MAFIA e Banditismo

COMMISTIONI/9^ parte. Continua il nostro “viaggio” per raccontare, attraverso la documentazione, l’origine del male. «Furono d'altra parte proprio questi metodi a permettere a Gaspare Pisciotta di gridare nell'aula della Corte di Assise di Viterbo: «siamo un corpo solo, banditi, Polizia e mafia, come il padre, il figlio e lo spirito santo».

MAFIA e Banditismo

Messo alle corde sul piano politico, abbandonato dai potenti alleati di una volta, al separatismo, nella primavera del 1945, non restava altra via che quella dell'insurrezione armata. Pertanto, nel marzo del 1945, alcuni capi separatisti, anche se non i più prestigiosi, decisero di istituire un'organizzazione militare, l'EVIS (esercito volontario per 1’indipendenza della Sicilia) e ne affidarono il comando supremo al duca Guglielmo di Carcaci.

In quell'epoca peraltro nella Sicilia orientale erano già in opera, sempre nel nome del separatismo, alcuni raggruppamenti militarizzati al comando di Antonio Canepa, meglio noto col nome di battaglia di Mario Turri, palermitano di nascita, incaricato di storia dei trattati presso l'Istituto superiore di scienze economiche dell'Università di Catania. Canepa aveva iniziato a dare attuazione al disegno di organizzare nel catanese una vera e propria guerriglia, già dalla fine del 1944, impegnandosi con passione nella ricerca di giovani di sicura fede indipendentista, disposti ad arruolarsi nel suo piccolo esercito.

Quando fu costituito l'EVIS, i capi separatisti presero contatti con Canepa e lo nominarono colonnello dell'esercito indipendentista, affidandogli il compito dell'effettiva preparazione militare e della guida delle truppe.

Ma il 17 giugno 1945, Canepa fu ucciso dai Carabinieri in circostanze che sono rimaste avvolte nel mistero, tanto che la sua fine è stata anche attribuita alla reazione degli agrari, dato che Canepa, benché inserito nel Movimento separatista, cercava di portare avanti un discorso, che avrebbe potuto mettere in pericolo il sistema agrario sostanzialmente feudale, che ancora caratterizzava in quei tempi la società siciliana.

La morte di Canepa non impedì ai separatisti di perseverare nel loro disegno insurrezionale; essi anzi, per portarlo a termine, decisero di agganciare alcune bande di fuorilegge che allora operavano nell'Isola e in particolare quella di Rosario Avila, che terrorizzava le regioni orientali e soprattutto le zone di Niscemi e quella del più temibile Salvatore Giuliano, attestato con i suoi uomini nelle montagne attorno a Montelepre. In un suo rapporto del 18 febbraio 1946, il Ministro degli interni, il generale dei Carabinieri

Amedeo Branca scrisse che «l'idea di aggregare ad elementi di fede separatista malfattori comuni è una trovata di Lucio Tasca, capo autorevole del Movimento separatista e padre di Giuseppe Tasca, il quale, dimenticando che viviamo in pieno secolo ventesimo, ha sempre affermato in politica che tutti i movimenti politici in Sicilia hanno trovato saldo appoggio nel brigantaggio comune».

È d'altra parte storicamente accertato che furono i capi mafiosi a favorire gli incontri e gli accordi tra i separatisti e i banditi. Nessuno meglio della mafia doveva aver capito in quel tempo che la speranza dei separatisti di una vittoria sul piano politico era ormai diventata impossibile, ed è quindi naturale che essa abbia cercato di giocare l'ultima carta della strumentalizzazione del banditismo dilagante anche a fini politici, per la difesa degli interessi connessi al mantenimento della struttura latifondistica dall'agricoltura siciliana.

In un rapporto del 7 marzo 1946 dell'Ispettorato di Pubblica sicurezza si legge testualmente: «Trattandosi di realizzare il fine politico agognato (separazione della Sicilia dall'Italia, lotta contro il comunismo) una delle figure più eminenti era il cavaliere Calogero Vizzini, che aveva avuto il compito di reclutare gli elementi torbidi della delinquenza dell'Isola».

