Nuove prospettive storiche: la Chiesa è inutile al Potere

SPECIALE PIER PAOLO PASOLINI. IL MASSACRO DI UN POETA. 18^ parte. Bologna, 5 marzo 1922 - Idroscalo di Ostia (massacro), 2 novembre 1975. Continua il nostro lungo "viaggio" per ricordare il poeta MASSACRATO (in vita e in morte) dal potere costituito. Lo faremo attraverso i suoi scritti e le sue profezie. Resta ancora una domanda che gravita intorno alla sua morte: chi ha ucciso Pasolini?

Nuove prospettive storiche: la Chiesa è inutile al Potere
Pier Paolo Pasolini sul set del suo film «Il Vangelo secondo Matteo» (Enrique Irazoqui nei panni di Cristo)

l'idea cioè che qualcuno, per scrivere qualcosa, debba possedere «autorevolezza». Io non capisco sinceramente come possa venire in mente una cosa simile. Ho sempre pensato, come qualsiasi persona normale, che dietro a chi scrive ci debba essere necessità di scrivere, libertà, autenticità, rischio. Pensare che ci debba essere qualcosa di sociale e di ufficiale che «fissi» l'autorevolezza di qualcuno, è un pensiero, appunto aberrante, dovuto evidentemente alla deformazione di chi non sappia più concepire verità al di fuori dell'autorità. Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla voluta; dall'essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca.

 

Riferendosi al mio intervento sulla situazione attuale e reale della Chiesa («Corriere della sera», 22 settembre 1974) l'«Osservatore Romano» - in un articolo di violenta reazione - scrive fra l'altro: «Non sappiamo donde il suddetto tragga tanta autorevolezza se non da qualche film di un enigmatico e riprovevole decadentismo, dall'abilità di uno scrivere corrosivo e da taluni atteggiamenti alquanto eccentrici.»

Limitiamoci a osservare questa antiquata frase, che contiene tutto lo «spirito» (in senso di «cultura») dell'articolo clericale. Ciò che prima di tutto vi si nota è un'idea che a una persona normale sembra subito aberrante: l'idea cioè che qualcuno, per scrivere qualcosa, debba possedere «autorevolezza». Io non capisco sinceramente come possa venire in mente una cosa simile. Ho sempre pensato, come qualsiasi persona normale, che dietro a chi scrive ci debba essere necessità di scrivere, libertà, autenticità, rischio. Pensare che ci debba essere qualcosa di sociale e di ufficiale che «fissi» l'autorevolezza di qualcuno, è un pensiero, appunto aberrante, dovuto evidentemente alla deformazione di chi non sappia più concepire verità al di fuori dell'autorità. Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla voluta; dall'essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca.

Ma supponiamo, per ipotesi assurda, che una mia «autorevolezza» esista: malgrado me stesso, mettiamo, e decretata oggettivamente nel contesto culturale e nella vita pubblica italiana.

In tal caso la proposizione vaticana è ancora più grave. Infatti essa mette sotto accusa non solo le cerchie culturali, entro cui io opero come scrittore, ma, a questo punto, anche le centinaia di migliaia e, in qualche caso, i milioni di italiani «semplici», che decretano il successo delle mie opere cinematografiche. Insomma sono colpevoli i critici che mi giudicano e sono degli sciocchi gli spettatori che vanno a vedere i miei film. Tutto ciò è «culturame». E «culturame» perché non è clerico-fascista. Infatti quando sull'«Osservatore Romano» si scrive che un film è «di un enigmatico e riprovevole «decadentismo»», è inevitabile: il senso di queste parole risulta lo stesso che per la sottocultura che bruciava i libri e i quadri «decadenti» in nome della «morale sana». Anche lo «scrivere corrosivo» è uno stilema tipico di una trentina di anni fa: perché istituisce il confronto con una ipotetica salute e integrità della cultura ufficiale, fondata sull'autorità e sul potere. Infine, con l'accenno agli «atteggiamenti eccentrici» siamo all'allusione personale. Ma su questo non replicherò. Cristo del resto non ha mai messo in condizione la «pecora nera» (o «smarrita») di dover replicare.

