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Siamo nati con un grosso buco dentro

by Serena Verrecchia
12 Agosto 2020
in Stragi di Ieri e di Oggi
Reading Time: 5 mins read
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Siamo nati con un grosso buco dentro. Una voragine, di quelle che a guardarle da vicino sgomentano, terrorizzano e abbruttiscono anche i sentimenti più belli. Quel buco si chiama guerra civile. O nazifascismo, che è sinonimo di obbrobrio, scempio, oscenità, vergogna.

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Più passano gli anni e più mettiamo del tempo bianco tra noi e la guerra, una grossa garza grassa che attutisca la deflagrazione insopportabile del dolore. Più passano gli anni e più i ricordi si ingialliscono, macerano sotto il peso del negazionismo travestito da opinione e vengono lasciati ad impolverare mentre tutt'intorno rigurgiti nostalgici vorrebbero riscrivere la storia. È un Paese che non ha mai imparato dal dolore, il nostro. Ha sofferto, lacerato e malconcio, ma ha finito per nascondere sempre la ferita piuttosto che curarla alla radice.

Il guaio è che alcune piaghe non si possono rimarginare. La nostra Repubblica è figlia di un enorme lutto, di una tragedia nera che ne ha sforacchiato le viscere, segnato per sempre il destino. E in quel crepaccio vertiginoso e cupo ci sono scritte le nostre informazioni genetiche, tutto il materiale ereditario che la guerra e le sue madornali storture ci hanno lasciato.

Il 12 agosto 1944 a Sant'Anna di Stazzema, un paesino con poche centinaia di abitanti sulla sponda meridionale delle Alpi Apuane, si è consumato uno dei peggiori eccidi della storia d'Italia: cinquecentosessanta persone ammazzate, perlopiù donne, bambini e anziani, senza nessuna reale ragione. Ammesso che la guerra ne abbia una. Nell'estate del 1944, dopo la liberazione di Roma, la Wehrmacht cercava di arginare l'avanzata degli Alleati. Hitler aveva ordinato di sgombrare da civili tutti i territori che rientravano nei 10 chilometri a sud e a nord della Linea Gotica. Sant'Anna di Stazzema era stata segnata come “zona bianca”, buona per ammassarci sfollati dai paesini a valle. Così, da quattrocento abitanti si raggiunse quota mille. Non vi fu nessuna azione partigiana di rilievo in quelle settimane e parimenti nessun ordine ai civili di abbandonare le proprie abitazioni, nessun sentore di rappresaglie, né di attacchi immediati. Il boato della guerra si avvertiva, ma a 600 metri da terra, su un'altura difficilmente raggiungibile dai mezzi corazzati e dagli squadroni nazifascisti, la catastrofe sembrava lontana, inattuabile.

Eppure, all'alba del 12 agosto, i tedeschi circondarono il paese. Gli uomini si nascosero nei boschi, convinti che i soldati non avrebbero toccato donne inermi, bambini innocenti e anziani. E invece la guerra non conosce vergogna. Semplicemente travolge tutto con la sua furia devastatrice, folle. Gli uomini delle SS rastrellarono la popolazione civile. Ammassarono la gente contro un muro e vi scaricarono addosso i colpi delle mitraglie. Incendiarono e devastarono case e stalle, stanarono cittadini inermi dalle loro abitazioni, li uccisero prima che i loro occhi potessero metabolizzare la morte, il terrore.

Una strage. Uno strazio. Tra i peggiori che si possano raccontare nella storia d'Italia.

Don Giuseppe Evangelisti ci ha lasciato un ricordo di quel giorno di sangue, quando gli uomini rientrarono e trovarono le proprie famiglie distrutte, spezzate per sempre: “la scena che maggiormente dava sgomento era quella della piazza della chiesa: una massa di cadaveri al centro, con la carne quasi ancora friggente; da una parte il corpo di un bimbo sui tre anni, tutto gonfio e screpolato dal fuoco, con le braccia irrigidite e sollevate come per chiedere aiuto, ed intorno lo scenario delle case che mandavano ancora nell’aria bagliori e scoppiettii, la chiesa con la porta spalancata, lasciava vedere un grande braciere al di dentro, fatto con le panche e i mobili, e nell’aria il solito fetore di carne arrostita che levava quasi il respiro e che si espandeva a tutta la vallata”.

Centotrenta bambini e la vittima più piccola che aveva appena venti giorni.

Ci sono voluti decenni per individuare e condannare i colpevoli. Sessantuno anni per ottenere i primi ergastoli in un processo celebrato davanti ai giudici del Tribunale militare di La Spezia.
Nel 1994, venne aperto per la prima volta il cosiddetto “armadio della vergogna”, in cui giacevano dimenticate le carte che documentavano i crimini di nazisti e fascisti durante la guerra.

Un vergognoso oblio che aveva coperto e lasciato impuniti gli artefici di tanti orrori perpetrati nel nostro Paese. Ci sono voluti altri dieci anni per portare la questione nelle aule di giustizia. Il procuratore Marco De Paolis è stato il primo a mettere sotto processo ex militari tedeschi per i fatti di Sant'Anna, di Marzabotto, di Padule di Fucecchio, di Fivizzano e altri ancora.

Nel 2005 è arrivata la condanna per dieci ex militari tedeschi – gli altri, nel frattempo, erano tutti morti beatamente nel proprio letto – ma nessuno di loro ha mai scontato la pena. Processati e condannati in Italia, i responsabili della strage sono rimasti liberi in Germania. Nel 2012, la Procura di Stoccarda ha archiviato l'indagine perché “non era più possibile stabilire il numero esatto delle vittime e la volontà effettiva dei carnefici”.

Nessuna pena per i tedeschi e nessuna condanna per gli italiani, che pure collaborarono alla strage. Furono proprio collaborazionisti e fascisti a condurre gli alleati nazisti lungo le alture di Sant'Anna. I superstiti ricordano chiaramente le loro voci, i dialetti così famigliari. Ma neppure loro hanno mai avuto un nome né un volto.

Una vergogna che rimbalza sugli scudi ammaccati della memoria, che annacqua ogni possibile giustificazione su 76 anni di silenzio, oblio, imbarazzo, scandalo.

Cinquecentosessanta vittime e non uno che abbia pagato con un solo giorno di carcere.
Siamo nati con un grosso buco dentro e non siamo stati neppure capaci di riempirlo.

 

© Riproduzione vietata

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2020-08-12 19:51:31

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