«Una storia di Calabria, una storia di Milano»

LA RECENSIONE. Grazie anche ad una capacità di scrittura non comune, l'ultima fatica di Paolo De Chiara può certo dirsi, ad oggi, la più completa e compiuta narrazione della tragica vicenda, umana e giudiziaria, di Lea Garofalo; "Una fimmina calabrese" (Bonfirraro editore), orribilmente uccisa a Milano per mano della 'ndrangheta.

«Una storia di Calabria, una storia di Milano»

Lea conosce bene questa realtà criminale. Nata in una famiglia ‘ndranghetista, fin da piccola subisce la ferocia assassina di quest’organizzazione, che, a solo un anno di vita, le porta via il padre, e poi, via via negli anni, le toglie pure il fratello, i cugini, i parenti, gli amici, ed i conoscenti; tutti barbaramente uccisi per effetto di una faida tra due famiglie rivali (i Garofalo ed i Mirabelli), e tutti a ciò pre-destinati in ragione di un codice malavitoso, frutto di un contesto sociale e culturale imbarbarito dalla criminalità imperante, per il quale: “il sangue si lava con il sangue”.

In questa spirale di sangue, allora, ben presto, per effetto del piglio narrativo dell’autore, la violenza brutale subita da Lea Garofalo per mano della mafia calabrese diventa rappresentazione di una più atroce guerra, che certamente interessa anche Pagliarelle, una frazione di Petilia Policastro, in provincia di Crotone, dove la donna vive, ma che, in realtà, trascende i confini territoriali di quella frazione, per interessare tutta la Calabria e non solo.

Quelli vissuti dalla giovane donna, infatti, sono gli anni in cui scoppia la prima guerra di ‘ndrangheta in Calabria.

Gli anni, cioè, in cui i vecchi boss vengono via via sostituiti dai nuovi rampolli di quest’organizzazione criminale, ed in cui, per la prima volta, iniziano sempre più diffusamente a circolare le sostanze stupefacenti, con ciò che il loro spaccio comporta in termini di potenziamento dell’organizzazione criminale in parola.

Qui, inopinabilmente, un grande merito dell’autore. Decostruendo quell’idea della ‘ndrangheta, assai diffusa nell’immaginario collettivo, quale mafia un pò “cafona” dedita ai soli sequestri di persona, De Chiara sostituisce ad essa una diversa rappresentazione di tale organizzazione che, superati i confini per essa oramai un po' troppo angusti del territorio calabrese, inizia anzitutto a diramarsi in un territorio assolutamente più vasto della propria regione d’origine. Non a caso Lea, che per salvare la figlia fugge da Pagliarelle per trasferirsi a Milano, nella speranza di poter lì trovare un ambiente diverso da quello di origine, resta profondamente delusa. Il quartiere in cui, nella capitale lombarda, va a vivere altro non è, infatti, che una propaggine dei luoghi da cui è scappata, caratterizzato dalle stesse dinamiche criminali e infestato dallo stesso ambiente malavitoso a cui inutilmente aveva tentato di sottrarsi.

Soprattutto, però, quelli di cui parla De Chiara sono gli anni in cui la ‘ndrangheta inizia a rafforzarsi tanto da trasformarla in quel che è oggi: l’organizzazione criminale più forte tra tutte, non in Calabria, non in Italia, ma in Europa e nel mondo.

E ciò certamente per i traffici di stupefacenti che, a partire da quegli anni, inizia a gestire in maniera sempre più importante e diffusa, ma anche per il lassismo con cui lo Stato, dalla metà degli anni ’70 e fino agli anni ’90, ha risposto all’avanzata ‘ndranghetista, assorbito com’era dalla necessità di contrastare un’altra organizzazione criminale, ossia a quella mafiosa che, proprio nell’ultimo decennio del secolo scorso, metteva le bombe in Sicilia e in tutta Italia (Roma, Firenze, Milano).

Sicché, sotto tale profilo, non può non condividersi appieno quanto già efficacemente osservato da Cesare Giuzzi nella postfazione, allorquando avverte che la storia di questa donna costringe tutti ad adottare uno sguardo nuovo sulla ‘ndrangheta e la sua collocazione territoriale, le sue ramificazioni, sostenute da legami familiari e patti suggellati col sangue sono ovunque. Quella di Lea, infatti: “È una storia di Calabria, ma è anche la storia di Milano”.