La storia della Chiesa è una storia di potere e di delitti di potere: ma quel che è ancora peggio, è, almeno per quanto riguarda gli ultimi secoli, una storia di ignoranza. Nessuno potrebbe per esempio dimostrare che continuar a parlare oggi di San Tommaso, ignorando la cultura liberale, razionalistica e laica, prima, e poi la cultura marxista in politica e la cultura freudiana in psicologia (per tenermi a schemi primi e elementari), non sia un atto sotto-culturale.

L'ignoranza della Chiesa in questi ultimi due secoli è stata paradigmatica, soprattutto per l'Italia. E' su essa che si è modellata l'ignoranza qualunquistica della borghesia italiana. Si tratta infatti di una ignoranza la cui definizione culturale è: una perfetta coesistenza di «irrazionalismo», «formalismo» e «pragmatismo».

Le sentenze della Sacra Rota sono per esempio un enorme corpus di documenti che dimostrano l'arbitrarietà spiritualistica e formalistica da una parte, e dall'altra il tetro praticismo (che rasenta addirittura forme di fanatico «behaviorismo») con cui la Chiesa guarda le cose del mondo. Gli aggiornamenti che parte del clero, anche vaticano, ha tentato e talvolta attuato, non fanno che confermare quanto ho detto. Infatti tali aggiornamenti riguardano la tecnica e la sociologia. Ancora una volta la reale cultura è saltata. Ancora una volta sono gli strumenti del potere che appaiono significativi e decisivi.
E' questa particolare cultura vaticana, come mancanza di reale cultura, che probabilmente ha impedito all'articolista dell'«Osservatore Romano» di capire ciò che io ho scritto sulla crisi della Chiesa. Che non era affatto un attacco: era invece quasi un atto di solidarietà - certo, estremamente anomala e prematura - dovuta al fatto che - finalmente - la Chiesa mi appariva come sconfitta: e quindi finalmente libera da se stessa, cioè dal potere.

In un articolo sulla «Stampa» (29 settembre 1974) Mario Soldati parla della «risata» di un gesuita dovuta alla richiesta se egli avesse un'automobile: in tale «risata» Soldati sente un primo accento, falso, di carattere pratico e tradizionalistico («No, non ce l'ho la macchina, non son più i tempi in cui i gesuiti possiedono una macchina.»). Ma, sotto, nel fondo, nell'essenza di quella «risata», Soldati sente una sincera, esaltante, irresistibile felicità. La felicità di vedere finalmente rovesciati e rinnovati i rapporti della Chiesa col mondo. La felicità della sconfitta. La felicità del dover ricominciare tutto daccapo. «La liberazione dal potere.» Nel pianto di Paolo VI (mi riferisco al suo storico discorso di fine estate a Castelgandolfo) io ho sentito la stessa cosa: un primo accento di dolore e delusione, «meritati», per il declino di un grandioso apparato di potere; e un più sotterraneo accento di dolore sincero e profondo, cioè religioso, carico di possibilità future. Quali sono queste possibilità future? Prima di tutto la distinzione radicale tra Chiesa e Stato. Mi ha sempre stupito, anzi, per la verità, profondamente indignato, l'interpretazione clericale della frase di Cristo: «Da' a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»: interpretazione in cui si era concentrata tutta l'ipocrisia e l'aberrazione che hanno caratterizzato la Chiesa controriformistica. Si è fatta passare cioè - per quanto ciò possa sembrare mostruoso - come moderata, cinica e realistica una frase di Cristo che era, evidentemente, radicale, estremistica, perfettamente religiosa. Cristo infatti non poteva in alcun modo voler dire: «Accontenta questo e quello, non cercar grane politiche, concilia la praticità della vita sociale e l'assolutezza di quella religiosa, da' un colpo al cerchio e uno alla botte ecc'.» Al contrario Cristo - in assoluta coerenza con tutta la sua predicazione - non poteva che voler dire: «Distingui nettamente tra Cesare e Dio; non confonderli; non farli coesistere qualunquisticamente con la scusa di poter servire meglio Dio; «non conciliarli»: ricorda bene che il mio «e» è disgiuntivo, crea due universi non comunicanti, o, se mai, contrastanti: insomma, lo ripeto, «inconciliabili.» Cristo ponendo questa dicotomia estremistica, spinge e invita all'opposizione perenne a Cesare, anche se magari non-violenta (a differenza di quella degli zeloti).

