La Sanità nella Questione meridionale

IL DIVARIO. Nel Rapporto 2024 Svimez «Un paese, due cure. I divari Nord-Sud nel diritto alla Salute» viene fotografata la drammatica situazione «dell’ampliamento dei divari territoriali nell’offerta di prestazioni sanitarie», in un Paese che (dopo l’emergenza Covid-19) è tornato a «disinvestire nella salute dei cittadini».

La Sanità nella Questione meridionale


 

- La Metafora del Piccione

Al Sud i servizi di prevenzione e cura sono più carenti, minore la spesa pubblica sanitaria, più lunghe le distanze da percorrere per ricevere assistenza, soprattutto per le patologie più gravi.

Investire in Sanità dovrebbe tornare tra le priorità nazionali, correggendo il metodo di riparto regionale del Fondo Sanitario Nazionale sulla base degli indicatori di deprivazione.

L’autonomia differenziata rischia di ampliare le disuguaglianze nelle condizioni di accesso al diritto alla salute.

IL RAPPORTO. Una fotografia drammatica sulla sanità nazionale: un vero e proprio divario tra Nord e Sud. L'antica e irrisolta Questione Meridionale riemerge ciclicamente e si manifesta anche in questo settore, tutelato costituzionalemente.

Articolo 32:

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti

Il Mezzogiorno d'Italia, per gli indicatori BES (Benessere Equo e Sostenibile) sulla salute, è l’area del Paese caratterizzata dalle peggiori condizioni di salute.

Un differenziale territoriale marcato e crescente negli anni: nel 2022, la speranza di vita alla nascita per i cittadini meridionali era di 81,7 anni, 1,3 anni in meno del Centro e del Nord-Ovest, 1,5 rispetto al Nord-Est.

Analoghi differenziali sfavorevoli al Sud si osservano per la mortalità evitabile causata da deficit nell’assistenza sanitaria e nell'offerta di servizi di prevenzione.

Molti cittadini del Mezzogiorno "cercano" assistenza nelle strutture sanitarie del Centro e del Nord, soprattutto per curare le patologie più gravi.

Nel Rapporto si sottolinea la debolezza del Sistema Sanitario Pubblico italiano che, nel confronto europeo, risulta sottodimensionato per stanziamenti di risorse pubbliche (in media 6,6% del PIL contro il 9,4% di Germania e l’8,9% di Francia), a fronte di un contributo privato comparativamente elevato (24% della spesa sanitaria complessiva, il doppio di Francia e Germania).

Un dato che dovrebbe far riflettere per comprendere la drammatica situazione. 

Il bilancio nazionale della sanità non copre integralmente il costo dei LEA, quelle prestazioni e servizi che dovrebbero essere offerti in quantità e qualità uniformi in tutto il territorio nazionale. La distribuzione regionale delle risorse, basata su dimensione e struttura per età della popolazione, non rispecchia gli effettivi bisogni di cura e assistenza dei diversi territori, condizionati anche da fattori socio-economici non contemplati nei criteri di riparto.

Dai dati regionalizzati di spesa sanitaria risultano livelli di spesa per abitante, corrente e per investimenti, mediamente più contenuti nelle regioni meridionali. A fronte di una media nazionale di 2.140 euro, la spesa corrente più bassa si registra in Calabria (1.748 euro), Campania (1.818 euro), Basilicata (1.941 euro) e Puglia (1.978 euro).

Per la parte di spesa in conto capitale, i valori più bassi si ravvisano in Campania (18 euro), Lazio (24 euro) e Calabria (27 euro). Il dato nazionale si attesta su una media di 41 euro.

Il monitoraggio LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) fa emergere i deludenti risultati del Sud. Nell’ambito della prevenzione oncologica, il ritardo è particolarmente evidente nei tassi di adesione ai programmi di screening, che riflettono anche le carenze di offerta dei SSR meridionali. Ecco spiegata la “fuga” dal Sud per ricevere assistenza in strutture sanitarie del Centro e del Nord, soprattutto per le patologie più gravi.

