Peppe, il Vespa libero del giornalismo abruzzese

Due anni fa L’Aquila e l’Abruzzo interi salutavano per l’ultima volta Peppe Vespa, giornalista libero, irriverente, contro corrente, sempre con la schiena dritta e mai timoroso davanti ai potenti.

Peppe, il Vespa libero del giornalismo abruzzese
Peppe Vespa, fonte: https://fuoridalgiro.it/

Se si citano il cognome Vespa e il giornalismo, il pensiero corre alla «terza camera dello Stato», ai plastici dopo gravi fatti di cronaca, al salotto dove da decenni il gran cerimoniere accoglie sulle sue comode poltrone potenti e politici di ogni schieramento, fino al terzogenito di Riina - accolto altrove ancor più benevolmente in un tempo non molto remoto - e ai Casamonica. Molti, troppi, non ricordano o non hanno mai saputo che c’è stato un signore, raffinato e irrivente, con la schiena dritta, colto e arguto, dal cognome Vespa, che ha scritto alcune delle pagine più libere ed indipendenti, graffianti e strepitose del giornalismo abruzzese. Due anni fa nella Basilica di San Bernardino L’Aquila e l’Abruzzo salutarono questa straordinaria persona che ha arricchito, e ancora oggi arricchisce, il tessuto sociale e il giornalismo abruzzese: Peppe Vespa.

Protagonista della vita culturale del paese, colto e profondo nella sua partecipazione, Peppe Vespa è stato un cronista straordinario, autore di vignette, corsivi ed editoriali corrosivi e pungenti.La sua biografia può ricordare quella di Pippo Fava, giornalista e autore teatrale e profondo. Ed è stato un po’ anche il Fava aquilano, capace di mettere a nudo e sbeffeggiare il perbenismo e l’ipocrisia, gli intrecci dei palazzi e le cordate che incatenano nelle strade. Una continua, a volte persino scioccante e dirompente, frustata al «perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto» parafrasando «Dio è morto» di Francesco Guccini: una canzone che raccontava perfettamente l’essenza di una società dominata da «nuvole di fumo» di una «stanca civiltà», che turbava i perbenisti e le menti intruppate ed invece amata, apprezzata, colta nel profondo, dalle menti libere e pensanti. Le cronache ci raccontano che la RAI la temeva e teneva alla larga, ritenendola blasfema, mentre fu cantata in pubblico la prima volta davanti ai frati di Assisi e persino nelle secolari mura vaticane veniva apprezzata. L’Aquila che Peppe Vespa sferzava e raccontava , turbava e svelava è della stessa essenza.

L’intreccio tra decenni di clientelismo e di politica prona ai potentati e alle cordate e la crisi finanziaria del 2008 ha portato, in Italia forse più che altrove, all’innescarsi di un perverso e assurdo meccanismo: la sfiducia e il rifiuto della «politica» e la consapevolezza dei tradimenti subiti hanno portato larghissima parte della cittadinanza non ad una partecipazione vera, autentica e libera, ma ad affidarsi a pifferai mediocri e capi bastone più o meno presunti. Il terremoto del palazzo ha costruito il trionfo dei palazzinari, la consapevolezza del paese marcio sta costruendo un mondo dove esistono solo coloro che il marcio lo costruiscono ogni giorno. O i loro epigoni e copie. E dal no alla politica politicante si è arrivati alla cancellazione di ogni narrazione ed alternativa al circuito della politica politicante stessa. Che si parli di politiche europee o di migrazioni, dell’emergenza sanitaria di questi mesi o di economia, di cultura o di sport ormai le schermaglie tra partiti, il dividersi tra leader (che si chiamino Renzi o Salvini, Berlusconi o Zingaretti, Vendola o Fini nulla cambia) è diventata la camicia di forza di ogni pensiero. Al di fuori del cono di luce di questa compagnia di giro esistono mondi sterminati, esistono pensieri, saperi, persone e vite. Eppure, uscirne è considerato sempre più impossibile.

Vale anche per l’Abruzzo del clientele, della spintarella e di tanti piccoli e grandi «padroni delle tessere», dei terremoti giudiziari e di quelli della terra che dopo tanti anni non sono mai finiti, della regione dove le mafie lucrano e speculano, conquistano territori e si rifugiano e dove nel 1989 fu sventato un probabile attentato a Giovanni Falcone. Qualche anno dopo furono uccisi persino mafiosi di spicco e della valanga di inchieste scaturita dall’ingresso degli inquirenti nell’ufficio dell’avvocato Fabrizi dopo il suo omicidio, dei più fragili e deboli della società che hanno pagato, pagano e pagheranno il pandemonio le cui responsabilità affondano nella maxi inchiesta giudiziaria su politica, tangenti e sanità ormai di 12 anni fa.

Siamo nella terra di Fontamara e dell’auto proclamato «re del clientelismo» che non si smentisce mai. L’impegno sociale, politico e culturale di tutta una vita, il giornalismo libero e mordente di Peppe Vespa ci dimostrano ancora oggi che è possibile rimanere fuori dal giro, parafrasando il sito web di Alessandra Cococcetta che con lui ha condiviso larga parte del cammino e ancora oggi porta avanti il suo esempio di giornalismo. È impossibile, in poche righe, raccontarlo tutto, descrivere le sue vignette a testa in giù, le tantissime scorribande di chi conosceva il territorio e i suoi personaggi, quel che accadeva e perché accadeva, i protagonisti e le comparse, i pupi e i pupari, il patrimonio di satira e sberleffo, le pernacchie ai potenti e la profondità d’animo e sapienza di un artista della pittura e della scultura, di una persona vera con la schiena dritta che ha sempre affrontato i temporali di una società di ignavi e marionette, di ipocrisie e perbenismi, senza mai cercare il mantello di un potente e, anzi, strappandoli tutti.

Scrisse sulla testata che dirigeva «L’Editoriale» pochi mesi dopo il terremoto del 6 aprile 2009 in un articolo che il sisma aveva distrutto Pescara,  mettendo in fila i numeri con una padronanza e una conoscenza di chi aveva studiato e approfondito come solo i migliori cronisti sanno fare. E denunciando senza giri di parole «i pescecani della costa» bravissimi «nel fare a rattapiglia dei fondi regionali» nel momento in cui «la torta per la ricostruzione» era pronta per «soddisfare la golosità dei furbi» nella ripetizione del «rito della spoliazione dei beni».

Per ricordare un grandissimo giornalista come Peppe Vespa non servono cerimonie (di cui comunque non si hanno notizie in terra d’Abruzzi) e pompose retoriche: l’unica maniera è rileggere i suoi articoli, le sue denunce e i suoi corsivi e abbeverarsi alla fonte della sua satira e del suo sarcasmo. E continuare a calpestare i sentieri della landa desolata (come definì pochi giorni prima di morire quel che ci circonda un’altra grande voce libera come Oliviero Beha) sempre, fuori dal giro.