L’omicidio del sindacalista Carmelo Battaglia

MAFIA DEI PASCOLI/18^ parte. Continua il nostro “viaggio” per raccontare, attraverso la documentazione, l’origine del male. «Il Battaglia inoltre era l'animatore della cooperativa di pascolo «Risveglio Alesino», alla quale partecipavano molti contadini della zona. La cooperativa, con un notevole sacrificio economico, era riuscita ad acquistare la proprietà del feudo Foieri, che in quel momento era in parte detenuto da un benestante di Sant'Agata di Militello, Giuseppe Russo.»

L’omicidio del sindacalista Carmelo Battaglia
Ph Socialismo Italiano 1892

Carmelo Battaglia fu ucciso il 24 marzo 1966, a Tusa, in contrada S. Caterina, con due colpi di lupara.

Egli era allora consigliere comunale di Tusa, eletto nella lista socialista, ed aveva l'incarico di assessore al patrimonio in una giunta composta da socialisti, comunisti, e da tre dissidenti democristiani, tra i quali il sindaco, il geometra Attinelli.

La sua carica comportava, tra l'altro, la sorveglianza dei fondi di proprietà comunale destinati al pascolo, l'esame delle domande degli armentisti aspiranti all'assegnazione dei terreni, il controllo delle divisioni di zona tra i beneficiari.

Il Battaglia inoltre era l'animatore della cooperativa di pascolo «Risveglio Alesino», alla quale partecipavano molti contadini della zona.

La cooperativa, con un notevole sacrificio economico, era riuscita ad acquistare la proprietà del feudo Foieri, che in quel momento era in parte detenuto da un benestante di Sant'Agata di Militello, Giuseppe Russo. Qualche anno prima, costui aveva ottenuto in fitto larghe estensioni di pascolo dalla famiglia Lipari proprietaria del feudo, con diritto di usarne fino al 1966.

Quando la cooperativa aveva acquistato il fondo, il Russo non aveva sollevato obiezioni, ma si era limitato a chiedere il permesso, che gli era stato accordato, di continuare a godere temporaneamente dei suoi pascoli. Successivamente, poiché nel terreno che conduceva in fitto non esistevano sufficienti corsi d'acqua, il Russo si era accordato con un socio del «Risveglio Alesino», Giuseppe Miceli, per farsi cedere la zona ricca d'acqua, che il Miceli aveva avuto dalla cooperativa.

La cosa non era sembrata molto chiara né al Battaglia, né agli altri dirigenti della cooperativa, i quali temevano che il Russo, potendo godere dell'acqua, non si sarebbe più allontanato dal feudo Foieri.

Ne era nato così un profondo contrasto tra il Miceli e il Battaglia.

Sulla base di queste premesse e di altri indizi, i carabinieri di Messina denunciarono quali autori del delitto il Miceli e certo Giovanni Franco, nonché per favoreggiamento personale, Antonina Scira.

Successivamente, con rapporto del 24 maggio 1966, a firma dei commissari capi Giorgianni e Lanza, il Centro coordinamento regionale di polizia criminale di Palermo, diretto dal vicequestore Angelo Mangano, denunciò a piede libero Giuseppe Russo e Biagio Amata quali mandanti dell'omicidio, lo stesso Giuseppe Miceli come esecutore del delitto in concorso con Carmelo Mastrandrea, Francesco Di Maggio e Antonina Scira, Giovanni Franco per favoreggiamento personale, e infine Vincenzo Rizzo, capo dell'Ufficio tecnico agrario della Direzione generale della Cassa di Risparmio di Palermo, Giuseppe Gentile, funzionario dell'Ispettorato Agrario regionale di Palermo, e Guglielmo Salvatoispettore presso l'Ispettorato provinciale dell'agricoltura di Messina, per concorso in interesse privato in atti di ufficio.

Nel suo rapporto, il Centro accreditò esplicitamente la tesi che il delitto Battaglia fosse un delitto di mafia (mafia dei pascoli).

