La MAFIA agricola

LA MAFIA NELLA SOCIETÀ AGRARIA/10^ parte. Continua il nostro “viaggio” per raccontare, attraverso la documentazione, l’origine del male. Ogni venerdì, partendo da oggi, pubblicheremo i documenti ufficiali, per comprendere e conoscere un fenomeno criminale secolare, istituzionalizzato da uno Stato complice e connivente. «La mafia ha sempre cercato e si è con frequenza procurato all'interno dell'apparato statale, mediante il costante tentativo di stabilire con i suoi esponenti rapporti di connivenza o addirittura di collusione».

La MAFIA agricola

Le tre fasi della mafia.

L'indagine storica tentata nelle pagine precedenti dovrebbe aver messo in tutta evidenza come la mafia sia nata e si sia affermata, infiltrandosi in quelle zone del tessuto sociale, in cui il potere centrale dello Stato non era riuscito, nemmeno dopo l'avvento del regime democratico, a fare accettare la propria presenza dalle comunità locali e a realizzare un'opportuna coincidenza tra la sua morale e quella popolare.

In queste zone di franchigia delle istituzioni, in cui lo Stato ha saputo soltanto sovrapporre il proprio sistema a quello subculturale vigente, senza però riuscire a fonderli in un rapporto di stimolante unità, le azioni della mafia hanno sempre avuto lo scopo – come già dovrebbe risultare da quanto fin qui si è detto - di assicurare ai loro autori posizioni concrete di dominio.

Un'aspirazione questa, che è stata anzitutto agevolata proprio dall'assenza e dalla fragilità delle istituzioni politiche, ma che ha trovato ulteriore e spesso decisivo alimento nel sostegno, che la mafia ha sempre cercato e si è con frequenza procurato all'interno dell'apparato statale, mediante il costante tentativo di stabilire con i suoi esponenti rapporti di connivenza o addirittura di collusione.

Si può dire che due sono gli scopi principali della mafia, quello di sostituire al comando della legge la forza del potere mafioso, ricorrendo in caso di necessità all'uso dell'intimidazione e della violenza, e quello di neutralizzare il potere formale e di piegarlo, nei limiti del possibile, ad assecondare i suoi privilegi.

In effetti, se la mafia si caratterizza come un potere informale, sono proprio i suoi rapporti col potere pubblico e, in termini concreti, con i suoi titolari a costituirne l'aspetto più rilevante e al tempo stesso più inquietante.

Ciò è tanto vero che l'opinione pubblica, con l'istintiva sensibilità che la guida nella valutazione di quei fenomeni sociali che possono mettere in pericolo la sicurezza e la tranquilla convivenza della collettività, avverte chiaramente come il nodo da sciogliere, per avviare a soluzione un problema angoscioso come è quello della mafia, si trovi appunto negli atteggiamenti che la mafia ha assunto, nel corso del tempo, di fronte ai pubblici poteri e più in particolare nell'intreccio di relazioni e di legami che essa ha stabilito (o ha cercato di stabilire) con gli uomini della politica e dell'apparato pubblico, a livello nazionale e locale.

Ben convinta di questa verità, la Commissione ha sempre avvertito come fosse suo compito principale quello di indagare sui (possibili) rapporti tra mafia e pubblici poteri, e ciò non per individuare e perseguire (eventuali) responsabilità personali, ma per stimolare, con indicazioni di carattere politico e con la formulazione di opportune proposte, le reazioni vitali delle istituzioni e della stessa comunità.

In questo quadro e con queste prospettive, la Commissione, nei lunghi anni della sua attività, ha cercato di far luce sul comportamento tenuto, nei tempi recenti, dai pubblici poteri nei confronti dei mafiosi; e ciò ha fatto, portando il suo esame da un lato sui (possibili) legami tra la mafia e il mondo della politica e dall'altro sul grado di resistenza alle infiltrazioni mafiose di singoli settori dell'apparato amministrativo e burocratico.

Tra questi settori, hanno formato oggetto di uno specifico esame quelli relativi alle strutture scolastiche, all'attività degli istituti bancari, all'amministrazione della giustizia, e infine alla gestione degli Enti locali, Regione, Province e Comuni.