Fu appunto Vizzini, come risulta anche da altre fonti, che con la sua presenza e le sue garanzie di mediazione e di protezione, incoraggiò la decisione, presa dalla maggioranza dei capi separatisti, di ingaggiare i banditi, per continuare la lotta armata contro il potere dello Stato. Come già si è accennato, i capi più prestigiosi del Movimento e in particolare Antonio Varvaro, che ne guidava l'ala sinistra, non furono favorevoli alla suddetta iniziativa, convinti come erano che fosse preferibile continuare in una azione di persuasione delle masse popolari.

Senonchè il 3 ottobre 1945, per decisione del Governo Farri, Varvaro, Finocchiaro Aprile e l'avvocato Francesco Restuccia, un leader separatista di Messina, furono fermati e inviati al confino all'isola di Ponza. Allora gli altri capi separatisti, temendo un intervento governativo ancora più energico, abbandonarono ogni indugio e diedero un colpo di acceleratore alla manovra, che già avevano iniziato, di agganciare definitivamente Giuliano e di convertirlo alla causa separatista.

Il convegno conclusivo dei contatti inizialmente stabiliti tramite Pasquale Sciortino avvenne nella località di Ponte Sagana, a metà strada tra S. Giuseppe Jato e Montelepre, e si svolse a seguito dei preparativi e secondo le modalità che sono dettagliatamente descritte nel rapporto dell'Ispettorato di Pubblica sicurezza al Procuratore militare di Palermo: «Giuliano incaricò lo Sciortino e il Lombardo (Gaetano Lombardo, cugino di Giuliano) di invitare il barone La Motta, il duca di Carcaoi e Pietro Franzone di recarsi da lui al Ponte Sagana avendo bisogno di con ferire con loro. Essi si recarono infatti a Palermo in casa di La Motta, che trovarono in compagnia di Carcaci, Franzone, Concetto Gallo e dell'avvocato Sirio Rossi, intenti a studiare un piano tracciato su un foglio di carta, sul quale erano riportati alcuni punti strategici nei pressi di un fitto bosco in provincia di Catania, dove i capi della Gioventù rivoluzionaria per l'indipendenza della Sicilia avrebbero voluto tendere un'imboscata alle forze militari inviate eventualmente contro le formazioni separatiste. Ultimata la discussione, partirono tutti, ad eccezione dell'avvocato Rossi, a bordo dell'automobile Bianchi di proprietà dei La Motta, da lui stesso guidata, alla volta del Ponte Sagana.

Ivi attendeva il Giuliano, protetto, a breve distanza, dai suoi gregari bene armati. Si iniziò la discussione sui piani tattici da attuare per la conquista simultanea della Sicilia, mediante moti insurrezionali e Giuliano presentò il progetto di attaccare le zone di Montelepre, Borgetto, Partinico e località limitrofe, contemporaneamente ad altro attacco da effettuare dal Gallo nella Sicilia orientale, ciò che, secondo quegli strateghi da strapazzo, avrebbe disorientato ed annientato Polizia ed Esercito.

Sorsero divergenze fra Giuliano da una parte e Concetto Gallo e il duca di Carcaci dall'altra, pretendendo questi ultimi che Giuliano si spostasse in provincia di Catania per partecipare all'azione nella Sicilia orientale. Prevalse la volontà di Giuliano che non intese spostarsi dalla sua roccaforte di Montelepre. Giuliano ebbe altresì un finanziamento di lire 10 milioni per l'attuazione del suo piano ma il duca di Carcaci, il barone La Motta e il Gallo apparvero alquanto perplessi e indecisi.

Intervenne in loro ausilio il Franzone, suggerendo che si sarebbero potuti trarre i mezzi necessari con il sequestro a fine di estorsione idi persone facoltose, proposta bene accolta dal duca di Carcaci, dal Gallo e dal barone La Motta, il quale si offrì di designare chi convenisse sequestrare, scegliendo fra persone di sua conoscenza, ma il Giuliano rifiutò sdegnosamente.

Fu allora che il barone La Motta si impegnò a consegnare al bandito Giuliano la somma di un milione».

Dal momento in cui fu conclusa l'alleanza fra i separatisti e i banditi si ebbe una notevole recrudescenza di gravissimi delitti e frequentissimi divennero gli attentati e gli attacchi contro le forze di Polizia e in particolare contro i Carabinieri.

Uno dei più gravi di questi episodi fu certo quello accaduto il 16 ottobre 1945, quando il bandito Rosario Avila, anche lui agganciato dai separatisti, si appostò con altri banditi in contrada Apa, nei pressi di Niscemi, e attaccò una pattuglia di sette carabinieri, riuscendo ad ucciderne tre.