Indiscutibilmente, dal punto di vista stilistico il lavoro si annovera tra quelli di tipo documentario.

Scelta, questa, che conferma la vocazione dell'autore per il giornalismo d'inchiesta, e specificamente per le inchieste sui reati di mafia.

Qui però tale scelta acquisita una valenza ulteriore. Grazie ad essa, infatti, il lettore è posto nella condizione di intendere appieno la drammaticità della vicenda di Lea Garofalo, in quanto rappresentata nella sua oggettività.

In effetti, fatto salvo l’uso di qualche aggettivo, in cui l’autore riversa lo sdegno per la ‘ndrangheta e il suo modus agendi (più volte, ad esempio, si dice che “la ‘ndrangheta fa schifo”; che i suoi appartenenti sono “criminali senza scrupoli”, ovvero dei “vigliacchi”), nel testo non viene in alcun punto esplicitato quel che è pure indiscutibilmente il forte disprezzo dello scrittore nei riguardi di quest’organizzazione e del modo in cui impera nella realtà e sulle vite degli altri.

Ma ciò non costituisce affatto un minus del lavoro, perché quel sentimento, che serpeggia nell’intero testo, traspare chiaramente già solo dalla ricostruzione della vicenda di Lea Garofalo per come operata da De Chiara alla luce degli atti processuali, delle interviste, delle testimonianze, infine puntualmente riportati nel testo.

Già forte di quest’approccio, che nulla concede alla facile retorica, il lavoro si lascia altresì apprezzare per il fatto di riuscire, anche grazie alle testimonianze riportate nel testo, a far conoscere nella loro realità e crudezza le dinamiche malavitose ed in particolare a marcare il ruolo rivestito all’interno di tali organizzazioni dalle donne, che,  per la sua complessità, non risulta più banalmente riducibile a quello “di chi è custode, di chi sta zitta e di fatto coopera con la riproduzione culturale e familistica della ‘ndrangheta, del boss mafioso, che torna a casa e trova nella donna una compagna silente, che capisce tutto e che dà una mano”.

La lucida capacità di intendere i rivolgimenti che, anche sul piano del coinvolgimento femminile in queste dinamiche, sono intervenuti nel corso degli anni, porta piuttosto De Chiara a far emergere e contrapporre nel testo due modelli, ovvero due mondi e modi di esser donna, diversi ed incomunicabili tra loro: la donna “che si fa boss”, “che si emancipa in modo perverso e che pensa di tenere testa al boss uomo, dando una mano diretta, esplicita, partecipando alla vita dell’organizzazione”, e, da contraltare a questa, Lea, ma anche sua figlia Denise; donne cioè che prendono le distanze dall’organizzazione mafiosa, che rompono il codice secolare dell’organizzazione ‘ndranghetista, e che, violando apertamente il comando di non tradire che questa impone ai suoi appartenenti, infine denunciano. E ciò anche a costo, come Lea, di pagare questa sua scelta a caro prezzo, con la sua stessa vita.

Proprio su questo aspetto, il libro di De Chiara richiama tutti ad una verità drammatica e molte volte misconosciuta. Diversamente, infatti, da quel che si crede: “Sono tante, troppe, le donne uccise dalle mafie nel corso degli anni. La realtà è diversa dalla fantasia, dai codici, dalle leggende.

Le organizzazioni criminali non rispettano le donne e nemmeno i bambini. Sono tantissimi i casi di donne assassinate dalla ‘ndrangheta, dalla mafia siciliana, dalla camorra e dalla Sacra corona unita. Il delitto d’onore è la regola. Non è stato mai cancellato dalla cultura mafiosa. Punisce ancora le donne. Una vera e propria strage coperta dall’indifferenza generale, dall’omertà. Da regole brutali e sanguinarie ...”.

Ma, non c’è solo il disprezzo per le donne e i bambini in questi contesti.