La Commissione inoltre ha fermato la sua attenzione sulle vicende di un gruppo di personaggi mafiosi, allo scopo non certo di illustrarne le gesta delittuose, quanto di individuare i sistemi, le modalità e i motivi (sociali e individuali) dell'azione mafiosa, ed anche di identificare le connivenze e le (eventuali) complicità che ne hanno permesso il successo.

Le indagini svolte nelle varie direzioni ora indicate hanno dimostrato con assoluta chiarezza che le interferenze della mafia col potere pubblico sono state frequenti e preoccupanti, tanto che la Commissione ha ritenuto di fare esplicita menzione di taluni aspetti più significativi del fenomeno già nelle relazioni settoriali pubblicate nel corso della sua attività.

Giunta ora al termine dei propri lavori, la Commissione si propone di riannodare in un discorso unitario le fila della ricerca compiuta nella maturata consapevolezza che occorre penetrare a fondo l'universo inquietante dei rapporti tra mafia e poteri pubblici, per poter comprendere, in tutte le sue implicazioni, il fenomeno, che tormenta da lustri le regioni della Sicilia occidentale, e per tentare al riguardo una terapia che sia finalmente efficace.

Ma appunto perché il discorso risulti unitario, non è opportuno frazionarlo nei rivoli di un'esposizione settoriale, ciò tanto più che, così facendo, si correrebbe il rischio di dare una immagine, in parte almeno infedele e non attuale, delle situazioni e dei rapporti che la Commissione intende portare all'attenzione del Parlamento e dell'opinione pubblica.

È innegabile infatti che nel corso di questi anni la mafia è andata modificando sia pure in misura limitata, il modo e le forme mediante cui ricercare e procurarsi opportuni agganci con gli esponenti del mondo politico e con i titolari dei pubblici poteri.

La profonda trasformazione che ha subito nell'ultimo trentennio la società nazionale si è ovviamente ripercossa anche sulla mafia, e nel nuovo contesto sociale il potere mafioso non ha più la struttura, l'intensità e le ramificazioni che aveva una volta; con riferimento agli anni seguenti alla liberazione, la pubblicistica parla di fasi diverse, o di ondate successive della mafia, proprio per mettere in evidenza come il fenomeno abbia sempre cercato di adeguarsi ai mutamenti delle strutture socio-economiche delle regioni in cui si era affermato.

Prodotto di un determinato tipo di società, la mafia o, più concretamente, i mafiosi sono riusciti a sopravvivere alla sua fine, ma per farlo hanno dovuto aggiustare opportunamente il tiro dei loro interventi, senza che sull'altro versante lo Stato sia finora riuscito ad opporre una valida, insuperabile barriera alle loro illecite iniziative.

Almeno di norma il potere mafioso non ha più, ai tempi d'oggi, gli stessi connotati che aveva nel chiuso della società agricola siciliana, ed è perciò naturale che siano correlativamente cambiati i suoi rapporti con i pubblici poteri.

Per individuare gli atteggiamenti e le espressioni attuali di questi rapporti, è quindi indispensabile - piuttosto che esporre i risultati della ricerca compiuta in relazione al mondo della politica e ai singoli settori dell'apparato statale - seguire l'evoluzione che ha avuto la mafia, in coincidenza con le trasformazioni sociali, che hanno contrassegnato la vita della Nazione nell'ultimo trentennio.

Con questo, però, non si intende continuare l'indagine sulla genesi del fenomeno che si è cercato di svolgere nei paragrafi precedenti; come già si è avuto modo di accennare, infatti, quella ricerca aveva lo scopo limitato di studiare le origini, e cioè le cause lontane e prossime del fenomeno mafioso, e di identificare a un tempo la fisionomia che gli era propria sul momento in cui nacque ed in quello nel quale rinnovò il suo impianto all'indomani della liberazione della Sicilia da parte delle truppe alleate.

Una volta che questo compito è stato adempiuto, si tratta ora - in armonia, del resto, con le finalità che la legge istitutiva ha assegnato alla Commissione - di ricercare e mettere in evidenza le caratteristiche della mafia, quali sono attualmente; e se si conviene (come pare innegabile) che la mafia si qualifica come un potere informale, non vi è altra prospettiva che quella di studiarne le posizioni di dominio raggiunte, o ricercate di volta in volta, nel contesto della società, e quindi in rapporto ai titolari del potere formale, per avere un quadro del fenomeno, illuminante ed esauriente ai fini che interessano.