La seconda novità religiosa che si prospetta per il futuro è la seguente. Fino a oggi la Chiesa è stata la Chiesa di un universo contadino, il quale ha tolto al cristianesimo il suo solo momento originale rispetto a tutte le altre religioni, cioè Cristo. Nell'universo contadino Cristo è stato assimilato a uno dei mille adoni o delle mille proserpine esistenti: i quali ignoravano il tempo reale, cioè la storia. Il tempo degli dèi agricoli simili a Cristo era un tempo «sacro» o «liturgico» di cui valeva la ciclicità, l'eterno ritorno. Il tempo della loro nascita, della loro azione, della loro morte, della loro discesa agli inferi e della loro resurrezione, era un tempo paradigmatico, a cui periodicamente il tempo della vita, riattualizzandolo, si modellava. Al contrario, Cristo ha accettato il tempo «unilineare», cioè quella che noi chiamiamo storia. Egli ha rotto la struttura circolare delle vecchie religioni: e ha parlato di un «fine», non di un «ritorno». Ma, ripeto, per due millenni, il mondo contadino ha continuato ad assimilare Cristo ai suoi vecchi modelli mitici: ne ha fatto l'incarnazione di un principio assiologico, attraverso cui dar senso al ciclo delle culture. La predicazione di Cristo non ha avuto molto peso. Solo le élites veramente religiose della classe dominante hanno capito per secoli il vero senso di Cristo. Ma la Chiesa, che era la Chiesa ufficiale della classe dominante, ha sempre accettato l'equivoco: essa non poteva esistere infatti al di fuori delle masse contadine. Ora, di colpo, la campagna ha cessato di essere religiosa. Ma, in compenso, comincia a essere religiosa la città. Il cristianesimo da agricolo si fa urbano: caratteristica di tutte le religioni urbane - e quindi delle élites delle classi dominanti - è la sostituzione (cristiana) del fine al ritorno: del misticismo soteriologico alla pietas rustica. Dunque, una religione urbana, come schema, è infinitamente più capace di accogliere il modello di Cristo che qualsiasi religione contadina.

Il consumismo e la proliferazione delle industrie terziarie ha distrutto in Italia il mondo campestre e sta distruggendolo in tutto il mondo (il futuro dell'agricoltura è anch'esso industriale): non ci saranno dunque più preti, o, se ci saranno, saranno idealmente nati in città. Ma questi preti «nati in città», evidentemente, non vorranno in alcun modo saperne di stare insieme a poliziotti e militari, a burocrati o a grandi industriali: infatti essi non potranno che essere degli uomini colti, formatisi in un mondo che anziché avere alle spalle Adone e Proserpina, si fonda sui grandi testi della cultura moderna.

Se vuol sopravvivere in quanto Chiesa, la Chiesa non può dunque che abbandonare il potere e abbracciare quella cultura - da lei sempre odiata - che è per sua stessa natura libera, antiautoritaria, in continuo divenire, contraddittoria, collettiva, scandalosa. E poi, infine, è proprio detto che la Chiesa debba coincidere col Vaticano? Se - facendo una donazione della grande scenografia (folcloristica) dell'attuale sede vaticana allo Stato italiano, e regalando il ciarpame (folcloristico) di stole e gabbane, di flabelli e sedie gestatorie agli operai di Cinecittà - il Papa andasse a sistemarsi in clergyman, coi suoi collaboratori, in qualche scantinato di Tormarancio o del Tuscolano, non lontano dalle catacombe di San Damiano o Santa Priscilla - la Chiesa cesserebbe forse di essere Chiesa?

Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 6 ottobre 1974

 

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