cibo...”, non ha detto torturato. Ma comunque questa è tortura. Io non so cosa sia successo, sono 51 anni che chiediamo di sapere. Ci sono delle persone che sanno e che sono ancora vive. So che ha subìto tortura, so che è entrato vivo e ne è uscito morto, dal quarto piano dell’ufficio del commissario Calabresi. So che l’idea del “malore attivo” è un’ipotesi che non esiste. Sappiamo che nostro padre è stato ammazzato nel momento in cui è entrato in quella questura. È stato privato di tutti i diritti. Era già stato ammazzato.»

 

Chi era presente in quelle stanze della questura di Milano? Soggetti legati al ministero dell’Interno, ai servizi…

«Queste cose sono venute fuori nel corso degli anni. Mi chiedo come mai non si sia indagato. Molti sono morti, ma molti furono sentiti dal giudice Pradella, che nel 1994-’95 aveva preso in mano l’indagine sulla strage di Piazza Fontana. Probabilmente non c’è oggi la volontà politica di riaprire un’inchiesta giudiziaria.»

 

Nella stessa notte il questore di Milano, Marcello Guida, ex direttore fascista della colonia di confino di Ventotene organizza una conferenza stampa…

«Poi hanno anche detto che “era un bravo ragazzo, non ci aspettavamo che fosse implicato nella strage”. Invece di avvisare la famiglia il questore di Milano indisse una conferenza stampa. La prima cosa che fece Licia fu la denuncia per diffamazione, che è stata archiviata. Guida venne assolto perché il fatto non costituisce reato. Venne anche promosso a ispettore generale di pubblica sicurezza al ministero. La sentenza fu depositata prima della pausa estiva e verso settembre non ci fu nemmeno un trafiletto. Nel 1970, quando mia mamma e la mamma di Pino presentano una denuncia, contro ignoti, per la morte di Pino, anche questa verrà archiviata come “morte accidentale”. Poi c’è anche il lavoro di Dario Fo. La sentenza verrà depositata in concomitanza con lo sciopero dei grafici. Tutte cose casuali…»

 

Lo spettacolo di Dario verrà portato in scena prima dello stupro di Franca Rame (9 marzo 1973)?

«Sì, la prima volta verrà portato in scena a Varese. Dopo le minacce e le denunce lo spostarono a New York.»

 

Quali erano i rapporti tra suo padre e il commissario Luigi Calabresi?

«Si conoscevano, mio padre era referente del movimento anarchico a Milano. Non c’era un rapporto di amicizia, c’è da dire che nell’ultimo periodo mio padre veniva anche minacciato in continuazione. Dicevano: “Ti possiamo arrestare anche se attraversi con il rosso”».

 

Da chi arrivavano le minacce?

«Veniva minacciato. Comunque non c’era nessuna amicizia. Quando venne regalato a Pino il libro, mio padre lo scambiò con un altro libro. Era una persona generosa, quando riceveva qualcosa faceva in modo di restituirla. Mio padre si sentiva perseguitato.»

 

 

Ritornando a Guida, il questore di Milano, non possiamo non ricordare l’episodio con l’allora presidente della Camera Sandro Pertini (comandante della Resistenza), che si rifiutò di stringere la mano all’ex direttore della colonia fascista di Ventotene.

«Non perché lui era stato il direttore del confino di Ventotene ma perché Pinelli era morto in quel modo quando lui era questore a Milano.»

 

Quali sono i rapporti tra la famiglia Pinelli e la famiglia Calabresi?

«Di nessun tipo, nel senso che la prima volta che abbiamo incontrato la famiglia è stato nel 2009, quando ci fu l’incontro al Quirinale dove Pino venne ricordato, in occasione delle vittime del terrorismo e delle stragi. Per la prima volta la più alta carica dello Stato ha riconosciuto nostro padre come vittima innocente. Nel corso degli anni più volte ci siamo incontrati in manifestazioni pubbliche. Comunque le famiglie non c’entrano assolutamente niente.»