A distanza di pochi mesi dal fatto di Ponte Sagana, lo stesso Ispettore di Pubblica sicurezza riferì nel rapporto del 1946 che «la proposta fatta a Giuliano (dai separatisti) era stata attuata in pieno, a giudicare dal crescendo dei delitti di sequestro di persona, di estorsioni e di rapine».

La reazione delle forze dell'ordine comunque non si fece attendere e nelle prime ore del mattino del 29 dicembre 1945 forti contingenti di truppe, composti di reparti di fanteria e di Carabinieri, appoggiati dall'artiglieria e da cinque autoblinde, attaccarono a San Mauro le postazioni dell'esercito indipendentista, riuscendo ad averne la meglio dopo quasi due giorni di combattimenti.

Successivamente, in una serie di altri scontri, le forze residue dell'esercito separatista furono finalmente debellate e costrette a cessare definitivamente la propria attività nel marzo del 1946, dopo altri sei mesi di lotta armata.

Nello stesso periodo, i Carabinieri e la Polizia riuscirono ad eliminare o ad arrestare numerosi delinquenti e a sgominare alcune tra le bande più feroci che avevano insanguinato l'Isola. Il 17 marzo 1946 venne trovato ucciso il bandito Rosario Avola e fu appunto in quella primavera che il triste fenomeno del brigantaggio si avviò all'esaurimento tanto che alla fine dell'anno erano state denunciate 200 associazioni per delinquere, 1.176 banditi arrestati e 19 uccisi.

Ma nonostante l'impegno delle forze dell'ordine, il bandito più temibile e più prestigioso,

Salvatore Giuliano, non fu catturato, e per moliti anni ancora rimase a capo di una banda di fuorilegge decisi a tutto.

Nonostante la sconfitta dell'esercito separatista, gli eletti della zona di Montelepre, indubbiamente influenzati da Giuliano, continuarono ad appoggiare il Movimento indipendentista siciliano democratico repubblicano, che faceva capo ad Antonio Varvaro, che intanto il 3 maggio 1946 era stato liberato dal confino, insieme con gli altri capi separatisti. In particolare l'avvocato Varvaro ottenne un notevole successo personale alle elezioni regionali del 20 aprile 1947, ma sta di fatto che egli, oltre ad essere molto conosciuto nella zona, per esservi nato, aveva nettamente scisso a quell'epoca la propria posizione da quella dei separatisti agrari, mentre Giuliano dal canto suo non aveva ancora ceduto al ricatto degli agrari e degli interessati consigli di chi li rappresentava.

Questa naturalmente fu un'attività del tutto marginale rispetto alla spietata serie di delitti che Giuliano continuò a commettere, riuscendo ogni volta a sfuggire alle forze dell'ordine. Ed è proprio questa circostanza, al di là di episodi e di avvenimenti particolari, che ha indotto la Commissione a ritenere -come già si è detto nella relazione settoriale sui rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia - che almeno per i primi tempi, dopo lo scioglimento dell'esercito separatista, la mafia continuò ad impegnare le sue forze a difesa di Giuliano e della sua banda, ancora nella convinzione di potere in questo modo portare a termine i propri disegni circa il mantenimento dell'equilibrio economico e sociale allora esistente in Sicilia.

Se infatti la banda Giuliano riuscì a resistere da sola per così lungo tempo nella zona di Montelepre, tenendo in scacco le agguerrite forze di Polizia, che già avevano dato prova della loro efficacia, deve necessariamente concludersi che ciò avvenne per la compiacente copertura assicurata dalla mafia a Giuliano e anche per le mene a cui i capi mafiosi seppero ricorrere nei rapporti con le forze di Polizia.

Non si può infatti dimenticare che in quel periodo il capomafia Ignazio Miceli di Monreale tenne continui contatti con l'ispettore generale di Pubblica sicurezza Ciro Verdiani e che lo stesso fecero i mafiosi Marco Miceli e Domenico Albano di Borgetto, che furono coloro che avrebbero consegnato a Verdiani il primo memoriale di Giuliano.

La protezione della mafia non solo garantì per anni la impunità di Giuliano, ma gli consentì purtroppo di continuare nella sua efferata carriera criminosa, portando alla cifra incredibile di 430 il numero complessivo delle sue vittime.