Senonchè, al termine dell'istruttoria, il Procuratore della Repubblica di Mistretta, territorialmente competente, Domenico Gullotti, in data 20 febbraio 1969, chiese al Giudice istruttore il proscioglimento con formula dubitativa del Miceli dal reato di omicidio, il proscioglimento con formula piena del Franco dal reato di favoreggiamento e il proscioglimento con formula dubitativa della Scira dal reato di favoreggiamento; chiese altresì l'archiviazione della denuncia presentata il 24 maggio 1966 dal Centro di coordinamento regionale di polizia criminale a carico del Russo e degli altri sopra indicati, nei cui confronti non aveva ritenuto che vi fossero elementi sufficienti per promuovere azione penale.

Il Giudice istruttore di Mistretta in data 30 aprile 1969 pronunciò decreto di archiviazione in merito al rapporto 24 maggio 1966, per totale infondatezza degli elementi di accusa, e il decreto fu vistato dal Procuratore generale di Messina.

Riguardo al rapporto del 24 maggio 1966, il Procuratore della Repubblica di Mistretta rilevò, nelle sue richieste, «un sistematico travisamento delle risultanze, e una «sistematica distorsione delle verbalizzate deposizioni con la introduzione di circostanze non riferite dai testi», onde il suo contenuto appariva «immeritevole di fiducia».

La richiesta di proscioglimento delle persone denunziate per il delitto Battaglia ebbe vaste ripercussioni nella stampa e nell'opinione pubblica.

Dal canto suo la Commissione, nell'interrogare il Capo della polizia, prefetto Vicari, pochi giorni dopo le requisitorie del Procuratore della Repubblica di Mistretta, ritenne opportuno sentire al riguardo il suo parere.

Vicari allora dichiarò esplicitamente che a suo tempo, a mezzo del Questore di Messina, aveva pregato il Procuratore generale Pietro Rossi «di non avere riguardi per alcuno e di ordinare il massimo numero di arresti» e subito dopo aggiunse: «ma quando il magistrato dice: si fermi non c'è niente da fare». Inoltre, quando gli fu domandato per quale ragione non aveva avanzato la proposta di soggiorno per l'imputato Russo, Vicari rispose: «il magistrato di Messina, il Procuratore generale Rossi e il Procuratore della Repubblica di Mistretta hanno detto di non fare niente. Questo lo dico sulla mia parola di uomo; il magistrato segue passo per passo la questione e nessun funzionario di polizia può mettersi contro il magistrato... Abbiamo già abbastanza guai con la Magistratura».

Le dichiarazioni di Vicari furono rese note dalla stampa e suscitarono grande scalpore. Fu anche presentata in Parlamento un'interrogazione in merito alla richiesta di proscioglimento delle persone denunziate per il delitto Battaglia e del caso si occupò il Consiglio superiore della magistratura.

L'Ufficio (Consiglio) di Presidenza della Commissione ritenne pertanto di ascoltare sui fatti il dottor Pietro Rossi, divenuto nel frattempo Primo Presidente della Corte di Appello di Messina, il Procuratore della Repubblica di Mistretta, Domenico Gullotti, il dottor Mangano e uno dei firmatari del rapporto del 24 maggio 1966, il dottor Lanza.

Entrambi i magistrati riferirono che il rapporto del dottor Mangano a carico di Giuseppe Russo era completamente destituito di fondamento («un documento di irresponsabile leggerezza»); precisarono che i testimoni interrogati dal Centro avevano ritrattato le loro deposizioni, che in particolare una donna, certa Ferrara, aveva proprio negato di essere stata interrogata, e un teste, Giuseppe Lombardo, aveva affermato che i verbalizzanti, per sollecitare dichiarazioni di accusa, si erano spinti fino all'offerta di denaro o di un posto di portiere a Palermo.

I due magistrati dissero anche che il comandante del Nucleo di polizia giudiziaria Mario D'Agata si era rifiutato di firmare il rapporto, perché non aveva partecipato alle indagini, e che a suo dire il commissario Giorgianni aveva dovuto firmare il rapporto «non potendo opporre un rifiuto per timore di pregiudicare la sua carriera». Il dottor Rossi e il dottor Gullotti raccontarono ancora che due giorni dopo la presentazione del rapporto, aveva telefonato in Procura il questore di Palermo, dottor Inturrisi, facendo presente che, poiché il rapporto cominciava a venire a conoscenza della stampa, era opportuno che il Procuratore della Repubblica «emettesse mandati da arresto contro le persone denunziate».