Il potere dello Stato e quello mafioso sono tra loro in una posizione, se così si può dire, di reciprocità, nel senso che quanto più diventa effettiva nell'ambiente la presenza del primo, tanto più si riduce la reale vigenza del secondo.

D'altra parte, le dimensioni concrete di questi mutamenti (o più in generale delle modificazioni che hanno subito nel tempo l'uno e l'altro potere) non possono misurarsi, se non col metodo delle reazioni dell'ambiente sociale, o più precisamente col grado di accettazione da parte delle popolazioni interessate del legittimo potere dello Stato o di quello informale della mafia.

Ecco dunque un'altra ragione, anche più consistente e sostanziale di quelle prima indicate, per procedere ad un'analisi dell'evoluzione che hanno avuto i rapporti tra la mafia e l'apparato pubblico nel più ampio contesto delle trasformazioni che ha subito la società in Sicilia e nel Paese dagli anni quaranta in poi.

In pratica, si tratta di ricostruire le manifestazioni mafiose lungo l'arco di tre fasi distinte, rispettivamente legato al mondo agricolo, all'urbanesimo e all'industrializzazione ed infine all'esportazione in zone diverse da quelle tradizionali, se non della mafia, certamente di taluni moduli operativi che sono stati caratteristici di questa e di taluni suoi esponenti particolarmente rappresentativi.

Naturalmente alla tripartizione non corrisponde, in modo altrettanto netto, una successione cronologica delle tre fasi in quanto la realtà registra tuttora una sostanziale coesistenza dei diversi tipi di mafia. Si può dire anzi che in ogni tempo il fenomeno mafioso ha messo in evidenza una specie di caratteristico polimorfismo (o pluralismo) nel senso che si è sempre manifestato attraverso la coesistenza di forme che, pure innestate in una mentalità comune, sono tuttavia diverse tra loro, tanto da rendere necessario - e il discorso è perciò importante ai fini delle proposte - un trattamento terapeutico differenziato.

Così, ad esempio, non si può negare che le attività delinquenziali, da affrontare in termini di politica criminale, sono qualcosa di ben distinto da quelle attività, che senza sconfinare nell'illecito penale, si qualificano tradizionalmente come espressione della cosiddetta alta mafia e si caratterizzano, in particolare, per i rapporti che ne derivano con l'apparato pubblico dello Stato.

La distinzione comunque è ugualmente importante perché serve a sottolineare la progressiva evoluzione del fenomeno e a mettere in evidenza, insieme con questa sua duttile capacità di adeguamento alle modificazioni strutturali della società e col suo polimorfismo, che già ne rappresentano le caratteristiche più significative, il sostanziale fallimento, nella lotta contro la mafia, non solo degli interventi repressivi dello Stato ma anche del tentativo di debellarla attraverso un piano organico di riforme sociali, in primo luogo mediante lo scorporo del latifondo.

La rovina del mondo feudale o semifeudale, in cui la mafia era nata, non è servita a suggellarne la fine, anche se forse è riuscita ad attenuarne la forza di penetrazione nella coscienza e correlativamente il grado di accettazione del suo potere da parte dell'ambiente, ed anche se molto dell'insuccesso è dovuto al fatto che la riforma agraria è stata attuata, come poi si vedrà, in maniera distorta e incompiuta.

La constatazione, ad ogni modo, suggerisce la necessità di ricercare, non soltanto nei rapporti con un certo tipo di strutture sociali, ma anche altrove, l'elemento di vitalità della mafia; per scoprirlo, e per individuare così, con la costante del fenomeno, la sua caratteristica di fondo, non può esservi altra via che quella di seguirne l'evoluzione nel contesto sociale dell'Italia del dopoguerra, ma da un angolo visuale che tenga conto preminente, insieme ai rapporti socio-economici, delle relazioni tra il potere mafioso, il mondo della politica e più in generale l'apparato pubblico.

La società agricola siciliana.

