Le funzioni della MAFIA di campagna
I PERSONAGGI – Vincenzo DI CARLO/10^ parte. Continua il nostro “viaggio” per raccontare, attraverso la documentazione, l’origine del male. «Vincenzo Di Carlo riuscì a far carriera e a ricoprire nel paese di origine cariche pubbliche di vario genere. Durante il periodo fascista, svolse l'incarico di vice comandante della Gioventù italiana del littorio (GIL) e negli ultimi tempi dal regime, fu impiegato all'ufficio onorario del Comune di Raffadali e dirigente per quel paese dell'ufficio provinciale. Dopo lo sbarco in Sicilia degli angloamericani, il Di Carlo, che intanto aveva conseguito il diploma di abilitazione magistrale, insegnò come supplente nelle scuole elementari locali; fu inoltre nominato responsabile dell'ufficio per la requisizione dei cereali.»
Nel mondo agricolo dell'interno della Sicilia occidentale, la mafia è riuscita a determinare par anni, dopo l'occupazione alleata e il ripristino del regime democratico, posizioni reali di dominio, appunto perché le popolazioni locali ne hanno accettato la presenza come un fatto normale, difficilmente evitabile.
La sua «funzione» si è svolta, in questa fase, nelle forme più varie di intermediazione: in particolare, i mafiosi si preoccupavano di regolare i raccolti per contadini, mezzadri, fittavoli, proprietari in tema di acquisto o di fitto dei terreni, di ripartizione dei raccolti, di smercio dei prodotti agricoli.
Per quanto arida e povera fosse la terra, i suoi prodotti venivano sistematicamente colpiti dalla tangente d'obbligo da versare ai mafiosi, direttamente o indirettamente, così come erano all'ordine del giorno le imposizioni (più o meno esplicite) di dare lavoro a certe persone o di tenere comportamenti determinati. L'inosservanza di questi obblighi veniva punita o repressa con l'incendio delle messi, il taglio degli alberi, lo sgarrettamento del bestiame e non raramente con l'omicidio di chi aveva osato ribellarsi alle regole dell'ordine mafioso.
L'incompleta penetrazione nella società agricola siciliana della morale dello Stato e delle sue leggi lasciò un ampio spazio (anche nel dopoguerra) alla pratica del potere mafioso, soprattutto nelle zone dell'interno: il nisseno, con i centri di Caltanissetta, Mazzarino, Barrafranca; l'agrigentino con Raffadali,
Siculiana, Favara, Licata, Palma di Montechiaro; il trapanese con Salemi, Santa Ninfa, Alcamo, Vita; il palermitano con Corleone e Godrano. In queste zone, sia pure entro certi limiti, la legge vigente fu per anni la legge della mafia, e fu quella della mafia la sola giustizia riconosciute ed accattata dalle popolazioni locali.
Anche il delitto fu in qualche misura percepito come l'espressione di un intervento punitivo, giustificato dalla violazione di un sistema normativo, parallelo ma più forte di quello legittimo. Naturalmente, queste infiltrazioni del potere mafioso furono favorite come già nel passato dall'interesse dei ceti dominanti e delle forze politiche che ne avevano assunto la rappresentanza, di tenere a freno le rivendicazioni e le lotte del movimento contadino.
All'indomani della liberazione, tutti i partiti democratici, compreso quello di maggioranza, si erano impegnati anche a livello nazionale, in un'azione politica diretta a risolvere il problema agrario e a dare la terra ai contadini. In quegli anni perciò non fu raro in Sicilia vedere schiere di contadini guidate alla diretta conquista delle terre dai dirigenti dei partiti antifascisti di massa, dal democristiano al comunista; ma ciò non impedì che le forze del blocco agrario continuassero, anche dopo le elezioni del 18 aprile 1948, nel tentativo d'impedire che la riforma agraria avesse attuazione e che i contadini finalmente potessero accedere alla terra.
In questo contesto, era fatale che la mafia avesse spazio sufficiente per continuare a fare il suo giuoco, così come era fatale che l'inerzia, i cedimenti e talora le connivenze e le collusioni degli organi pubblici dessero nuova linfa alle iniziative e alle imprese dei mafiosi.
Si spiegano così, col mancato effettivo rinnovamento delle strutture sociali e politiche che caratterizzò gli anni del dopoguerra, l'incapacità dello Stato a legittimare la sua presenza nell'ambiente locale e correlativamente la possibilità che in pratica un potere informale, come quello mafioso, si sostituisse a quello formale dell'apparato pubblico. Si trattò peraltro di una sostituzione tanto estesa e intensa da manifestarsi in taluni casi con l'assunzione diretta da parte dei mafiosi di posizioni di potere all'interno della stessa organizzazione istituzionale della società.
