MAFIA: le vicende del separatismo

LA PERICOLOSA ILLUSIONE/8^ parte. Continua il nostro “viaggio” per raccontare, attraverso la documentazione, l’origine del male. «La mafia, perciò, appena si rese conto che il Movimento per l'indipendenza della Sicilia non aveva ormai nessuna prospettiva per conquistare il potere dell'Isola, tornò ai suoi amori col personale politico dello Stato prefascista, con i vecchi notabili che si erano attestati sulle posizioni del partito liberale e dei gruppi di destra, monarchici e qualunquisti».

MAFIA: le vicende del separatismo
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Intanto il Movimento separatista continuava a svolgerle la sua propaganda e a fare proseliti anche tra gli umili, con la promessa di ardite riforme a vantaggio dei contadini e degli operai, tali da metterli su un piano di perfetta uguaglianza con tutte le altre classi sociali. Alcuni giornali, ma soprattutto volantini e fogli stampati alla macchia, diffondevano nella popolazione le tesi separatiste.

Il numero 1 di volantini dell'«Indipendenza» diffuso nella provincia di Catania, riassumeva i princìpi del Movimento nei punti seguenti:

«La Sicilia vuoi diventane - Repubblica libera e indipendente:

1) Perché il suo popolo vuole essere libero.

2) Perché essa è entrata a far parte dell'Italia dopo il tranello del 1860, onde la sua «italianità» è posticcia e comunque naufragata nel disastroso ottantennale periodo sperimentale.

3) Parche essa parla la lingua italiana per la stessa ragione per cui nel Belgio si parla francese, nel nord America inglese, nel sud America spagnolo.

4) Perché nessuna delle promesse fatte dall'Italia è stata mantenuta; anzi la Sicilia fu sempre tradita, oppressa, sfruttata e disprezzata.

5) Perché le risorse naturali e la laboriosità della sua gente sono tali da assicurare al popolo la prosperità e il benessere mai goduti.

6) Perché l'Italia ha calpestato ogni suo diritto e impedito che, accanto alla ricca agricoltura, sorgesse una gagliarda industria siciliana, come quella che si svilupperà nell'Isola nel dopoguerra.

7) Perché la Sicilia libera sarà il grande emporio economico del sud.

8) Perché la Sicilia indipendente rappresenterà la valvola di sicurezza per il mantenimento della pace nel Mediterraneo.

Perciò i siciliani sono ormai decisi a rinunciare alla vita, non all'Indipendenza».

Come si vede, alla base del Movimento palpitavano il ricordo di un nobile passato politico e culturale e l'acuto risentimento per il mancato adempimento del pubblico impegno preso da Garibaldi e da Vittorio Emanuele II di costituire il parlamento siciliano soppresso dai Borboni. Ma la pretesa secessionistica era giustificata dalla tendenziosa convinzione che il tessuto economico della Sicilia, una volta florido, fosse stato distrutto dagli ottanta anni di vita unitaria, col colpevole concorso delle responsabilità del potere centrale e il successo del Movimento era affidato alla pericolosa illusione che la Sicilia, una volta sottratta «allo sfruttamento coloniale» dell'Italia, avrebbe avuto finalmente la possibilità di organizzare convenientemente il proprio sviluppo economico e sociale.

Questi ideali venivano esaltati con messianico fervore, nei discorsi dei capi, in particolare da Finocchiaro Aprile e una speranza di rinnovamento circolava fra le masse. Ma nei fatti, come si è detto, il separatismo non tardò a rivelare il suo volto reazionario e conservatore.

Con l'aiuto massiccio della mafia, gli indipendentisti riuscirono a far fallire gli ammassi, i cosiddetti «granai del popolo» avvantaggiando così i grandi latifondisti e i contrabbandieri mafiosi.

