Alessandro Jasci, la storia feconda
Non è un caso che la storia – artistica - di Alessandro Jasci sia un avvicendamento incalzante di metafore narrative, di intrusioni, di generose ispezioni. E di esperienze comunitarie e indipendenti all’interno delle quali le “modalità indiscrete” si fanno vincolo e orientamento dell’intero racconto.

Una storia feconda quella di Alessandro Jasci. O meglio, per parafrasare l’incipit di una recente azione-intervista di Mara Predicatori, “un lavoro…fecondo di storie”. In effetti il tipo curioso e visionario che si racconta proprio in quella esauriente conversazione sembra procedere per piani ramificati, per minuti accumuli, per apparenti dissonanze che in verità si son fatte, negli anni, cifre rigorose di una narrazione assai originale e personale. Il prologo di ognuno affonda – radicalmente – in quella che amo definire una sorta di identità etnografica alimentata invero da una dose rilevante di rapporti, di ascolti, di sentori, di una memoria quasi trascendentale. E la cosiddetta “formazione” non può non prescindere da questo reticolo di affanni e umori, dal loro penetrante cospetto.
La “storia” di Alessandro Jasci è pertanto una storia di memorie impilate, mai disattese o annullate per sempre. Come la sua origine, in una terra – l’Abruzzo – che è stata oracolo e genitrice, orizzonte talvolta o cortile angusto. Terra di transumanze e di accomodanti rifugi. Ma quell’appartenenza quasi dirompente ad un “luogo” fisico e umorale – una sorta di “isola che non c’è” – anziché essere un impedimento alla sua innata curiosità appare, probabilmente, una zona di confronto, di comparazione, soprattutto di rinvenimento.
Il primo “spostamento”, in età giovanile, è all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Siamo all’inizio degli anni ’60, solo per intendere il tempo storico di cui parliamo. Quasi un contenitore di fibrillazioni in cui Jasci penetra attraversandolo poi per sguardi e voci, per gesti e affezioni: Venezia e la sua Biennale del ’64 che rivela le alterazioni della pittura; Roma che è Piazza del Popolo e L’Attico di Sargentini; Torino e le esalazioni dell’Arte Povera; Milano, la nuova “casa”. Interprete lui, con i protagonisti di quel tempo, della Storia di quel tempo. E di quella Storia osservarne il cuore famelico, assorbirne le impronte, seguire le rotte delle arterie. Essere, puntualmente, all’incrocio dei venti. Qualche nome? Tonello, Nagasawa, Trotta, Fabro, de Dominicis, Pistoletto. Compagni di viaggio, curiosi e fecondi come lui. E la pittura che si denuda – via via - del suo status consueto per farsi supporto epistolare, periferico, trasmigrante. La “superficie storica della tela” non è più un alibi narrativo. Tutto accade in un altrove, fisico e mutevole, intimo e immaginifico. Mutano gli strumenti. E con essi il dialogo. L’oggetto-soggetto pare farsi archetipo del dire e dell’annunciare, nelle forme e nelle identità più disparate.
Alessandro Jasci sembra percorrere quegli anni con un occhio ciclopico capace di osservare dall’interno ogni minimo brandello, gli aliti, le misture. E concentrarsi sugli anni citati non è un mero “rimando celebrativo” quanto invece la consapevolezza che quel tempo, e quei luoghi corrispondenti, siano stati una sorta di agora gremita (capace di accogliere, incidere, convertire) dalla quale, ogni volta, riprendere il viaggio per approdi incerti eppure gravidi di stupore.
“Ora, che ho l’occasione di avere sott’occhi tutto il lavoro compiuto da Jasci da allora fino ad oggi “ scrive Adriano Altamira in una preziosa introduzione al volume JASCI, sogni nel palazzo del piacere “sono sinceramente stupito di osservare come abbia effettivamente portato a evoluzione tutte le premesse di quegli anni, dando vita ad un’opera molto coerente e molto salda nei suoi punti fermi, anche se sempre ricca di nuovi fermenti e innovazioni”. Non è un caso che la storia – artistica -di Alessandro Jasci sia un avvicendamento incalzante di metafore narrative, di intrusioni, di generose ispezioni. E di esperienze comunitarie e indipendenti all’interno delle quali le “modalità indiscrete” si fanno vincolo e orientamento dell’intero racconto. Un monumentale lavoro “autobiografico” quello svolto finora da Jasci, ricco di minuscole memorie, di appunti, di segnali offerti poi – in un fantastico incastro di tracce - come esito conclusivo; capitoli di un narrazione in cui l’occhio reticolato dell’artista – le sue mani, il cuore – sembra intercettare ogni minimo fremito del sogno. Perché in fondo è questo – il sogno – a sillabare il tempo del nostro autore: il sogno come colore percepibile, come poesia autentica, come scia ineffabile. La verità, forse, nelle parole di Gianni Schubert quando ad Alessandro Jasci riconosceva il primato di una “concettualità surreale”.
Brevi cenni biografici
Nato a Frisa nel 1946 è considerato come uno degli artisti più curiosi e intraprendenti della sua generazione. Ha partecipato attivamente al fermento culturale degli anni 70-80. Questo è il periodo in cui, oltre alla performance e alla fotografia, comincia a rappresentarsi nelle sue opere dormienti: “Sogni”. Unisce così la fotografia, il disegno e la pittura per raccontare “la biografia come arte”. Jasci ha studiato scultura all’Accademia di belle Arti di Firenze. La sua prima mostra è allestita a Torino nel 1970 presso la Galleria LP220. Nel 1975 si trasferisce a Roma dove insegna alla Scuola d’Arte e nel 1979 da vita alla pubblicazione di New Art, una innovativa rivista d’arte internazionale dove gli artisti potevano impaginare a piacimento lo spazio a loro disposizione. Nel 1989 teorizza Artmedia, un movimento artistico nato intorno al concetto di rilettura (e riflessione) della storia dell’arte. Nel 2011 è presente alla Biennale di Venezia (Padiglione Abruzzo) mentre nel 2013 completa la triologia delle opere più teatrali del suo lavoro: “Silenzioso navigatore di luce”, “The sculto does not know what sculpt” e “Il panorama del cibo contaminato”. In questo tempo recente Jasci ha concentrato il suo percorso artistico sulle grandi tematiche sociali (in particolare l’attuale vicenda pandemica) realizzando opere dove le immagini sagomate in lamiera e la carta geografica del mondo dipinta sul muro (che mutano di continuo ad ogni nuova opera) concorrono a sottolineare le mutazioni brusche e irreversibili in un tempo avverso.
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