Entrambi dichiararono, infine, che il dottor Mangano si era a loro presentato all'inizio delle indagini, avvertendoli della sua intenzione di procedere ad accertamento in anelito al delitto Battaglia. Il dottor Rossi specificò di avergli detto che la sua attività andava inquadrata con l'attività della Polizia giudiziaria del distretto.

Aggiunse anche che, a seguito dell'intervento del dottor Inturrisi, che aveva giudicato poco corretto, aveva chiesto con lettera del 16 giugno 1966 notizie circa la costituzione e le funzioni del Nucleo diretto dal dottor Mangano; che il dottor Inturrisi gli aveva fatto visita, dichiarandosi dispiaciuto del malinteso; che il prefetto Vicari gli aveva scritto una lettera, nella quale affermava che il senso delle sue dichiarazioni alla Commissione era stato male interpretato; che il Questore di Messina aveva formalmente smentito di aver mai sollecitato l'emissione di mandati di arresto.

Il 27 giugno 1969, il commissario di Pubblica sicurezza, dottor Gaetano Lanza, asserì che pur essendo egli andato al seguito di Mangano, fornito di particolari poteri dallo stesso Capo della polizia Vicari, svolse la sua attività nell'alveo delle competenze e delle procedure ordinarie, redigendo quindi regolari verbali anche da lui sottoscritti nella sua qualità di ufficiale di polizia giudiziaria.

Il dottor Lanza escluse inoltre che l'annuncio da parte della stampa di imminenti arresiti ancora prima della conclusione dell'istruttoria fosse stato ispirato dal Mangano al fine di forzare la mano alla Magistratura, che invece se ne sarebbe molto risentita; parimenti non riteneva o almeno non era in grado di stabilire se l'atteggiamento della stessa Magistratura nei confronti di Mangano potesse mettersi in relazione con lo speciale incarico affidatogli dal Capo della polizia, attraverso una procedura non gradita all'ordine giudiziario.

All'osservazione circa la scarsità delle prove e dei riscontri obiettivi, il dottor Lanza rispose accennando alle notevoli difficoltà che incontravano gli inquirenti per svolgere in Sicilia il loro lavoro, in presenza di una diffusa omertà e di una profonda paura.

Anche per questo respinse la accusa di leggerezza rivolta al rapporto Mangano, che anzi, dato l'ambiente, doveva essere ritenuto frutto di encomiabile e meticoloso impegno.

Il dottor Mangano, infine, respinse tutti i rilievi che erano stati mossi al suo operato, precisando, nella dichiarazione orale e in un promemoria consegnato al Presidente della Commissione, che l'istruttoria dell'Autorità giudiziaria per il caso Battaglia era stata condotta in modo da svuotare di significato le risultanze delle indagini della Polizia che avevano identificato gli autori del delitto in Giuseppe Russo e in altre persone a lui legate.

A conferma di questa opinione, il dottor Mangano sostenne che i testimoni erano stati interrogati così da favorirne la ritrattazione e affermò inoltre che il Procuratore della Repubblica di Mistretta era legato da amicizia con Giuseppe Russo e ne frequentava l'abitazione.

Quest'ultima circostanza fu smentita dal procuratore Gullotti, il quale negò di aver intrattenuto particolari rapporti con Giuseppe Russo, affermando di averlo conosciuto, come tante altre persone di Sant'Agata Militello, suo paese di origine.

In tempi più recenti, in una muova dichiarazione resa alla Commissione, il dottor Mangano ha confermato che il delitto ebbe una causale mafiosa e più specificamente trovò origine nel desiderio del denunziato Giuseppe Russo di impadronirsi del feudo Foieri e di impedire che lo acquistasse la cooperativa guidata da Battaglia.