Ben presto, inoltre, la difesa del feudo non fu soltanto lo scopo occulto del Movimento, ma divenne un obiettivo apertamente dichiarato, tanto che Lucio Tasca non esitava a proclamare: «Sia gloria al latifondo siciliano, grande riserva di ricchezza che i siciliani sapranno valorizzare il giorno in cui le risorse economiche della loro terra saranno impiegate nell'Isola». Anche nel memorandum inviato alla conferenza di S. Francisco nel marzo del 1945, i capi del separatismo si limitarono ad affermare a proposito dei problemi agrari che «non importa la questione della proprietà della terra, importa la fornitura di strumenti ai contadini».

Ciononostante, come già si è detto, almeno nei primi tempi, il separatismo riuscì ad ottenere successi non indifferenti, grazie anche all'aiuto materiale che ricevette dalle forze alleate. Ma gli alleati non potettero mantenere a lungo questo atteggiamento.

Il 13 ottobre 1943, il Governo italiano dichiarò guerra alla Germania, venendosi così a trovare in posizione di cobelligerante a fianco dell'Inghilterra e degli Stati Uniti. Pertanto, i governi delle due grandi potenze furono costretti a iniziare una manovra di sganciamento, non potendo evidentemente continuare ad alimentare l'equivoco separatista, col pericolo di dover poi partecipare ad una lotta civile nel territorio di una nazione amica. 

I separatisti tuttavia non disarmarono.

Malgrado gli aspri giudizi, che si levavano da tutte le parti contro gli indipendentisti, i loro capi organizzarono a Palermo il 16 e 17 aprile il secondo congresso nazionale del Movimento e inviarono alle delegazioni di governi che partecipavano alla conferenza internazionale di S. Francisco un memoriale in cui affermavano «la decisa risoluzione dei siciliani di organizzare la loro terra a Stato Sovrano e la volontà risoluta di raggiungere l'indipendenza anche, se occorresse, con le armi», e col quale invitavano le Nazioni Unite a «portare il loro esame sulla grave situazione esistente nell'Isola e decidere sulle sue sorti» e «a volere contribuire a risollevare l'oppressa nazione siciliana dall'intollerabile situazione nella quale malauguratamente versa».

Il documento, mentre suscitò vivissime reazioni nell'opinione pubblica nazionale, non ebbe in sede internazionale l'accoglienza sperata. L'Ambasciata inglese a Roma ribadì in una nota che erano del tutto destituite di fondamento le voci di un appoggio degli alleati al Movimento separatista, mentre dal canto suo il senatore americano Joseph Geoffry, membro della Commissione per le relazioni con l'estero, dichiarò esplicitamente: «la nostra posizione ufficiale è che non daremo il nostro appoggio a nessun movimento tendente al separatismo e alla suddivisione» e aggiunse che «l'atteggiamento assunto dai separatisti siciliani è considerato qui dannoso al bene della Sicilia, la cui storia sociale, economica, politica e culturale è inscindibilmente legata al resto dell'Italia; il Governo degli Stati Uniti ha più di una volta espresso il suo punto di vista sul Separatismo siciliano, che è considerato un movimento sovversivo diretto contro gli alleati, contro l'Italia e contro la Sicilia».

Infine, il 23 agosto, la Presidenza del Consiglio comunicò ufficialmente: «assunte informazioni all'Ambasciata americana, risulta al Governo degli Stati Uniti ed alla Conferenza che nessun memoriale siciliano od altro simile documento sia stato preso in considerazione alla Conferenza di S. Francisco, ne il fatto che in essa se n'è in alcuna misura discusso e neppure che alcuna delle delegazioni presenti abbia approvato le rivendicazioni separatiste o si sia fatta portavoce delle medesime».

Il Movimento indipendentista aveva perduto in breve volgere di tempo quelli che aveva creduto i suoi principali e più potenti alleati. Ma le sue forze andavano declinando anche per altre ragioni. Tra il 1943 e il 1947, i contadini si erano organizzati in un movimento senza precedenti per ampiezza e per forza, così da porre, in termini muovi, il problema della distribuzione delle terre così da scatenare quella sanguinosa e violenta reazione degli agrari, culminata nella strage di Porteria della Ginestra.