È infatti una caratteristica sconcertante di questa fase la relativa frequenza con cui la mafia riuscì non solo ad allearsi con i detentori del potere legittimo, ma addirittura ad occupare in prima persona taluni uffici pubblici, e ad esercitarne i relativi poteri o direttamente o tramite persone di propria fiducia, magari parenti.
In moliti comuni della Sicilia occidentale si creò in sostanza un clima politico, che favorì la conquista delle leve del potere locale da parte di personaggi discutibili, spesso direttamente legati al mondo mafioso. Il fenomeno ebbe una estensione notevole, che sembra oggi inverosimile, e fu reso possibile dagli agganci che i mafiosi riuscirono a stabilire con certi settori dei partiti che detenevano il potere, nelle singole zone della Sicilia, ed anche dalla mentalità, propria allora di molti settori dei ceti dominanti, che fosse conveniente e comunque non riprovevole avere rapporti con i mafiosi.
Sarebbe impossibile - anche per la difficoltà di reperire per tutti i casi elementi sicuri di giudizio - tracciare una mappa completa del potere mafioso che si stabilì in quegli anni nella Sicilia agricola, all'ombra di compiacenti protezioni e d'insospettabili collegamenti, ma non si può fare a meno di ricordare quelle vicende, che, essendo venute alla ribalta a causa di fatti spesso delittuosi, non lasciano dubbi sulla loro connotazione e servono quindi ad esprimere emblematicamente la realità, a cui prima si accennava.
Si tratta del resto delle vicende di alcuni personaggi mafiosi, che fanno spicco in questo periodo, e che sono Vincenzo Di Carlo, Michele Navarra e Giuseppe Genco Russo.
Vincenzo Di Carlo
Vincenzo Di Cario, nato a Raffadali, in provincia di Agrigento, il 5 luglio 1911, è stato riconosciuto colpevole, in tempi recenti, di numerosi e gravi delitti di stampo mafioso, commessi negli anni del dopoguerra e fin dopo il 1960, ma scoperti, come opera sua, a lunga distanza dal momento dei fatti, si direbbe in modo imprevisto e quasi iper caso.
In particolare, il Di Carlo è stato ritenuto responsabile dell'assassinio di Antonino Tuttolomondo e Antonino Galvano, uccisi il 14 marzo 1958 e il 21 gennaio 1959, in territorio di Caltanissetta il primo e a Raffadali il secando; è stato poi condannato per l'omicidio del commissario di Pubblica sicurezza Cataldo Tandoj, avvenuto ad Agrigento il 30 marzo 1960, è stato infine dichiarato colpevole di associazione per delinquere.
Un'associazione criminosa, questa sorta a Raffadali - come risulta dalla sentenza del Giudice istruttore - subito dopo la fine della seconda guerra mondiale ed organizzata dall'avvocato Salvatore Cuffaro e dal suo «vice» Gerlando Milia. In questa organizzazione, il «furbo» Di Cario (come lo definisce il giudice), ebbe una parte di prima grandezza, arrivando ad occupare posizioni di comando rispetto agli associati.
Sfruttando questo ruolo, il Di Carlo partecipò direttamente, e per fini personali di lucro, all'attività dell'associazione che «consistette» sono sempre parole della sentenza di rinvio a giudizio «nella compravendita di parte di quei feudi che i proprietari erano propensi a vendere per sottrarsi alle leggi sulla riforma agraria». Il presupposto di queste compravendite «fu costituito sempre da un'estorsione e sovente anche da altri illeciti penali (soprattutto la violenza privata)», ma Di Carlo era un uomo di pochi scrupoli, e ciò gli permise di formarsi in poco tempo un patrimonio di una certa consistenza in relazione all'economia di quelle zone.
Nel giro di qualche anno infatti, divenne proprietario di 15 ettari di terreno, coltivati a seminativo e mandorleto, nella contrada Cattà di Agrigento e Mizzaro di Sant'Angelo Muxaro; di un fabbricato nella salita di Sant'Antonio di Raffadali; infine di un gregge idi 150 pecore e di 20 capi bovini.