Il dottor Mangano ha quindi ribadito che riprese le indagini, dopo avere avvertito il Procuratore della Repubblica di Mistretta, e il Procuratore generale di Messina; che non aveva potuto parlare una seconda volta col Procuratore generale perché mentre si recava a Messina aveva avuto un incidente automobilistico; che durante le indagini tutti i testimoni erano stati interrogati regolarmente, nelle loro abitazioni o nella casa comunale, e che non avevano subito coartazione; che invece non c'era stata una istruttoria «veramente seria e completa» che gli agenti di Polizia erano stati interrogati come se non fossero testimoni, ma accusati e che, quando furono interrogati, erano presenti nei locali della Procura molti Carabinieri, come se fossero stati incaricati di controllare coloro che avevano svolto le indagini; che fin dalle prime battute dell'inchiesta, egli ed i suoi uomini erano rimasti soli, perché i Carabinieri ed i dipendenti della Squadra Mobile li avevano abbandonati, allegando altri impegni; che il maggiore dei Carabinieri D'Agata si era rifiutato di sottoscrivere il rapporto senza nemmeno leggerlo, non appena si era accorto che tra i denunziati figurava Giuseppe Russo; che il Procuratore della Repubblica di Mistretta, Domenico Gulotti, aveva rapporti di amicizia con Giuseppe Russo.

Il dottor Mangano infine ha esplicitamente dichiarato, sempre con riferimento al caso Battaglia, «che certe assoluzioni o certe soluzioni di alcune grosse vicende (erano) state determinate da rapporti di intimità, di dimestichezza e quindi di favoritismo, non solo ma da determinati tipi idi rapporti di magistrati con ambienti mafiosi».

A sostegno delle sue dichiarazioni, il dottor Mangano ha esibito i seguenti documenti:

a) Una redazione senza data, indirizzata al dottor Mangano, e firmata dai sottufficiali di polizia Angelo Marcantoni, Pietro Amoroso e Salvatore Urso. Con essa, i tre sottufficiali riferivano che, messi a confronto con i testi, avevano trovato in procura molti Carabinieri che all'apparenza avevano il compito di sorvegliarli. I verbalizzanti riferivano anche che, durante i confronti, al magistrato tendeva a screditare le dichiarazioni rese dai testi alla Polizia e li spingeva a confermare le loro deposizioni iniziali; un magistrato inoltre spesso impediva agli uomini della Polizia di fare le opportune contestazioni ai testi.

b) Una relazione di servizio del 5 novembre 1966 indirizzata al dottor Mangano e firmata dal brigadiere di Pubblica sicurezza Salvatore Urso. Con essa il brigadiere Urso riferiva tra l'altro di aver parlato con tale Filippo Di Francesca, dopo la testimonianza da lui Tesa nel processo Battaglia. Il Di Francesca avrebbe detto al sottufficiale che il sostituto procuratore, che lo interrogava, gli aveva fatto presente che gli accusati potevano denunziarlo; secondo il Di Francesca inoltre, il sostituto aveva condotto le indagini non da inquisitore ma «per favorire il Russo, al solo scopo di non incriminarlo».

Sempre a dire di Di Francesca, anche suo fratello Rosario si era fatto la convinzione che il sostituto aveva voluto aiutare il Russo.

La stessa cosa avevano riferito al brigadiere Urso i testi Antonio Di Francesca, Mariano Giordano, Francesco Giordano.

Nella relazione, si riferiva ancora che Filippo Di Francesca aveva anche dichiarato che Giuseppe Russo, parlando con lui e con gli altri, si era lamentato della presenza del dottor Mangano e si era vantato di avere sempre aiutato coloro che avevano noie giudiziarie, raccomandandoli ai giudici suoi amici.

c) Una dichiarazione resa l'11 luglio 1966 a tre sottufficiali di polizia nella quale Giuseppe Trusso, insegnante elementare, riferiva di aver visto almeno due volte il procuratore Gullotti uscire dal circolo Dante Alighieri di Sant'Agata di Militello «in compagnia» di Giuseppe Russo.

d) Una dichiarazione resa l'11 luglio 1966 a tre sottufficiali di polizia, nella quale il professore Sebastiano Portale affermava che diverse volte e l'ultima volta un mese prima, aveva visto uscire insieme dal circolo Alighieri il procuratore Gullotti e Giuseppe Russo.

e) Un «appunto riservatissimo» firmato dal dottor Mangano e datato 2 luglio 1966.