Nel frattempo peraltro tutti i partiti antifascisti (il democristiano, il comunista, il socialista, il partito d'azione, il liberale, il repubblicano) avevano organizzato le proprie file e avevano costituito in molte zone della Sicilia comitati interpartitici, che avevano come scopo principale proprio quello di apparsi, in uno spirito nazionale, all’impossibile pretesa di una divisione dell'Isola dal resto d'Italia.

Tutti i partiti però, se ribadirono fermamente, pur nella diversità delle ideologie e dei programmi politici, un sicuro impegno unitario, proposero nello istesso tempo una comune distanza di autonomia e di decentramento regionale, nella convinzione che il centralismo, specie quello esasperato dell'esperienza fascista, costituisse un fattore di freno allo sviluppo dell'Isola.

Fu in particolare la Democrazia cristiana che si attestò, prima ancora degli altri partiti, su posizioni autonomistiche, e che fece proprie le istanze e le rivendicazioni dei ceti medi delle città e delle campagne. L'insegnamento di Sturzo e le esperienze acquisite nei primi due decenni del secolo dal movimento cattolico, specie nella Sicilia orientale, spinsero i leader democristiani dell'Isola, da Scelba ad Aldisio, a impegnarsi in un ruolo di protagonisti nella battaglia di recupero, su posizioni di autonomia e di autogoverno, di quegli strati della piccola e media borghesia siciliana, che avevano aderito in buona fede e con sincerità di intenti al Movimento separatista.

L'alfiere di questa politica fu indubbiamente Aldisio, che nominato Alto commissario in Sicilia per conto del Governo nazionale, impostò e portò avanti un ampio programma di riforme e di Sviluppo democratico, non rifiutando tuttavia la ricerca di un compromesso con tutti i ceti, che potessero dare al nuovo assetto politico, che si andava delineando sul piano nazionale, una base di massa.

L'impegno autonomistico della Democrazia cristiana e degli altri partiti antifascisti portò il 15 maggio 1945, attraverso una serie di tappe faticose, all'istituzione della Regione siciliana.

Correlativamente, la vittoria autonomistica indebolì seriamente il movimento separatista, parche lo svuotò del suo contenuto, almeno in parte. La mafia, perciò, appena si rese conto che il Movimento per l'indipendenza della Sicilia non aveva ormai nessuna prospettiva per conquistare il potere dell'Isola, tornò ai suoi amori col personale politico dello Stato prefascista, con i vecchi notabili che si erano attestati sulle posizioni del partito liberale e dei gruppi di destra, monarchici e qualunquisti.

D'altra parte, le forze del blocco agrario non esitarono a tentare un ricatto nei confronti del partito che proprio in quel tempo emergeva alla direzione dalla Nazione e che era interessato, come si è visto, a conquistarsi il consenso dei ceti medi e della borghesia emergente. Lo spostamento delle preferenze e dei voti mafiosi che si verificò in qu esito periodo e negli anni immediatamente successivi non fu certo l'effetto di sollecitazioni o di collusioni, ma fu tuttavia la causa di una grave distorsione, perché insieme con altri fattori, d'importanza indubbiamente maggiore, concorse a piegare in altra direzione la politica di sviluppo democratico e d'impianto riformistico che era stata iniziata in Sicilia.

L'esempio più imponente di questo fenomeno si ebbe alla Regione siciliana, dove l'approvazione dello Statuto speciale, frutto di un'intesa di tutte le forze antifasciste, fu seguita, all'indomani della strage di Portella della Ginestra, dalla formazione di governi regionali appoggiati dallo schieramento liberale-qualunquista. E non è dubbio che fu appunto questa una delle ragioni che impedì alla vittoria autonomistica di porre un freno definitivo all'espansione mafiosa.

 

La costituzione della Regione.

La costituzione della Regione fu l'unica risposta valida alle tentazioni del Movimento separatista e insieme alle aspirazioni secolari di autogoverno del popolo siciliano.