C’è anche l’assoluta mancanza di ogni pietas nei riguardi dei defunti; quella pietas di cui è invece pregna la letteratura e che, nel Libro XXIV dell'Iliade, porta Priamo a gettarsi alle ginocchia di Achille e a pregarlo di restituirgli il corpo del figlio affinché possa piangerlo e onorarlo insieme ai suoi cari, e che, nella tragedia sofoclea, spinge Antigone a sfidare il tiranno Creonte e le leggi della polis pur di dare sepoltura al suo amato fratello Polinice, affinché questi non fosse “lasciato senza compianto, senza tomba, tesoro gradito per gli uccelli che lo spiano ansiosi del pasto”.

In questo caso, invece, cosa abbiamo? Abbiamo una madre che, all’autore che l’intervista prima del ritrovamento dei resti del corpo della figlia, dice: “… Oggi non posso seppellire mia figlia come si deve, non ho più niente di mia figlia. Non ho niente. Ho portato una foto di Lea e l’ho messa insieme a mia madre al cimitero”. E che, sempre all’autore che incalza, chiedendole:C’è stato un funerale per Lea?”, risponde: “Il secondo giorno abbiamo fatto una messa senza bara. Abbiamo fatto un cartellone con la foto di Lea c’era tanta gente”.

Il tutto, a tacere del modo in cui il corpo della donna, dopo la sua uccisione, viene orribilmente straziato. L’attenzione che, attraverso la lettura degli atti, De Chiara ripone nel riferirne le sorti, secondo le diverse ricostruzioni offerte dai giudici del primo e del secondo grado di giudizio, alla luce degli elementi probatori in loro possesso, riflette in ogni caso l’estrema crudeltà e brutalità della criminalità ‘ndranghetista, che storpia terribilmente il corpo della donna, con ciò tentando di cancellare ogni traccia anche fisica di chi ha osato sfidarne le regole.  

In questo modo, l’autore mette tutti noi davanti ad una realtà tragica, che esige di essere non solo pienamente riconosciuta (ciò che spesso non è), ma anche di essere rapidamente riparata, attraverso un urgente e fattivo intervento dello Stato.

E qui siamo ad uno dei punti centrali del lavoro.

È indubbio, infatti, che il libro di Paolo De Chiara si segnala in particolar modo per la capacità di marcare la diversità di esempi che emergono dalla vicenda di cui va trattando.   Da un lato, c’è una donna uccisa, strangolata e poi bruciata dal clan ‘ndranghetista capeggiato da Carlo Cosco, suo compagno e padre di sua figlia Denise.

D’altro, c’è lo Stato, o meglio non c’è uno Stato in grado di intendere il dramma che si andava consumando, e proteggere questa donna dal destino atroce che l’attendeva.

In questo senso, quello di Lea Garofalo è un dramma frutto di omertà e solitudine. In lei, o meglio nella sua storia si inverano le parole di Giovanni Falcone: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanza, perché si è privi di sostegno”.

E Lea, di fatto, è stata lasciata sola. Dopo essersi ribellata alla ‘ndrangheta ed aver denunciato, al fine di garantire a se stessa ed alla figlia Denise un futuro migliore, “invece di avere accanto uno Stato sveglio, intelligente, capace di comprendere la portata dirompente di questa scelta ho trovato uno Stato distratto, omissivo, impreparato. Incapace di stare al passo di una scelta così straordinaria, formidabile”.

Neppure il memoriale che lei stessa scrive in una lunga lettera rivolta al Presidente della Repubblica, dichiarando tutta la sua solitudine, vale a sollevarla da quello stato di abbandono in cui si sente oramai costretta.

Quello che si è palesato dinanzi a Lea, insomma, è stato uno Stato incapace di riconoscere il valore della sua scelta.

Ecco un altro punto che l’abilità narrativa dell’autore ben sa fare emergere nel racconto: l’incapacità dell’apparato pubblico anzitutto di “riconoscere” la portata di una scelta, certamente “forte” e non comune in certi contesti, come quella di Lea.