La prima fase è quella della mafia agricola. Al momento dello sbarco alleato in Sicilia, le strutture economiche delle zone occidentali dell'Isola non erano gran che cambiate rispetto a quelle dei tempi in cui nacque la mafia e il fenomeno perciò tornò a inserirsi nel contesto ambientale con caratteri sostanzialmente simili a quello d'origine. La ricerca storica ha messo in evidenza i tratti fondamentali di questi caratteri, ma per apprezzarli in tutti i loro contorni occorre ora approfondire l'indagine sulle specifiche manifestazioni dell'attività mafiosa e sui nessi che la collegano in questo periodo con le forze produttive della società e con i rappresentanti del potere formale.

Nel 1946, come già si è in precedenza accennato, il latifondo in Sicilia aveva una estensione pari al 27,3 per cento dell'intera proprietà fondiaria isolana, raggiungendo così una percentuale superiore di quasi dieci punti alla media nazionale, calcolata in quello stesso periodo nel 17,7 per cento.

Più precisamente, e sempre secondo la rilevazione statistica del 1946, le proprietà che avevano una superficie tra i 200 e i 500 ettari rappresentavano il 1,2 per cento del totale, quelle comprese tra i 500 e i 1.000 ettari il 7,4 per cento, mentre i fondi con oltre 1.001 ettari di superficie raggiungevano la percentuale dell'8,7 per cento.

Nella realtà, peraltro, il latifondo era molto più esteso di quanto risultava dalle stime ufficiali, perché molti proprietari terrieri avevano spesso i loro fondi ubicati in comuni e anche in province diverse; con la conseguenza che il raggruppamento di tutte queste aziende, le quali invece venivano considerate separatamente, avrebbero elevato di parecchio il totale complessivo della proprietà a carattere latifondistico.

L'accennata struttura dell'agricoltura siciliana nell'immediato dopoguerra pesava, in modo rilevante, sulla sua resa, in quanto il latifondo finiva con l'essere sinonimo di colture estensive, di pochi investimenti fondiari, di una sostanziale precarietà dei rapporti con la manodopera, tale da scoraggiare l'interesse dei contadini alla conduzione della terra e da impedire che il loro lavoro desse frutti apprezzabili.

Inoltre, dal punto di vista delle zone agrarie, il 29,7 per cento del totale era rappresentato, specie nelle province di Palermo e di Messina, da zone di montagne, in cui predominavano colture povere, a cereali e a pascolo; a loro volta le zone di collina raggiungevano il 55,9 per cento, mentre quelle di pianura, ubicate nelle province di Agrigento, di Trapani e di Siracusa, superavano di poco il 14 per cento. Anche in queste zone, le colture prevalenti erano quelle a cereali o a foraggio.

Solo nelle campagne irrigue, che si estendevano per una superfice non rilevante, fiorivano colture più ricche, agrumeti, oliveti e mandorleti. Si spiega, con queste circostanze e con la struttura latifondistica della proprietà, il fatto che alla fine della seconda guerra mondiale l'agricoltura siciliana aveva accresciuto di poco la propria produzione rispetto ai primi anni del secolo. In effetti, fino agli anni cinquanta, le trasformazioni culturali erano state assai limitate, mentre la popolazione agricola era rimasta nel complesso stabile; l'agricoltura quindi non aveva fatto grandi progressi, tanto che nell'arco di tempo compreso tra il 1913 e il 1916 la produzione era aumentata solo del 62 per cento, comunque in misura non di molto superiore, passando dai 710 milioni del 1913 ai 450 miliardi dell'ultimo anno considerato.

Per di più, mentre nel 1913 i frutti della terra andavano a remunerare quasi per intero la proprietà e di lavoro, nei tempi successivi una quota notevole del prodotto è stata annualmente impiegata per pagare beni e servizi ricevuti da altri sentori, come aiuti parassitaci, sementi selezioniate, noleggio di macchine, eccetera, con l'effetto di ridurre proporzionalmente il reale incremento dell'agricoltura siciliana in termini di reddito netto.