Tra questi delitti commessi da Giuliano, nel tempo successivo allo scioglimento dell'EVIS, quello di maggiore risonanza fu certamente l'eccidio di Portella della Ginestra, dove il 1° maggio 1947, all'indomani delle elezioni regionali di quell'anno, si erano radunati, secondo una antica tradizione, i lavoratori della zona per celebrare la festa del lavoro.

Una gran folla si era già raccolta sulla collina ed era iniziato da poco il discorso del segretario del Partito socialista, quando dalle alture circostanti partirono i primi colpi di arma da fuoco, che avrebbero lasciato sul terreno un numero rilevante di morti e di feriti.

I responsabili della strage furono subito individuati in Giuliano e nei suoi uomini e il processo fu celebrato dopo alcuni anni dalla Corte di Assise di Viterbo.

È superfluo rifare qui la storia di quell'episodio e delle connesse vicende giudiziarie relative all'individuazione degli eventuali mandanti della strage. La Commissione, come già si è avuto modo di accennare, si è ampiamente occupata della questione, mediante le indagini di un apposito Comitato, che si conclusero con una relazione approvata all'unanimità nella seduta del 10 febbraio 1972.

Qui basta ricordare che il Comitato procedette ad un'analisi completa e dettagliata di tutta la documentazione relativa al processo per la strage di Portella della Ginestra e che, inoltre, nell'intento di approfondire in tutti gli aspetti e in ogni senso la questione relativa a possibili corresponsabilità nella preparazione dell'eccidio, il Comitato richiese ai Ministeri dell'interno e degli esteri una serie di documenti concernenti, per la maggior parte, le ordinarie informazioni che gli organi periferici del potere politico avrebbero dovuto trasmettere agli organi centrali.

I risultati dell'indagine sono stati purtroppo deludenti, in quanto si è accertato che le autorità impegnate nella lotta contro il banditismo non avevano fornito le opportune informazioni e giustificazioni circa il proprio comportamento, né si erano preoccupate di dare un contributo all'approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo.

La Commissione, quindi, non può che ribadire che, malgrado tutti i tentativi compiuti, mancano allo stato degli atti validi elementi di prova per affermare che la mano di Giuliano sia stata armata da organizzazioni o personalità politiche; tutte le accuse formulate durante il processo di Viterbo e successivamente contro alcune persone (come presunte mandanti della strage) si sono finora rivelate prive di fondamento.

È probabile che Giuliano si sia deciso a un delitto così grave per dare una lezione ai contadini, che fino allora avevano contribuito, almeno col silenzio, ad assicurargli l'impunità, ma che ora sembrava che avessero capito come fosse necessario seguire una strada ben diversa, d'appoggio e di solidarietà alle forze politiche democratiche, per accedere finalmente alla terra cui ambivano da secoli.

La preoccupazione di Giuliano di perdere l'aiuto e la comprensione dei contadini può averlo spinto all'infame delitto di Portella della Ginestra, nella convinzione di potersi così procurare, con la forza, una nuova protezione e nuovi alleati.

Resta comunque il fatto - e la Commissione già lo ha sottolineato nella relazione settoriale più volte ricordata - che Giuliano ad un certo momento entrò nel complesso gioco di interessi retrivi e parassitari, strenuamente difesi dalla mafia, si rese esecutore dei suoi progetti di violenza, cercò infine di intrecciare le proprie imprese, in un disperato tentativo di acquisire impunità e salvezza, alle fortune dei ceti agrari e delle forze politiche a cui essi avevano affidato, di volta in volta, la sopravvivenza di un'egemonia considerata eterna.

Alla fine però queste speranze andarono deluse in coincidenza con la decisione della mafia di abbandonare Giuliano per cercare nuove coperture e diversi strumenti di azione a difesa dei propri interessi.

Ma finché la banda non venne sgominata e Giuliano ucciso, l'azione delle forze di Polizia fu spesso inquinata da episodi e rapporti non sempre in linea con quelli che dovrebbero essere i doveri istituzionali degli organi dello Stato preposti al mantenimento dell'ordine pubblico. È anzitutto pacifico e risulta accertato in sede giudiziaria nel processo per la strage di Portella della Ginestra che «un visibile contrasto» (come si esprime la sentenza di Viterbo) caratterizzò i rapporti fra i Carabinieri e i funzionari di Pubblica sicurezza per tutto il tempo in cui durò la lotta al banditismo.