Con la Regione, gli autonomisti si proponevano in via primaria la realizzazione di un'unità sostanziale, e non solo formale, col resto del Paese, ma anche la soluzione di un problema di costume, cercavano cioè, in una parola, di favorire un processo di ammodernamento della Sicilia attraverso l'autogoverno e quindi l'assunzione di una responsabilità diretta.

Nel programma delle forze politiche autonomiste, l'autogoverno veniva concepito come uno strumento d'autodisciplina diretto a far acquisire una rinnovata coscienza civica alle popolazioni siciliane e la vita regionale come una palestra di democrazia, che avrebbe dovuto dare uno slancio nuovo all'attività politica in Sicilia.

In questo quadro, era generale il proposito di combattere la mafia fin dall'inizio e fu assillante preoccupazione dell'Assemblea e del governo regionale impegnare la Regione nella lotta contro la mafia. «Si può anzi ben dire che uno dei fini che l'autonomia si riprometteva di raggiungere era quello di liberare definitivamente il popolo siciliano dal peso oppressivo della mafia.

Ma purtroppo i voti e le speranze di quei tempi fervidi d'entusiasmo e di rinnovamento non si realizzarono a pieno, anzitutto perché l'impianto e la gestione del nuovo istituto, rifiutando le alleanze e i consensi che ne avevano permesso la fondazione, offrirono nuovo spazio a un sistema di potere fondato sul clientelismo, sulla corruzione e sulla mafia.

Non è inoltre senza rilievo che la Regione si costituì nell'immediato dopoguerra in un momento ancora drammatico per la vita della Nazione e in particolare della Sicilia. Si è visto nei precedenti paragrafi, sia pure per sommi capi, quali fossero in quel tempo le condizioni dell'Isola. Tutto allora era da fare o da rifare e la Sicilia aggiungeva le piaghe del dopoguerra alla sua arretratezza secolare e alla carenza di tutte le strutture necessarie per assicurare alle popolazioni un normale tenore di vita, tanto che molti mancavano del lavoro e perfino d'indumenti e di cibo.

L'ordine pubblico inoltre era gravemente compromesso per la presenza di banditi e di fuorilegge che popolavano l'Isola e mai come allora la mafia era apparsa aggressiva e potente.

Perciò, anche se era impossibile fare altrimenti, in quanto un rinvio sarebbe stato forse fatale alle istanze autonomistiche dell'Isola, il momento era il meno adatto e le condizioni sociali e politiche dell'Isola e del Paese non erano certo favorevoli ad un normale ed ordinato sviluppo di un organismo delicato e del tutto nuovo per l'esperienza nazionale, quale era la Regione.

D'altra parte, lo Stato non si era dato ancora il suo assetto istituzionale e non ancora era stata eletta l'Assemblea che avrebbe elaborato la nuova Costituzione.

In quel tempo, infine, si andò molto diffondendo l'opinione, anche nei ceti dirigenti della Nazione, che l'autonomia regionale rappresentava il prezzo che lo Stato si era visto costretto a pagare per far rientrare nell'alveo della legalità la minacciosa protesta separatista.

Sembrò, in altri termini, che senza il separatismo lo Stato non avrebbe mai concesso l'autonomia e che essa perciò non fosse una legittima aspirazione del popolo siciliano, ma piuttosto una pretesa, che andava contenuta e ridimensionata, se non si voleva che ne restasse compromessa e intaccata l'unità nazionale.

Nacque di qui un'ostilità preconcetta degli organi statali nei confronti del nuovo organismo e fu una ostilità che, insieme alle altre circostanze prima indicate, pesò negativamente sul funzionamento dell'istituto regionale e, per certi aspetti, impedì che avesse effetto l'impegno unanime preso da tutte le forze politiche rappresentate nella Sala d'Ercole di lottare e sconfiggere la mafia.

Per di più, l'ostilità che caratterizzò almeno nei primi tempi l'azione dello Stato nei confronti della Regione si tradusse in una pesante diffidenza della Pubblica amministrazione per le iniziative prese dagli organi regionali, provocando interventi non sempre opportuni e suscitando pregiudizi e prevenzioni, che furono all'origine di molte disfunzioni anche in relazione al settore che qui interessa.