La scarsa produttività delle risorse agrarie in una regione in cui mancavano (in quell'epoca) altre fonti rilevanti di ricchezza, ancora negli anni quaranta costituiva la causa principale dell'estrema miseria in cui vivevano le popolazioni contadine siciliane, specie nelle regioni occidentali dell'Isola.

Queste infatti erano le più povere (anche se non in senso assoluto), in quanto nelle province orientali era più diffusa la coltivazione di prodotti agricoli di maggior pregio ed era molto più estesa la superficie dei terreni a conduzione diretta, che davano, in termini unitari, un reddito economico abbastanza elevato. Naturalmente, anche nelle province occidentale, esistevano proprietà frazionate e con ricche colture, come ad esempio i vigneti di Trapani e gli agrumeti di Palermo; per la maggior parte, però, le terre e quelle zone o erano incolte, o davano redditi esigui; ciò soprattutto perché era molto estesa, nelle province occidentali dell'Isola, la superficie di fondi non coltivati direttamente dai proprietari, ma dati in affitto a terzi, e spesso a persone diverse dai contadini che vi avrebbero lavorato con le proprie famiglie.

Ancora nel 1948, infatti, secondo le stime dell'inchiesta Medici sui tipi di impresa in Sicilia, la superficie dei terreni concessi in affitto raggiungeva complessivamente i 556 mila ettari, un'estensione tale da fare intendere come fosse particolarmente accentuato, negli anni immediatamente successivi all'occupazione alleata, il fenomeno della dissociazione tra la proprietà e l'impresa.

La situazione denunciava, peraltro, con chiarezza, l'assenteismo dei proprietari ed era aggravata dal fatto che per lo più le terre venivano date in fitto non a coltivatori diretti ma a agricoltori-imprenditori, i gabellotti, che in pieno secolo ventesimo perpetuavano in Sicilia le condizioni d'arretratezza e di ostacolo allo sviluppo sociale che avevano caratterizzato il mondo feudale.

Come ai tempi del feudalesimo, i latifondisti della Sicilia occidentale vivevano quasi sempre nei centri urbani dell'Isola o dell'Italia meridionale, si disinteressavano della coltivazione delle terre e quasi se ne spogliavano, affidandole in gabella, spesso a condizioni rovinose, ai personaggi più in vista e con meno scrupoli delle singole zone.

Ancora nell'immediato dopoguerra, i proprietari terrieri continuavano ad accontentarsi, come una volta i baroni, di un ossequio puramente formale e di ciò approfittavano i gabellotti, ottenendo condizioni contrattuali particolarmente vantaggiose col solo impegno di tenere a freno le masse contadine e di ostacolare le loro rivendicazioni. Forti di questa posizione di privilegio, i gabellotti amministravano come volevano la terra presa in fitto, la dividevano in lotti e la subaffittavano ai contadini, spesso a condizioni vessatorie, oppure la coltivavano tramite altre persone, valendosi del lavoro bracciantile.

Fu in questo contesto sociale che, nell'immediato dopoguerra, la mafia riacquistò rinnovato vigore. Nelle sue lettere, Pasquale Villari, aveva collegato il fenomeno della mafia alla mancata coincidenza nelle stesse persone delle due figure del proprietario e del coltivatore.

Seconda la sua opinione, che è largamente condivisa da tutti gli studiosi, la mafia aveva trovato il suo terreno di cultura nel sistema dei contratti agrari imposti ai contadini dagli affittuari dei grandi proprietari, e cioè dai gabellotti. «Quando i contratti agrari» scriveva Villari «assicurassero al contadino, con una maggiore indipendenza, un'equa retribuzione e lo ponessero in relazione amichevole col proprietario il guadagno della mafia e con esso la sua potenza e la sua ragione di essere sarebbero distrutti».

La profezia di Villari non si è purtroppo verificata, perché nel corso degli ultimi anni le condizioni dei patti agrari in Sicilia sono profondamente mutate, ma la mafia non è scomparsa, anche se almeno in parte ha cambiato volto. Ciò non toglie tuttavia che il parere di Villari sulle origini (sociali) del fenomeno resta sostanzialmente valido, sebbene sia proprio la sopravvivenza della mafia ai profondi mutamenti delle strutture socio-economiche a rendere necessaria (come poi si vedrà) un'opportuna integrazione di quella diagnosi.