Nel 2022, dei 629 mila migranti sanitari (volume di ricoveri), il 44% era residente in una regione del Mezzogiorno.

Per le patologie oncologiche, è la Calabria a registrare l’incidenza più elevata di migrazioni: il 43% dei pazienti si rivolge a strutture sanitarie di Regioni non confinanti. Seguono Basilicata (25%) e Sicilia (16,5%).

Al Sud, i servizi di prevenzione e cura sono più carenti, minore la spesa pubblica sanitaria, più lunghe le distanze da percorrere per ricevere assistenza.

L’autonomia differenziata in ambito sanitario rischia di ampliare le disuguaglianze interregionali nelle condizioni di accesso al diritto alla salute.

La spesa sanitaria italiana nel confronto europeo

Dopo l’emergenza Covid-19, l’Italia torna a disinvestire in sanità. La spesa pubblica destinata ai servizi sanitari espressa in rapporto al PIL è una buona approssimazione dell’intensità dell’intervento pubblico in sanità, pur presentando il limite di non fornire indicazioni sulla qualità dell’offerta.

Tra il 2010 e il 2019, in Italia la quota di PIL destinata alla spesa sanitaria pubblica corrente è stata in media del 6,6%, in linea con Spagna (6,5%) e Portogallo (6,7%), superiore alla Grecia (5,1%), ma sensibilmente inferiore a Regno Unito (11,4%), Germania (9,4%) e Francia (8,9%). 

L’Italia è l’unica tra le grandi economie europee con un dato negativo: tra il 2010 e il 2019, le risorse pubbliche in termini reali allocate alla salute di ogni cittadino sono diminuite di oltre il 2%, in controtendenza rispetto a Spagna (+9%), Portogallo (+15%), Regno Unito (+27%), Francia (+32%) e Germania (+38%).

Le necessità di rafforzamento della sanità italiana per far fronte all’emergenza da Covid-19 hanno interrotto questa lunga fase di disinvestimento pubblico. In percentuale del PIL, il primo anno di pandemia ha visto un aumento generalizzato della spesa sanitaria in Europa, ma relativamente meno accentuato in Italia e Grecia: +0,9 e + 0,8 punti percentuali, contro +1 di Francia, Germania e Portogallo, + 1,4 di Spagna e +2,2 di Regno Unito.

Il settore pubblico rappresenta il principale soggetto erogatore dei servizi di cura e assistenza nelle economie europee. La finalità è quella di favorire l’equità orizzontale, garantendo a tutti i cittadini parità di accesso ai servizi di cura a parità di bisogni, indipendentemente da residenza, capacità contributiva e altre condizioni socio-economiche. Un aspetto rilevante che distingue il SSN italiano nel contesto europeo, d’altra parte, è il contributo relativamente maggiore dei privati al finanziamento della spesa, sotto forma di schemi assicurativi volontari e spesa out-of-pocket (ticket e pagamenti diretti).

In Italia, nel 2022 la spesa pubblica rappresentava il 76% della spesa sanitaria complessiva, a fronte dell’82, 85 e 87% di Regno Unito, Francia e Germania.

Nello stesso anno, dunque, in Italia la componente privata contribuiva per una quota quasi doppia rispetto agli altri paesi: poco meno di 1 euro su 4 della spesa sanitaria italiana è un costo sostenuto dai cittadini. In Italia la componente privata di spesa è aumentata dal 22 al 24% dal 2010 al 2022. Nello stesso periodo, in Germania si è ridotta dal 24 al 15%, in Francia dal 17 al 13%.

Il contributo dei privati al finanziamento della spesa sanitaria è aumentato in concomitanza alla riduzione delle risorse pubbliche allocate alla salute. Perciò, la spesa privata è andata sostituendosi alla spesa pubblica anziché aggiungersi, indebolendo le finalità di equità del SSN.