Più volte, nei suoi periodici rapporti al Ministero dell'interno, il generale dei Carabinieri Amedeo Branca non esitò a denunciare le mene dei dirigenti di Pubblica sicurezza e più di una volta i piani elaborati dai Carabinieri vennero sventati all'ultima ora da contrordini o da interventi intempestivi degli uomini alle dipendenze dell'Ispettore Messana.

Sull'altro fronte furono frequenti casi di confidenti della Polizia, uccisi o arrestati., dai Carabinieri e tra essi il più famoso fu certo Salvatore Ferreri (soprannominato fra Diavolo), intimo di Giuliano e confidente dell'ispettore Messana, ucciso il 26 giugno 1947 dal capitano dei Carabinieri Giallombardo, che venne poi trasferito per punizione in una sede della Calabria.

Inoltre, quando il Comando forze di repressione del banditismo, agli ordini del generale dei Carabinieri Luca, sostituì definitivamente l'Ispettorato di Pubblica sicurezza che aveva avuto fino ad allora la direzione delle operazioni, sembra certo che i funzionari sostituiti non consegnarono nemmeno «una carta» al comando dei Carabinieri.

Per di più l'ispettore Ciro Verdiani, anche dopo essere stato esonerato dall'incarico, continuò ad occuparsi dell'affare Giuliano e tra l'altro ricevette il memoriale del bandito che avrebbe poi trasmesso all'indirizzo privato del Procuratore generale presso la Corte di Appello di Palermo Emanuele Pili.

Furono d'altra parte continui i rapporti che gli uomini della Polizia ebbero con i banditi colpiti da mandati di cattura e con lo stesso Giuliano. Così è certo che l'ispettore Verdiani si incontrò personalmente con i1 capobanda, alla presenza di Gaspare Pisciotta, e del mafioso Miceli; così la sentenza di Viterbo diede per certo, nonostante il diniego del funzionario, che l'ispettore Messana si serviva come confidente del terribile bandito Ferreri (fra Diavolo) e che il Ferreri aveva una tessera di riconoscimento che gli permetteva di circolare liberamente in Sicilia.

Anche Pisciotta ebbe il suo tesserino dal colonnello Luca e dopo la morte di Giuliano fu accolto come ospite nell'appartamento occupato a Palermo dal capitano dei Carabinieri Antonio Perenze.

La Commissione ha già rilevato che per una parte questi e simili episodi trovano una sufficiente spiegazione nell'eccezionalità della situazione che aveva creato il banditismo nella Sicilia occidentale. «Giuliano» ha dichiarato alla Commissione un funzionario di Polizia «faceva la guerriglia, e bisognava rispondere con una controguerriglia»; sicché si può pure capire come le forze dell'ordine abbiano pensato di dover ricorrere in quegli anni terribili a metodi insoliti non sempre conformi ai loro doveri istituzionali; e si può anche essere d'accordo col colonnello Luca, che tutto quello che facevano Polizia e Carabinieri «era diretto a buon fine e se talvolta era spregiudicato, era fatto per combattere elementi estremamente spregiudicati».

Non si può essere certi però che simili metodi siano stati davvero più redditizi di quelli normali, se si pensa che molti pericolosi banditi rimasero in libertà nonostante che gli organi di Polizia avessero con loro frequenti e normali rapporti, e che potettero perciò continuare indisturbati la loro attività delittuosa, a mantenere ancora in vita per un lungo tempo la banda Giuliano, se così si può dire, col consenso degli organi statali.

Furono d'altra parte proprio questi metodi a permettere a Gaspare Pisciotta di gridare nell'aula della Corte di Assise di Viterbo: «siamo un corpo solo, banditi, Polizia e mafia, come il padre, il figlio e lo spirito santo».

Si trattò, è evidente, di una vanteria interessata e ad effetto, ma di fronte a certe verità sarebbe ingenuo negare che la frase esprime anche il radicato convincimento dei fuorilegge di essere, alla fine, più forti dello stesso Stato, proprio per la somma dei poteri reali che possono esercitare nell'ambiente in cui vivono ed operano.