Nello stesso periodo, tenne in fìtto un appezzamento di terreno di 50 ettari in contrada Grottamurata del Comune di Sant'Angelo Muxaro, occupandosi della direzione della propria azienda agricola, senza svolgere un'attività lavorativa in prima persona, ma limitandosi - come dicono i Carabinieri in una scheda informativa che lo riguarda «a recarsi in campagna, solo allo scopo di impartire disposizioni agli operai circa o lavori da eseguire».
In effetti, l'attività preferita da Di Carlo era quella delittuosa: lo attesta con efficacia il Giudice istruttore quando scrive, parlando di lui e dei suoi complici «fra un delitto e l'altro, soggiogarono i pavidi, intimidirono i laboriosi, mortificarono la coscienza degli onesti. Recitarono per anni la parte dei primi attori e calcarono la scena senza scrupoli, mantenendo atteggiamenti provocatori, a volte vili a volte leoni a seconda del tornaconto, senza che il rimorso o il pentimento si siano mai affacciati alle loro coscienze. Sfidarono la pubblica opinione commettendo i più atroci delitti in pieno centro abitato, sotto gli occhi di moltitudini, esponendo a pericolo gli innocenti».
Tutti d'altra parte sapevano, prima ancora che venisse a galla la prova sicura delle sue gesta delittuose, che Di Carlo era un pericoloso mafioso, tanto è vero che i Carabinieri di Raffadali non esitarono ad affermare, in un rapporto del 14 febbraio 1961: «il Di Carlo è il capo della mafia locale, che si compone di otto elementi del luogo, quasi tutti pregiudicati per delitti contro il patrimonio e contro la persona», aggiungendo subito dopo «in Raffadali, il Di Carlo viene spesso notato in compagnia dei suoi gregali, con i quali non esita di compiere passeggiate e con cui non mancano di tanto in tanto le riunioni che hanno luogo in campagna. Si reputa opportuno riferire che la mafia di Raffadali ha sempre operato ed opera in combutta con quella di Agrigento e degli altri comuni vicini, agendo con la capacità di non dare mai luogo a lagnanze di sorta da parte di chicchessia».
Con tutto questo, Vincenzo Di Carlo riuscì a far carriera e a ricoprire nel paese di origine cariche pubbliche di vario genere. Più precisamente, durante il periodo fascista, svolse l'incarico di vice comandante della Gioventù italiana del littorio (GIL) e negli ultimi tempi dal regime, fu impiegato all'ufficio onorario del Comune di Raffadali e dirigente per quel paese dell'ufficio provinciale Statistico economico della agricoltura. Dopo lo sbarco in Sicilia degli angloamericani, il Di Carlo, che intanto aveva conseguito il diploma di abilitazione magistrale, insegnò come supplente nelle scuole elementari locali; fu inoltre nominato responsabile dell'ufficio per la requisizione dei cereali e ciò gli consentì di inserirsi negli ambienti mafiosi che gravitavano intorno ai proprietari terrieri. Successivamente, con delibera dell'8 luglio 1944, n. 127, resa esecutiva dalla Prefettura di Agrigento il 21 luglio 1944, gli amministratori comunali di Raffadali lo nominarono membro del comitato dell'ente comunale dli assistenza per il quadriennio 1944-1947, e il 29 aprile 1950 il presidente della Corte di Appello gli conferì l'incarico di giudice conciliatore di Raffadali.
Intanto, nel 1946, il Di Cario si era iscritto alla Democrazia cristiana e dal 1957 al dicembre 1963 fu segretario della sezione di Raffadali di quel partito, legandosi a certi settori dal partito e soprattutto all'onorevole Di Leo, di cui divenne uno dei grandi elettori.
Il Di Carlo infine fu sempre in possesso del porto di fucile per uso di caccia e il Questore di Agrigento gli rinnovò ininterrottamente, fino al 1963, la licenza per il porto di una pistola automatica, avendo assunto il Di Carlo di averne bisogno per difesa personale, allorché si recava in campagna, per pagare gli operai1 o per comprare bestiame.
Le circostanze e gli episodi accennati non avrebbero naturalmente nessun significato, se non si fosse saputo che il Di Carlo era un temibile delinquente, associato alla mafia dell'agrigentino. Il fatto è invece (come già dovrebbe risultare da quanto fin qui si è detto) che tutti a Raffadali erano ben consapevoli di quale fosse la vera personalità del Di Carlo, al di là di quella facciata di onorevole rispettabilità, che lo accompagnò per tutta la vita, fino al momento dell'arresto e della successiva condanna. Ne erano fra gli altri a conoscenza le forze dell'ordine e in primo luogo i Carabinieri, che proprio per questo ne fecero il loro confidente fin dal 1958, e che arrivarono addirittura a rilasciargli una specie di attestato di servizio, firmato da un brigadiere della squadra di polizia giudiziaria dei Carabinieri di Agrigento, nel quale testualmente si affermava che «il professor Di Carlo Vincenzo, latore della presente tessera, si sposta da un comune all'altro di questa provincia per incarico dello scrivente. Pertanto, i comandi dell'Arma sono pregati di tenerlo, sempre nei limiti della legalità, in considerazione, significando che la sua opera tende ad agevolare indagini della Polizia giudiziaria».
