La strage dei sopravvissuti

In via D'Amelio sono morti Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli. Ma c'è anche chi a quell'esplosione è sopravvissuto e si porta ancora dietro le ferite di quella strage.

La strage dei sopravvissuti
Antonino Vullo

C'è una strage che appartiene ai morti, i cui nomi vengono scanditi e ricordati ogni anno. C'è una strage che appartiene ai familiari delle vittime, che hanno visto le loro vite incagliarsi in una tragedia che avrebbe benissimo potuto riguardare qualcun altro. E poi c'è una strage dei vivi. O meglio, dei sopravvissuti. Perché ci sono esistenze che smettono di funzionare come dovrebbero.

È la strage di chi in quei giorni c'era, ma ne è uscito vivo. Di chi è stato sballottato in aria dal botto e ha respirato l'odore lancinante della morte. Di chi aveva addosso i pezzi del tritolo e si è dovuto far largo tra le fiamme e i brandelli di corpi fatti a pezzi dall'esplosione. È la strage di uomini che non saranno mai più se stessi.

La mia prima volta in via D'Amelio non la scorderò mai per un'infinità di motivi. Così come non scorderò le successive, perché sono pezzi di cuore che trovano un certo senso di pace, di comunione, e che si incastrano alla perfezione con tutto il resto. Ma ricordo che la prima volta rimasi colpita da un uomo coi capelli brizzolati e lo sguardo un po' assente che si aggirava per quella via. Il viso stanco, i muscoli contratti, l'irrequietezza di chi non riesce a star fermo.

Aveva lo sguardo provato, come un po' tutti d'altronde. Ma nei suoi occhi c'era qualcosa di diverso, qualcosa che solo lui custodiva dentro da tanti anni e che nessuno potrà mai capire fino in fondo. Quell'uomo era Antonino Vullo, l'unico degli agenti sopravvissuti alla strage di via D'Amelio. 

È una di quelle persone che vedi e vorresti subito abbracciare, perché ci sono stati d'animo che non si possono dire a parole, sensazioni che deviano da qualsiasi campo semantico e che si possono afferrare solo se vissute direttamente. 

Antonino Vullo c'era quel giorno in via D'Amelio, alle 16.58. I suoi occhi hanno visto tutto, sono stati all'inferno e poi l'hanno riportato indietro. Antonino Vullo ha sentito l'esplosione, il calore di quel boato sulla pelle, le schegge che schizzavano via squarciando l'aria calda di una domenica pomeriggio qualsiasi. Ha camminato sulle macerie, calpestato i resti dei suoi compagni, ha visto la morte passargli accanto in un delirio infernale e maledetto.

La sua vita è caduta in frantumi quel giorno e lui ha passato tutti i giorni seguenti a rimettere insieme i cocci e a riparare una ferita che non si potrà mai rimarginare.

Antonino Vullo è un sopravvissuto, un eroe dimenticato. Un nome che nelle celebrazioni ufficiali ci si scorda di pronunciare. Non sta scritto su una lapide e questo a volte sembra quasi una colpa, una sorta di difetto che nessuno si sognerebbe di chiamare tale. Antonino Vullo fa parte di quegli eroi silenziosi che non vogliono essere chiamati eroi. Che si aggirano nella vita con un grosso buco dentro e sanno che non esiste nulla al mondo che possa davvero colmarlo.

Per loro c'è stato un "dopo", un'esistenza che ai loro colleghi morti è stata negata. Ma, in quel dopo, noi non siamo stati in grado di dare abbastanza. 

Non sono morti, ma le loro vite non sono state più le stesse. Si sono inceppate, sono state sbalzate, scombussolate, marchiate per sempre. Sono i vivi che dovremmo custodire con cura e premura, perché loro per noi hanno rischiato di morire. 

Non sono sopravvissuti di guerra, o almeno non solo. In una guerra i nemici li distingui dal colore delle divise e, invece, nel 1992 non c'erano solo i mafiosi ad aspettare Paolo Borsellino e i suoi agenti in via D'Amelio. Altrimenti come spiegheremmo i depistaggi, il furto dell'agenda rossa, l'operazione Scarantino, le strane presenze dei servizi segreti, le attenzioni "particolari" riservate ai familiari del giudice negli anni successivi alla strage, il comportamento ambiguo di La Barbera, la misteriosa presenza esterna a Cosa nostra nei giorni in cui si preparava l'esplosivo, tutte le bugie, le contraddizioni, i "non ricordo", le mezze verità, gli imbarazzi istituzionali?

Più passano gli anni, più emergono stracci di verità e più la convinzione che quella di via D'Amelio non sia stata una strage (solo) di mafia si rinsalda.

Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli sono morti anche perché lo Stato non è stato in grado di rimuovere le auto parcheggiate in una strada che era abitualmente frequentata dal giudice. Uno Stato che non è "stato" in grado di proteggere i suoi uomini migliori. 

Antonino Vullo è sopravvissuto, ma sarebbe potuto essere anche lui un nome intagliato nel marmo di una lapide. Tutto ciò non va dimenticato. La memoria ha un senso solo se coltivata e se non ha paura delle verità più scomode. 

C'è una strage che è quella dei sopravvissuti, di quegli uomini silenziosi che si portano dentro tutto e il cui sguardo fa bene all'anima, perché ci restituisce il senso di quello che cerchiamo e per cui lottiamo. E anche di un certo grado di umanità, che sembra sempre più spesso merce rara. 

Negli occhi di Antonino Vullo dovrebbero guardarci tutti quelli che sanno così poco di questa strage. Darebbero loro la forza di scavare, approfondire, tuffarsi a capofitto in una battaglia che è di tutti.

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