 

Come si può ricordare, dopo 51 anni, la tragica vicenda di un anarchico innocente ucciso dallo Stato?

«Ne dobbiamo parlare. Ma dobbiamo smettere di parlare di queste cose solo quando ci sono gli anniversari. Dobbiamo fare della memoria un motore per poter guardare verso il futuro. Dobbiamo cercare di cambiare le cose dall’interno. Se lo Stato avesse avuto il coraggio di condannare chi aveva sbagliato penso che non ci saremmo trovati, negli anni Settanta, con il terrorismo. Dopo lo Stato non condannerà mai sé stesso. Mia madre fece ricorso anche in sede civile, per il risarcimento. Venne rigettato e venne condannata al pagamento delle spese processuali. Come è successo per i famigliari della strage di Piazza Fontana. Noi abbiamo dei cittadini che entrano innocenti in una questura o entrano in una banca, vengono ammazzati, e lo Stato non ne risponde. E in più ti condanna alle spese processuali. Uno Stato che non ammette di aver sbagliato è uno Stato che non esiste. In questo Paese è il cittadino che deve attivarsi, attraverso le Associazioni, per far valere le proprie ragioni. Non è lo Stato che interviene a tutela del cittadino. Non è uno Stato democratico, non è uno Stato di diritto.»

Seconda parte

 

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Leggi anche:

PRIMA PARTE: Morte (poco) accidentale di un Anarchico

 

 

 

LA BALLATA DELL’ANARCHICO PINELLI

Quella sera a Milano era caldo
Ma che caldo che caldo faceva
Brigadiere apra un po' la finestra
E ad un tratto Pinelli cascò.

"Commissario io gliel'ho già detto
Le ripeto che sono innocente
Anarchia non vuol dire bombe
Ma eguaglianza nella libertà."

"Poche storie indiziato Pinelli
Il tuo amico Valpreda ha parlato
Lui è l'autore di questo attentato
E il suo socio sappiamo sei tu"

"Impossibile" – grida Pinelli –
"Un compagno non può averlo fatto
Tra i padroni bisogna cercare
Chi le bombe ha fatto scoppiar.

Altre bombe verranno gettate
Per fermare la lotta di classe
I padroni e i burocrati sanno
Che non siam più disposti a trattar"

"Ora basta indiziato Pinelli"
– Calabresi nervoso gridava –
"Tu Lo Grano apri un po' la finestra
Quattro piani son duri da far."

In dicembre a Milano era caldo
Ma che caldo che caldo faceva
È bastato aprir la finestra
Una spinta e Pinelli cascò.

Dopo giorni eravamo in tremila
In tremila al tuo funerale
E nessuno può dimenticare
Quel che accanto alla bara giurò.

Ti hanno ucciso spezzandoti il collo
Sei caduto ed eri già morto
Calabresi ritorna in ufficio
Però adesso non è più tranquillo.

Ti hanno ucciso per farti tacere
Perché avevi capito l’inganno
Ora dormi, non puoi più parlare,
Ma i compagni ti vendicheranno.

"Progressisti" e recuperatori
Noi sputiamo sui vostri discorsi
Per Valpreda Pinelli e noi tutti
C’è soltanto una cosa da far.

Gli operai nelle fabbriche e fuori
Stan firmando la vostra condanna
Il potere comincia a tremare
La giustizia sarà giudicata.

Calabresi con Guida il fascista
Si ricordi che gli anni son lunghi
Prima o poi qualche cosa succede
Che il Pinelli farà ricordar.

Quella sera a Milano era caldo
Ma che caldo che caldo faceva
Brigadiere apra un po’ la finestra
E ad un tratto Pinelli cascò.

Un gruppo di lavoratori dello spettacolo (nella foto Gian Maria Volontè, alle sue spalle i suoi colleghi attori)

Elio Petri - Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (1970)

Il filmato: le tre versioni che la polizia fornì sul "suicidio" di Pinelli, ricostruite seguendo le diverse e contraddittorie indicazioni fornite dalla Questura di Milano.