Altrettanto imprudente e poco accorto fu l'atteggiamento che il Questura di Agrigento tenne nei confronti del Di Carlo fino al 1963. In particolare, i suoi funzionari non si preoccuparono della qualità di mafioso del Di Carlo, non tentarono nemmeno di approfondire e di estendere al riguardo le indagini, come pure avrebbero potuto fare, si astennero da ogni iniziativa diretta a fargli applicare una misura di prevenzione, ma anzi gli rinnovarono puntualmente per molti anni le richieste licenze di porto d'armi.
Per di più, uno dei funzionari di Polizia, il commissario Cataldo Tandoy, capo della Squadra mobile, arrivò a stringere oscuri rapporti con i mafiosi di Raffadali, mettendosi così in condizione di doverne subire prima i ricatti e le continue pressioni e poi la feroce furia omicida.
Fu, infatti, a causa di questi suoi legami con la mafia di Raffadali che il commissario Tandoy fu ucciso ad Agrigento la sera del 30 marzo 1960 (insieme al giovane studente Antonio Damanti casualmente raggiunto da un colpo d'arma da fuoco).
Com'è noto, in un primo momento, le indagini relative al sanguinoso episodio furono indirizzate (forse tendenziosamente e per ragioni non ancora completamente chiarite) verso l'ipotesi d'un delitto determinato da motivi passionali, ma successivamente si accertò senza ombra di dubbio, che l'omicidio si inseriva nel contesto delle relazioni esistenti tra il commissario Tandoy e l'organizzazione mafiosa di Raffadali, di cui faceva parte, come si è visto, in un ruolo di primo piano anche Vincenzo Di Carlo.
Gli accertamenti processuali compiuti nel corso di lunghi anni non hanno permesso di scandagliare, in tutti i particolari, la natura e l'oggetto degli specifici rapporti di Tandoy con i mafiosi, ed hanno consentito di individuare solo in parte i vantaggi (sicuramente di natura patrimoniale) che il funzionario di Pubblica sicurezza riuscì a trarre dalla protezione e dall'immunità offerte a pericolosi delinquenti. È tuttavia fuori discussione che il commissario stabilì con la mafia una riprovevole collusione, lasciando così che alcuni spregiudicati criminali non rendessero conto per anni di una lunga catena di omicidi, di vessazioni, di intimidazioni, di soprusi; così come tra l'altro è certo che dopo l'omicidio del mafioso Antonino Galvano, avvenuto il 21 gennaio 1959, il commissario Tandoy condusse le relative indagini - sono parole della sentenza di rinvio a giudizio - «in maniera non del tutto ortodossa prestando il fianco a rilievi anche da parte dei suoi stessi dipendenti, i quali compresero che volutamente stava per lasciarle monche.
Dinanzi agli schiaccianti indizi, non poté fare a meno di arrestare e denunciare gli esecutori materiali del delitto; omise, però, ogni ricerca sui mandanti e sulla causale dell'omicidio, sebbene fosse a conoscenza degli uni e dell'altra.
Ebbe in sostanza molta sospetta premura nel chiudere il caso, giustificando l'urgenza con paventati pericoli contro i due autori materiali e tralasciò di cogliere l'occasione che gli si presentava per estendere le indagini a tutto l'ambiente mafioso di Raffadali, di cui certamente doveva conoscere ogni segreto, sia per il suo prolungato servizio alla Squadra mobile di Agrigento, sia perché aveva una notevole dimestichezza della zona, essendo il suocero del luogo».
In questo modo tutto fu messo a tacere, e nessuno fu disturbato, nemmeno il Di Carlo, che pure era coinvolto nell'omicidio del Galvano e che perciò si rivolse personalmente ai parenti del commissario per ottenere il suo appoggio.
Il Di Carlo così potette conservare la sua rispettabilità sociale e continuare ad esercitare ancora per qualche anno le funzioni di conciliatore o più in generale, come egli stesso amava dire, di collaboratore della giustizia.
