LA SENTENZA: I CORLEONESI

“TRATTATIVA” STATO-MAFIA/Quarta parte. Continua il nostro viaggio per “svelare” la Sentenza di Primo grado, dove i magistrati hanno dimostrato il patto scellerato tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. CAPITOLO 1. «Il cedimento dello Stato, già, di fatto, come si vedrà, iniziato dopo le stragi del 1992 per iniziativa di alcuni suoi esponenti ed ancor più evidenziatosi dopo le stragi del 1993, sarebbe divenuto inarrestabile per l'impossibilità di fronteggiare quell'escalation criminale, senza pari nella storia del Paese, in un momento di forte fragilità delle Istituzioni, già travolte dal fenomeno di "mani pulite", e di conseguente instabilità per l'affacciarsi anche di nuove forze politiche che soltanto col successivo declino mafioso sarebbero riuscite ad acquisire la necessaria autonomia di azione, inizialmente compromessa da risalenti rapporti di tipo economico/elettorale tra taluni suoi esponenti di primo piano e soggetti più o meno direttamente legati a "cosa nostra"».

LA SENTENZA: I CORLEONESI
ph ansa.it

PREMESSA

Senza alcuna enfasi, può con assoluta serenità affermarsi che l'istruttoria dibattimentale svolta nel processo di cui la presente sentenza costituisce epilogo ha ricostruito la storia recente dell'organizzazione mafiosa "cosa nostra" e, più specificamente, quella che ha visto via via crescere l'influenza dei c.d. "corleonesi", i quali, muovendo già da un nucleo importante e significativo formatosi sin dagli anni 40-50 (con Michele Navarra e successivamente con Luciano Leggio), hanno infine conquistato l'egemonia, prima nella provincia di Palermo ivi compreso il suo capoluogo (sino ad allora regno incontrastato di Michele Greco e Stefano Bontate) e poi nell'intera Sicilia, con la definitiva consacrazione, come suo capo assoluto, di Salvatore Riina.

L'istruttoria ha, però, "fotografato" anche il declino e la sostanziale chiusura di quell'esperienza criminale, a decorrere proprio dal suo apice raggiunto nella stagione delle stragi e conclusosi, di fatto, con l'arresto di Bernardo Provenzano. Oggi, si può dire che, come previsto da Giovanni Falcone con riferimento alla naturale conclusione di tutti i fenomeni umani ivi compreso, quindi, quello della mafia, quell'organizzazione criminale plasmata dai "corleonesi" e caratterizzata da precise regole e, soprattutto, gerarchie, non esiste più.

Il che non significa che non esista più la "mafia" inteso come modello di comportamento non solo criminale, purtroppo profondamente compenetrato in alcune fasce della popolazione siciliana non solo di basso livello sociale (anzi, non infrequentemente, la "spinta" all'espansione del fenomeno proviene da esponenti di ceti sociali più elevati, quelli della borghesia e dei professionisti, che più hanno interesse ad un controllo territoriale, che lo Stato non sempre riesce ad assicurare, e che, comunque, garantisce loro di lucrare rendite di posizione), né che non esistano già e che non possano ancora nascere strutture criminali che in qualche modo tentino di imitare la "cosa nostra", ma si tratta, in ogni caso, appunto, di fenomeni diversi e non più sovrapponibili all'esperienza storica prima ricordata.

La "mafia storica" è stata sconfitta dallo Stato, nonostante, verrebbe da dire, i comportamenti di molti esponenti istituzionali, i quali, non rendendosi conto o, in alcuni casi, pur essendo ben consapevoli degli effetti dirompenti per la stessa tenuta delle istituzioni democratiche, hanno intrattenuto rapporti con esponenti mafiosi, ora per interessi elettorali, ora per agevolare carriere, ora per meri interessi economici personali o di gruppi ristretti.