Tra l'altro, l'ostilità e la diffidenza dello Stato si manifestarono nel rifiuto tenace dell'amministrazione centrale di fornire alla Regione un nucleo modesto di funzionari che potesse aiutarla all'inizio del suo cammino faticoso; ciononostante che gli organi regionali non si stancassero di chiedere questo aiuto, che li mettesse in condizione di disporre di un corpo di funzionali esperti, che potessero far funzionare il nuovo organismo, in attesa ell'espletamento dei concorsi, che evitassero così i pericoli, che invece non fu possibile evitare, di un reclutamento affrettato senza le necessarie, opportune garanzie.

L'atteggiamento dello Stato finì con l'esasperare i sentimenti autonomistici delle forze politiche siciliane e le indusse alla ricerca di strumenti e di meccanismi che garantissero meglio alla Sicilia, attraverso l'accentuata latitudine dei poteri regionali, un'indipendenza effettiva rispetto al potere centrale. Lo Statuto perciò fu congegnato in modo da assicurare all'organismo regionale una somma di poteri particolarmente estesi, che col passare del tempo, e la crescita economica e sociale, avrebbe finito col trasformare la Regione in un mastodontico centro di potere.

Basta ricordare, per rendersene conto, che gli organi regionali furono dichiarati competenti a nominare gli amministratori d'una serie di enti, anche di primaria importanza, quali il Banco di Sicilia, la Cassa di Risparmio per le province siciliane, l'Istituto regionale finanziario industria siciliana (IRFIS), i Comitati del credito industriale, fondiario e minerale, il Fondo di promozione industriale, la Società finanziaria siciliana (So.Fi.S.), l'Ente siciliano per la promozione industriale (ESPI), l'Ente siciliano di elettricità (BSE), l'Ente zolfi Sicilia (EZI), l'Agenzia siciliana trasporti (AST), l'Ente minerario siciliano {EMS), l'Azienda asfalti siciliani (AZASI), l'Ente riforma agraria in Sicilia (ERAS), poi trasformato in Ente di sviluppo agricolo (ESA) e l'Ente siciliano case-ai (lavoratori (ESCAL).

Furono assegnati inoltre alla competenza della Regione l'istruttoria e in molti casi la autorizzazione di apertura degli sportelli bancari, le fideiussioni, i prefinanziamenti ai comuni, la conversione dei titoli nominativi in titoli al portatore, la concessione delle delegazioni esattoriali, dei contributi in capitale, in interessi e in mutui privilegiati alle cooperative edilizie, alle casse per già impiegati regionali e alle imprese industriali, l'acquisto di immobili, le municipalizzazioni delle linee di autotrasporti, l'acquisto di fondi rustici ai fini della riforma agraria e del rimboschimento.

La Regione infine ebbe il potere di nominare i membri delle Commissioni di controllo e del Consiglio di giustizia amministrativa, nonché i Commissari straordinari agli Enti locali e i Commissari delle cooperative agricole di lavoro, di produzione e di consumo.

Si trattava, come si vede, di una somma di poteri così estesa che la conquista del governo o anche la partecipazione alla maggioranza rappresentarono fin dall'inizio un traguardo decisivo per esercitare nell'Isola un'influenza effettiva.

Nacquero di qui gravi deviazioni nella politica regionale e un'abitudine tutta particolare agli incontri e alle alleanze più inverosimili e in genere alla pratica del compromesso e del trasformismo.

L'esempio più caratteristico di questo fenomeno si ebbe indubbiamente nel periodo di governo dell'onorevole Silvio Milazzo, allorquando i gruppi opposti dell'Assemblea si unirono in uno schieramento di collaborazione governativa, tentando di istituzionalizzare un accordo per tanti aspetti impossibile ed esasperando la tendenza, naturale in certi ambienti siciliani, al compromesso e alla ricerca del potere come fine.

In questo clima, ogni specie di accusa divenne possibile.