Qui, peraltro, il riferimento non è solo al ritardo con cui lo Stato attribuisce infine credibilità alle parole di Lea Garofalo, considerandone attendibile la testimonianza solo dopo l’atroce morte, secondo un opinabile modus procedendi proprio di questo “strano Paese”, in cui “succede sempre tutto dopo”, e per essere credibili “bisogna essere ammazzati”.

Piuttosto, in una storia in cui anche le parole ed il loro uso è importante, l’espressione allude anche a quelle impiegate per definire Lea alla luce delle dichiarazioni dalla stessa rese.

Lea, sottolinea l’autore, è un testimone di giustizia.

Ed invece, negli atti ufficiali, la donna, che ha lottato tutta la vita contro il sistema mafioso, viene qualificata collaboratrice di giustizia, al pari di tutti quei pentiti di mafia che, diversamente da lei, hanno vissuto e operato in maniera criminale.

In questa parte, insomma, anche grazie alle testimonianze riportate, De Chiara sprona nel lettore una giusta riflessione sulle molte falle ancora presenti nel settore giudiziario, e sui guasti che ciò conseguentemente determina nel sistema di protezione della persona interessata. E certamente, a tal riguardo, ha ragione Cesare Giuzzi quando, nella post-fazione, avverte che “la vita di Lea è un monumento all’inadeguatezza della legge sui testimoni di giustizia, all’impreparazione di forza di polizia e magistrati”. Così come condivisibili sono le parole del magistrato Ardita, che, sul punto, nella prefazione, sottolinea che l’autore non faccia sconti “a quanti non hanno saputo o voluto comprendere l’importanza strategica della collaborazione di Lea, trincerandosi dietro la burocrazia e la incoerenza del sistema normativo”.

Ma, se è indubbia tutta l’indignazione dell’autore per gli errori commessi dallo Stato nella tutela di chi si è affidato ad esso, è altrettanto inopinabile l’assoluta onestà intellettuale dello stesso, come emerge tra l’altro laddove, attraverso una certosina ricostruzione dell’attività da loro svolta, sottolinea l’enormità del lavoro dei giudici milanesi che, pur in assenza di una serie importante di elementi probatori, ed in primis del corpo della donna, hanno saputo comunque infliggere pene esemplari a quanti, a diverso titolo, sono stati infine riconosciuti colpevoli dell’uccisione di Lea.

In ragione di tutti i profili evidenziati, allora, è indubbio che quello di De Chiara possa diversamente definirsi un libro di denuncia, ovvero di riflessione, ma anche d’inchiesta. Al fondo, però, esso ambisce ed è soprattutto un contributo alla “memoria”. La scelta semantica non è casuale.

Così come chiare sono, sotto tale profilo, le finalità perseguite dall’autore. In un Paese come il nostro, fin troppo dedito alle commemorazioni che, spesso svuotate di un’effettiva partecipazione da parte della collettività, si insteriliscono in vacui rituali, l’ambizione che le pagine di questo libro perseguono è quella di offrire a ciascuno di noi la possibilità di recuperare e conservare memoria di una vicenda umana e giudiziaria tra le più tragiche del nostro recente passato.

Nell’amara consapevolezza che, in questo nostro strano Paese, “senza memoria”, “i vivi sono abbandonati e i morti vengono troppo spesso dimenticati”, De Chiara tenta, insomma, di contrastare questa tendenza, contribuendo a mantenere viva la memoria di chi, anche a costo della propria vita, si è opposta alla criminalità organizzata calabrese, rompendone le regole, e denunciandone le violenze ed il malaffare.

E ciò senza cedere mai alla tentazione di una fin troppo facile aggettivazione di questa donna quale “eroina”, ma limitando il proprio impegno a mostrarne a tutti l’“esempio” offerto con la propria vita, nell’intimo convincimento che, se interiorizzato, proprio l’esempio possa fungere, per ciascuno, da stimolo utile ad improntare la propria quotidianità al rispetto dell’altro e della sua dignità, ancor prima che al valore della legalità.

Franca Meola, avvocato e ricercatrice presso l'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli".

 

Scopri di più sulla trama:

Una fimmina calabrese, così Lea Garofalo sfidò la ‘ndrangheta

 

 

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UNA FIMMINA CALABRESE su Radio IsNow

 

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