I conflitti tra le forze dell'ordine, l'insufficiente coordinamento che vi spinse in quei tempi la loro azione, da necessità confessata di dover ricorrere all'aiuto degli stessi banditi e della mafia, per poter ristabilire la pubblica tranquillità, furono tutti elementi che dovettero ingenerare (allora, come sempre) il diffuso convincimento di una organica debolezza dello Stato, nuocere alla sua stessa credibilità, convincere il popolo della opportunità che gli organi dal potere formale fossero suppliti, nelle naturali funzioni di governo della società, dai più forti detentori di un potere informale. Non poteva essere più chiara la confessione di impotenza dello Stato, nel momento in cui le forze di Polizia accettarono esplicitamente l'aiuto interessato della mafia, prima per fare il vuoto intorno a Giuliano e poi per poter definitivamente liberare l'Isola dalla sua presenza.

Può dirsi ormai storicamente accertato che fu la mafia di Monreale, capitanata dai Miceli e da Nitto Minasola, a frantumare le ulteriori resistenze della banda Giuliano e a permettere la cattura di alcuni degli uomini che gli erano più vicini (Castrense Madonia, Nunzio Badalamenti, Frank Mannino), e fu sempre la mafia che, puntando sul tradimento di Gaspare Pisciotta, arrivò alla liquidazione fisica di Giuliano, per l'interesse che aveva al suo definitivo silenzio sulle troppe cose che forse sapeva.

Il 5 luglio 1950, infatti, i Carabinieri si trovarono tra i piedi il cadavere di Giuliano.

Il compito di Pisciotta - ha detto alla Commissione il capitano Antonio Perenze - non era quello di uccidere il bandito, ma solo di stanarlo.

La dichiarazione però lascia perplessi in quanto dalla relazione della Commissione ministeriale d'inchiesta sulla attività di Luca risulta che Perenze entrò nella casa in cui si trovava Giuliano e gli sparò contro una scarica di mitra, senza prima accertarsi se fosse vivo, ciò che evidentemente significa che le forze dell'ordine lo volevano prendere morto.

Al processo di Viterbo, Pisciotta proclamò di essere stato lui ad uccidere Giuliano, ma troppe circostanze mettono oggi in discussione anche questa versione.

La Commissione però non ha potuto reperire sul punto nuovi elementi di prova che servissero a chiarire, in tutti i suoi particolari, le vicende che portarono all'eliminazione di Giuliano.

Gli ostacoli maggiori su questa via sono venuti dal ritardo e dall'incompletezza che hanno caratterizzato la pubblicazione dei documenti relativi alle vicende di quegli anni. Come già si è accennato, la stessa Commissione non ha trovato, in questo settore, la necessaria collaborazione delle autorità governative e non è stata messa in grado di approfondire fino in fondo il rapporto tra mafia e banditismo.

È tuttavia merito indubbio della Commissione aver contribuito, con le sue indagini su quegli anni torbidi della nostra vita nazionale, a indurre la Magistratura palermitana a riaprire un'istruttoria formale sul persistente mistero della strage di Portella della Ginestra e sui punti oscuri relativi alla morte di Salvatore Giuliano.

È sperabile che nel prossimo futuro si possa fare piena luce su quei tragici avvenimenti, ma già ora si può dire che le tragiche vicende che portarono alla morte di Giuliano confermano in pieno l'orgogliosa affermazione di Calogero Vizzini che contro i banditi nulla avrebbero mai potuto la Polizia senza l'appoggio della mafia.

Si tratta purtroppo di una verità amara, ma di una verità che è resa ancora più amara dalla falsità della versione iniziale circa la morte del bandito.

Fu d'altra parte proprio la certezza, ben presto acquisita dalle popolazioni locali, che era stata in definitiva la mafia a liberare l'Isola dal terribile flagello del banditismo a costituire l'ultimo, ma non certo di meno importante, dei fattori che contribuirono nel dopoguerra a ristabilire l'oppressione del potere mafioso sulle contrade della Sicilia.

Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976

 

Per approfondimenti:

Prima parte, venerdì 27 marzo 2020MAFIA, le origini remote

Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia

Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose

Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020I mafiosi

Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020Lo Stato di fronte alla mafia

Sesta parte, venerdì 1 maggio 2020La MAFIA degli anni del dopoguerra

Settima parte, venerdì 8 maggio 2020La MAFIA a difesa del latifondo

Ottava parte, venerdì 16 maggio 2020: MAFIA: le vicende del separatismo