Si disse così che Milazzo si era procurato il voto di un consigliere, che gli assicurava la maggioranza, con la corruzione di alcuni assessori, indotti a dimettersi anche per l'intervento intimidatorio della mafia nei loro riguardi. Quale che sia la verità su questi episodi, non è dubbio che la vicenda, nel suo complesso, fu l'espressione di una grave degenerazione del costume politico, tale da rendere possibili pericolose infiltrazioni mafiose, e finì inoltre con l'avvilire, al di là certamente delle intenzioni dei suoi protagonisti, l'istituto stesso della Regione proprio perché coinvolse tutto lo schieramento dell'Assemblea regionale.

D'altra parte, l'ampiezza dei poteri concessi dallo Statuto agli organi della Regione e la discrezionalità spesso assoluta che ne caratterizzò l'esercizio, resero impossibile l'organizzazione di una burocrazia che potesse agire, con la difesa degli strumenti tecnici, al riparo delle pressioni politiche, ma anzi ne favorirono l'asservimento.

Ciò tanto più che - almeno nei primi tempi - la burocrazia, ancora giovane e priva di tradizione e reclutata in modi non sempre ineccepibili, non aveva la necessaria preparazione tecnico-amministrativa per poter esercitare le nuove delicate funzioni che la legge le assegnava.

Si è detto prima che lo Stato rifiutò con tenacia il trasferimento dei suoi funzionari al servizio della Regione determinando la necessità di assumere il personale per chiamata diretta e aprendo così il varco non solo all'immissione nei ruoli di persone non sempre all'altezza dei compiti che avrebbero dovuto svolgere, ma anche a una pratica, che avrebbe dato col tempo pessimi frutti, consentendo (come meglio si vedrà, quando il fenomeno sarà studiato più da vicino) l'infiltrazione negli organismi regionali di elementi mafiosi o vicini alla mafia.

Gli abusi che furono commessi fin dall'inizio in questo settore, ispirati spesso alla prassi manosa del favore personale, tolsero al nuovo istituto autorità e prestigio. La situazione fu inoltre aggravata dal clima di incertezza amministrativa e giuridica, conseguente al mancato coordinamento dello Statuto con la Costituzione della Repubblica e fu addirittura esasperata dalla quotidiana polemica fra l'amministrazione statale e il potere regionale.

L'analisi dell'attività amministrativa regionale, che è stata uno degli impegni più significativi della Commissione d'inchiesta e la cui esposizione troverà posto in altra parte di questa relazione, dovrà indicare i limiti dell'influenza che la mafia ha esercitato sull'apparato politico e burocratico della Regione nei trent'anni della sua vita. In questa sede di ricostruzione storica dell'impianto mafioso in Sicilia, è solo il caso di ricordare che più di una personalità, nelle dichiarazioni rese alla Commissione, ha parlato esplicitamente di infiltrazioni mafiose nella Regione o meglio di agganci tra il potere mafioso e il nuovo organismo, che pure era stato creato con la speranza e nell'intento comune di riscattare la Sicilia anche dalla oppressione che per decenni la mafia aveva esercitato sulle sue popolazioni.

Tra gli altri, il generale dei Carabinieri Forlenza ha specificamente accennato ad influenze mafiose nell'assunzione del personale e nel campo dell'edilizia, del credito e della scuola.

Senza entrare per ora nelle particolari vicende relative a questi settori, basta qui aggiungere che, per tutti i motivi che si sono prima esposti, la Regione fu fin dalle origini un organismo funzionalmente e politicamente debole e che, in una prospettiva storica, è proprio in questa circostanza che deve individuarsi uno dei fattori che contribuì nel dopoguerra a rinsaldare, in Sicilia, l’impianto del potere mafioso.

 

Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976

 

Per approfondimenti:

Prima parte, venerdì 27 marzo 2020MAFIA, le origini remote

Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia

Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose

Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020I mafiosi

Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020Lo Stato di fronte alla mafia

Sesta parte, venerdì 1 maggio 2020La MAFIA degli anni del dopoguerra

Settima parte, venerdì 8 maggio 2020: La MAFIA a difesa del latifondo