Ventidue anni da Radiofreccia, l’inno di una generazione

GENERAZIONI. Il pretesto del racconto prende le mosse dallo studio di registrazione di una radio, RadioFreccia per l’appunto, in cui Bruno (interpretato da Luciano Federico) porta alla luce la storia dei quasi compiuti 18 anni dell’emittente. Il flusso di ricordi di Bruno mette sotto agli occhi dei telespettatori una rappresentazione del percorso di crescita della generazione del baby boom, coloro che hanno vissuto con i loro occhi la ripresa economica e si sono fatti promotori delle battaglie sessantottine.

Ventidue anni da Radiofreccia, l’inno di una generazione

Era la metà di ottobre del 1998 ed usciva nelle sale Radiofreccia, il primo film diretto dal cantante idolo delle folle del momento, Luciano Ligabue.
Sebbene il film uscì a fine del secolo scorso, la storia narrata affonda le radici alcuni anni prima, ovvero negli incerti anni ’70. La trama del lungometraggio prende in analisi uno spaccato di vita di un gruppo di giovani di Correggio, nel reggiano, alle prese con storie di vita drammatiche.

Il pretesto del racconto prende le mosse dallo studio di registrazione di una radio, RadioFreccia per l’appunto, in cui Bruno (interpretato da Luciano Federico) porta alla luce la storia dei quasi compiuti 18 anni dell’emittente.
Il flusso di ricordi di Bruno mette sotto agli occhi dei telespettatori una rappresentazione del percorso di crescita della generazione del baby boom, coloro che hanno vissuto con i loro occhi la ripresa economica e si sono fatti promotori delle battaglie sessantottine.
Sono gli anni dell’emancipazione femminile, dell’internazionalismo e delle radio libere, proprio come quella fondata da Bruno e dalla sua compagnia. Sono anche gli anni, però, della diffusione massiccia delle droghe, testimoniata dal percorso di Ivan Benassi detto Freccia (Stefano Accorsi).

Freccia è uno di quei ragazzi senza ideali, senza un obiettivo fisso da perseguire. Freccia non sogna, ma vive alla giornata. L’incontro con una ragazza eroinomane sarà per lui fatale perché da lì inizierà la sua dipendenza dalle droghe.
Emblematico in questo passaggio al mondo della droga è il discorso che un matto del paese continua a ripetere a chiunque passi per strada: “Non ve lo ripeto più: la vita non è perfetta! Le vite nei film sono perfette... belle o brutte, ma perfette. Nelle vite dei film non ci sono tempi morti, mai! E voi ne sapete qualcosa di tempi morti?”
Di fatti, sono proprio i tempi morti che portano Benassi a trovare sfogo nell’eroina.

C’è però un significato intrinseco nella retorica del tempo morto: il tempo è morto quando non lo si vive, quando non si persegue un’ambizione o un’ideale.
Un tempo è morto non per noia, ma per mancanza di volontà. Ed ecco che l’ambientazione negli anni ’70 trova una logica formale più che materiale: perché oltre ad essere gli anni del post ’68 sono anche gli anni delle crisi dei valori e delle grandi incertezze, delle grandi contrapposizioni tra il blocco USA e URSS che gettano il mondo in un clima di incertezza.

Freccia, nel film, morirà di overdose perché non riuscirà a sconfiggere lo spettro del tempo morto, non riuscirà a trovare il sé di valore attorno al quale ancorare le pieghe della propria vita.
Gli altri ragazzi della compagnia di Bruno, però, riusciranno a sopravvivere a quel decennio di perdizioni e si faranno portatori di valori ritrovati, ognuno per la propria indole.
Radiofreccia, quindi, non è solo uno dei film più di successo della cinematografia italiana, ma è anche l’inno di quella generazione che ha saputo ritrovare se stessa, di quella generazione che di lì a poco avrebbe visto crollare il Muro delle divisioni, avrebbe ritrovato una nuova fede politica dopo un rinnovato smarrimento e avrebbe continuato a sognare, credendo nella forza delle proprie ambizioni.

Enrico De Simone