Soltanto nel 1963, il questore di Agrigento, Salvatore Guarino, dopo aver invano tentato di fare del Di Carlo un confidente della Pubblica sicurezza, inoltrò all'Autorità giudiziaria una formale proposta di revoca della sua nomina a conciliatore, scrivendo in una lettera del 24 gennaio, che il Di Carlo, «pur risultando immune da precedenti e pendenze penali, è diffamato dalla voce pubblica, come elemento appartenente alla mafia, anzi è indicato come il capo della mafia di Raffadali».
Ciò nonostante e malgrado che il Presidente del Tribunale di Agrigento avesse fatto sua la proposta, il Primo Presidente della Corte d'Appello non ritenne opportuno prendere immediati provvedimenti, ma preferì disporre un supplemento di indagini, affidando a un magistrato l'incarico di accertare sul posto «se la permanenza del signor Di Carlo Vincenzo nelle attuali sue funzioni di conciliatore del Comune di Raffadali sia pregiudizievole per l'amministrazione della giustizia».
Soltanto all'esito di questa inchiesta e quando fu chiaro che il Di Carlo era coinvolto nell'omicidio del commissario Tandoy e di altri gravissimi delitti, il Presidente della Corte di Appello dì Palermo si decise con decreto del 28 settembre 1963 ad esonerarlo dall'incarico di giudice conciliatore.
Allo stesso modo, i dirigenti della Democrazia cristiana nominarono il nuovo segretario della sezione di Raffadali solamente il 14 dicembre 1963, dopo l'arresto di Di Carlo, avvenuto il 26 ottobre di quell'anno.
Per conto loro, gli amministratori comunali di Raffadali, tutti appartenenti al PCI dal 1945 in poi, non presero mai una iniziativa nei confronti del Di Carlo, non cercarono mai di impedire il suo accesso alle cariche di carattere giudiziario ed amministrativo di cui si è prima parlato.
Eppure nel 1963, l'onorevole Salvatore Di Benedetto, dopo aver premesso di essere sindaco di Raffadali da sette anni, potette affermare che il Di Cardo era «ritenuto dall'opinione pubblica uno dei maggiori esponenti della mafia locale», per poi continuare «è solito frequentare elementi eterogenei sui quali si appunta l'attenzione della Opinione pubblica. È amico dell'ex comandante delle guardie campestri, il quale, è notorio, è stato sottoposto a procedimenti penali... Circa la sua attività di conciliatore poco posso dire... ritengo però che egli non abbia scritto molte sentenze, perché preferisce conciliare le vertenze seguendo un sistema paternalistico, per il quale ha molta attitudine».
Non c'è bisogno di altro a questo punto, per capire come siano stati l'inerzia e in qualche misura i cedimenti di organismi pubblici e politici a permettere che un mafioso dello stampo di Vincenzo Di Carlo sia potuto divenire titolare d'uffici comunali e giudice conciliatore, abbia potuto, per un lungo periodo di tempo, girare legittimamente armato di pistola e di fucile, si sia infine sentito autorizzato a spacciarsi per collaboratore dalla giustizia, di quella giustizia che invece aveva certamente violato, se è stato alla fine condannato per delitti gravissimi.
Si spiegano, con quelle stesse ragioni, l'intimo convincimento e la radicata presunzione con cui Di Carlo non ebbe esitazione a dichiarare, senza falsi pudori, in un'intervista ad un giornalista: «è vero che mi chiamano il capo del paese, perché io ho fatto sempre del bene a tutti e per diversi anni sono stato incaricato dalla distribuzione della refezione scolastica e mi sono sempre adoperato per venire incontro alla povera gente».
Niente meglio di queste parole può fare intendere come la mancanza di una vigile presenza dal potere legittimo possa finire con l'accreditare un potere illegale (e magari delittuoso) non solo di fronte alle comunità interessate, ma addirittura agli occhi di chi lo esercita.
Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976
Per approfondimenti:
Prima parte, venerdì 27 marzo 2020: MAFIA, le origini remote
Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020: La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia
Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose
Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020: I mafiosi
Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020: Lo Stato di fronte alla mafia
Sesta parte, venerdì 1° maggio 2020: La MAFIA degli anni del dopoguerra
Settima parte, venerdì 8 maggio 2020: La MAFIA a difesa del latifondo
Ottava parte, venerdì 16 maggio 2020: MAFIA: le vicende del separatismo
Nona parte, venerdì 22 maggio 2020: MAFIA e Banditismo