In effetti, l'assenteismo dei proprietari da una parte e dall'altra la loro ostinata volontà a tenere i contadini lontani dalla terra crearono una classe intermedia, quella appunto dei gabellotti e dei loro accoliti (soprastanti, campieri, in genere guardie campestri), che fornì alla mafia i suoi adepti più numerosi e agguerriti.

Negli anni immediatamente successivi al 1943, questa classe, rinsaldando il suo antico potere, riuscì a formare come un muro fra i proprietari e i contadini e a esercitare in entrambe le direzioni la propria forza. L'interesse principale dei ceti dominanti, rappresentati dai proprietari terrieri, continuò ad essere anche nel dopoguerra quello di impedire l'accesso dei contadini alla terra; in cambio dell'aiuto che ottennero a questo fine da alcuni elementi degli strati sociali intermedi e inferiori della campagna, i proprietari si rassegnarono a lasciare loro mano libera, anche a costo di vedere compromessi o contratti i propri guadagni.

Da qui trasse nuova linfa la potenza dei gabellotti e con essa la potenza della mafia, che negli anni che seguirono l'occupazione alleata interessò, in forme diverse, le regioni occidentali della Sicilia, nei vari settori dell'agricoltura e perfino in quello della pastorizia.

Dovrebbe già risultare da quanto si è detto che in alcune zone dell'Isola, specialmente quelle montagnose dell'interno, la terra è particolarmente avara, così da permettere soltanto la pastorizia; ma anche qui il fenomeno mafioso ha avuto manifestazioni imponenti, colpendo il povero mondo dei pastori, con episodi di spietato sfruttamento e talvolta di sanguinosa ferocia. In queste zone, alcuni fattori particolari hanno reso obiettivamente più facile l'esercizio del potere mafioso: in primo luogo, la stessa arretratezza dell'economia locale, che per l'isolamento e la povertà dei terreni, rendeva difficili, se non impossibili, altre forme di attività produttive; poi le modalità dei sistemi di allevamento, che costringevano i pastori a vivere per lunghi periodi lontani dalla famiglia e dal mondo, in misere condizioni di vita, dimentichi della loro stessa dignità di uomini, infine le caratteristiche dei luoghi, tutti isolati e salinari, erano tali da garantire quasi sempre l'impunità agli autori di azioni delittuose, sia nel senso di permettere che esse fossero compiute fuori della vista di altre persone, sia nel senso di agevolare le lunghe latitanze.

Ma in questi territori come in quelli destinati all'agricoltura, invece che alla pastorizia, ciò che tornò a favorire un rinnovato impianto, in profondità e in estensione, del potere mafioso, fu la sua accettazione da parte dell'ambiente.

La strenua resistenza dei ceti dominanti alle rivendicazioni delle classi subalterne e alla loro pretesa di immettersi in un ciclo produttivo finalmente concepito in termini moderni fu causa di un accentuato immobilismo economico e indirettamente di una scarsa mobilità sociale e di una limitatissima estensione delle prospettive culturali.

 In una società del genere, che viveva quotidianamente il dramma della miseria e della disoccupazione, e che aveva possibilità culturali senza alternative, diveniva vivissima per il singolo la necessità obiettiva di una protezione.

L'incapacità delle strutture pubbliche di garantire, in misura accettabile, questa protezione ai cittadini e la mancata consapevolezza di prospettive culturali alternative a quelle proprie dell'ambiente spingevano la base sociale ad accettare passivamente le forme di oppressione connesse all'esercizio del potere mafioso, senza che vi fosse nemmeno bisogno di un ricorso diretto ed esplicito alla violenza.

Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976

 

Per approfondimenti:

Prima parte, venerdì 27 marzo 2020MAFIA, le origini remote

Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia

Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose

Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020I mafiosi

Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020Lo Stato di fronte alla mafia

Sesta parte, venerdì 1 maggio 2020: La MAFIA degli anni del dopoguerra

Settima parte, venerdì 8 maggio 2020La MAFIA a difesa del latifondo

Ottava parte, venerdì 16 maggio 2020: MAFIA: le vicende del separatismo

Nona parte, venerdì 22 maggio 2020: MAFIA e banditismo