Secondo l'appunto, i testi Filippo Di Francesca e Bartolo Giordano avevano dichiarato di essere stati interrogati dal sostituto procuratore come accusati, piuttosto che come testi, ed avevano aggiunto di essere stati intimoriti. Anche il teste Giuseppe Lombardo aveva ammesso d'aver ritrattato per il modo insolito dell'interrogatorio.

Sempre nell'appunto si affermava che i Carabinieri indagavano su altre causali dell'omicidio per far cadere quella di mafia.

Di fronte ad un episodio così grave e a un così netto contrasto di opinioni tra organi qualificati della Polizia e della Magistratura, la Commissione non intende prendere posizione, tanto più che non sarebbe suo compito cercare di stabilire quale possa essere la verità circa gli autori e la causale del delitto Battaglia.

La Commissione però non può fare a meno di rilevare che, anche in questo caso, il dottor Mangano condusse indagini con metodi discutibili, sostituendosi di sua iniziativa agli organi di polizia che le avevano già cominciate, fornendo alla Magistratura una versione in parte contraddittoria con quella iniziale, astenendosi infine dal prendere opportuni preventivi accordi con tutti i funzionari interessati. Pure in questa occasione, inoltre, il dottor Mangano si è lasciato andare a insinuazioni e apprezzamenti, che, per essere giustificati e indicativi di concrete responsabilità, dovrebbero avere ben altro fondamento probatorio.

Ma non può essere tuttavia senza significato, e merita dunque di essere segnalata, la sconcertante circostanza che organi responsabili della Polizia, come il dottor Mangano, e lo stesso prefetto Vicari, abbiano potuto affermare, con assoluta convinzione, che era stata proprio la Magistratura a frapporre ostacoli nella lotta contro la mafia.

Un'affermazione del genere implica evidentemente un profondo sentimento di sfiducia che può finire col ripercuotersi sui risultati e sull'efficacia delle indagini giudiziarie. D'altra parte, nel momento in cui è possibile che esponenti qualificati di un organismo che dovrebbe collaborare con la Magistratura esprimano su alcuni suoi rappresentanti i giudizi, che Mangano e Vicari non hanno esitato a formulare, è segno davvero che i pubblici poteri hanno fallito lo scopo di concentrare gli sfarzi di tutti nell'unica direzione che può interessare lo Stato e la comunità dei cittadini; ciò in quanto gli inammissibili contrasti, esplosi nella vicenda Battaglia, ma registrati in tante altre occasioni e non solo in quella, in cui fu presente Mangano, possono offrire alla mafia la fortunata opportunità di segnare dei punti a suo favore, approfittando di quei contrasti ed eventualmente giocando sugli effetti nocivi che da essi derivano per gli interventi dell'apparato statale.

Sono infatti proprio i contrasti del genere che hanno obbiettivamente favorito, nel periodo che qui interessa, l'impunità di tanti delitti di stampo mafioso.

 

Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976

 

Per approfondimenti:

Prima parte, venerdì 27 marzo 2020MAFIA, le origini remote

Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia

Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose

Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020: I mafiosi

Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020Lo Stato di fronte alla mafia

Sesta parte, venerdì 1° maggio 2020La MAFIA degli anni del dopoguerra

Settima parte, venerdì 8 maggio 2020La MAFIA a difesa del latifondo

Ottava parte, venerdì 16 maggio 2020: MAFIA: le vicende del separatismo

Nona parte, venerdì 22 maggio 2020: MAFIA e Banditismo

Decima parte, venerdì 5 giugno 2020, Le funzioni della MAFIA di campagna

Undicesima parte, venerdì 19 giugno 2020, Il capo della mafia di Corleone

Dodicesima parte, venerdì 26 giugno 2020, Il capomafia dell’intera Sicilia

Tredicesima parte, venerdì 3 giugno 2020, Le attività della mafia di campagna

Quattordicesima parte, 17giugno 2020, Gli omicidi di sindacalisti e uomini politici    

Quindicesima parte, 24 luglio 2020, Gli interventi giudiziari

Sedicesima parte, 10 agosto 2020, L’impunità dei delitti mafiosi

Diciassettesima parte, 14 agosto 2020, Il questore Angelo Mangano