II punto di svolta del declino mafioso, secondo quanto può ricavarsi dall'istruttoria dibattimentale come meglio si vedrà più avanti, si è verificato, a parere della Corte, nel gennaio 1994 col fallimento del progettato attentato allo Stadio Olimpico di Roma e con l'arresto di Giuseppe Graviano (insieme a quello del fratello Filippo), che più si era impegnato per tale ulteriore strage, avendo la capacità economica e, soprattutto, l'intelligenza (criminale) organizzativa e direttiva, che, invece, per fortuna di questo Paese, sarebbe, poi, mancata ai residui propugnatori della strategia stragista Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (stante il ruolo più defilato volontariamente assunto da Bernardo Provenzano, il quale, per portare avanti i suoi affari aveva necessità di una sorta di patto di non belligeranza con Io Stato): la storia non si fa con i se, ma le risultanze di questo processo - e della ricostruzione storica sottesa -inducono fondatamente a ritenere, tuttavia, che quella ulteriore strage, con la possibile uccisione di oltre cento Carabinieri, se fosse riuscita, avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato, costringendolo a capitolare a fronte delle sempre più pressanti minacce provenienti dall'organizzazione mafiosa siciliana che avevano, ormai, trasceso i stretti confini regionali, coinvolgendo altre realtà criminali (camorra, 'ndrangheta e mafia pugliese) e altri territori di particolare importanza anche per la rilevanza internazionale (come nel caso delle città di Roma, Firenze e Milano).

Il cedimento dello Stato, già, di fatto, come si vedrà, iniziato dopo le stragi del 1992 per iniziativa di alcuni suoi esponenti ed ancor più evidenziatosi dopo le stragi del 1993, sarebbe divenuto inarrestabile per l'impossibilità di fronteggiare quell'escalation criminale, senza pari nella storia del Paese, in un momento di forte fragilità delle Istituzioni, già travolte dal fenomeno di "mani pulite", e di conseguente instabilità per l'affacciarsi anche di nuove forze politiche che soltanto col successivo declino mafioso sarebbero riuscite ad acquisire la necessaria autonomia di azione, inizialmente compromessa da risalenti rapporti di tipo economico/elettorale tra taluni suoi esponenti di primo piano e soggetti più o meno direttamente legati a "cosa nostra".

Il processo ha assegnato a questa Corte un incarico arduo e pressoché titanico, perché i fatti sottesi alla principale fattispecie criminosa specificamente contestata, l'art. 338 c.p., hanno spesso reso necessaria la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri (basti ricordare, a titolo di mero esempio senza alcuna pretesa di esaustività, ai tentativi di golpe ed alle stragi dei primi anni settanta, al sequestro ed uccisione di Aldo Moro e, più in generale, alla stagione del terrorismo di natura brigatista, alla Loggia massonica deviata della P2 ed al ruolo di Licio Gelli, al sequestro Cirillo, alle stragi di mafia sin dalla c.d. "strage di viale Lazio" e, più in generale, alla interminabile sequela - senza pari nel mondo - di uomini delle Istituzioni uccisi in Sicilia, ai rapporti tra la "cosa nostra" siciliana e quella americana) e che, peraltro, hanno visto materializzarsi, quasi quale filo conduttore, alcuni interventi di strutture occulte di natura massonica o paramassonica e di esponenti infedeli dei c.d. servizi segreti.

Il compito non è, dunque, agevole, ma si tenterà di dare conto, comunque, di tutte le acquisizioni probatorie e dei ragionamenti che hanno condotto la Corte alle conclusioni infine raggiunte all'esito di una istruttoria dibattimentale di eccezionale complessità (ben 228 udienze, oltre 1.250 ore di dibattimento, oltre 190 soggetti esaminati, tra i quali alcuni rappresentanti dei massimi vertici dello Stato, innumerevoli documenti in formato cartaceo e soprattutto informatico).

 

Per approfondimenti:

PRIMA PARTE, giovedì 21 maggio 2020Il Patto Sporco: la sentenza dimenticata

SECONDA PARTE, domenica 24 maggio 2020, Stato-mafia: la sentenza

TERZA PARTE, lunedì 25 maggio 2020, Le tappe della Sentenza dimenticata