Un recente studio sui differenziali territoriali nella mortalità infantile ha evidenziato come il fenomeno, più intenso nelle aree meridionali e più frequente per bambini con cittadinanza straniera, sia fortemente correlato alle condizioni socio-economiche delle madri (basso reddito, lavoro povero, nutrimento inadeguato). Sull’ampliamento dei divari Nord-Sud negli outcome sanitari (mortalità evitabile; capacità di ospedalizzazione) ha inciso anche la graduale riduzione della spesa dei SSR del Mezzogiorno sottoposti a Piano di rientro . 

La spesa sanitaria nelle regioni italiane

Il bilancio della sanità italiana non copre integralmente i LEA. Il bilancio complessivo della sanità nazionale viene definito ex ante nel quadro della programmazione pubblica annuale, e si esaurisce quasi per intero nel finanziamento “indistinto” da allocare ai diversi SSR. Il finanziamento dovrebbe essere commisurato ai fabbisogni di copertura dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), ossia delle prestazioni e dei servizi che il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini, nel rispetto del principio di equità orizzontale, in base al quale ciascun cittadino dovrebbe ricevere il medesimo livello e qualità di cure e di servizi sanitari indipendentemente dal luogo in cui risiede.

Lo stanziamento viene però determinato a monte nel rispetto dei vincoli di bilancio pubblico e, pertanto, non corrisponde alla somma del costo dei LEA. Questi, di conseguenza, sono finanziati solo parzialmente. La successiva assegnazione delle risorse alle Regioni si basa su criteri demografici.

Circa il 60% delle risorse è allocato proporzionalmente alla popolazione residente, riconoscendo a ciascuna Regione lo stesso ammontare pro capite (quota capitaria secca). Per il restante 40%, l’ammontare pro capite assegnato alle Regioni è differenziato per età (quota capitaria pesata), con pesi che riflettono i consumi sanitari per le diverse classi di età, maggiori per la fascia neo-natale (0-1 anni) e per gli anziani (over 65), minori per le classi centrali.

Di conseguenza, l’ammontare delle risorse assegnate a ciascuna Regione aumenta al crescere della popolazione residente (effetto popolazione) e dell’incidenza sulla popolazione residente dei neonati e degli anziani (effetto età). Correggere il metodo di riparto regionale del finanziamento della sanità sulla base degli indicatori di deprivazione rafforzerebbe le finalità di equità del SSN.

Come discusso nel Rapporto SVIMEZ 2023, il riparto regionale delle risorse per la sanità, escludendo dai criteri di allocazione i fattori socio-economici che impattano sui fabbisogni di cura e assistenza, penalizza i cittadini delle regioni del Mezzogiorno . La presa in conto di fattori socio-economici nei criteri di riparto renderebbe la distribuzione del finanziamento nazionale tra SSR più coerente con le finalità di equità orizzontale del SSN. Solo dal riparto regionale delle risorse del SSN stanziate per il 2023 si è tenuto conto di alcuni criteri socio-economici, applicati, tuttavia, a una quota marginale del finanziamento indistinto (l’1,5%): il tasso di mortalità degli under 75 e un indicatore socio-economico composito che include, con medesimo peso, tre dimensioni (l’incidenza della povertà relativa individuale, la bassa scolarizzazione e il tasso di disoccupazione).

Dall’introduzione di questi nuovi criteri è seguita una redistribuzione di risorse da Nord a Sud con una perdita massima in Lombardia (-0.06%, pari a 71 milioni di euro) e un incremento massimo in Campania (+0,07%, pari a 87 milioni di euro).

Le dinamiche demografiche avverse penalizzeranno il Mezzogiorno.

Se non interverranno modifiche nell’attuale metodo di riparto, oltre a incidere sulla quota di risorse complessivamente allocate al SSN, le dinamiche demografiche previste in Italia per i prossimi decenni (calo demografico e invecchiamento della popolazione) avranno ricadute significative sull’allocazione regionale delle risorse, penalizzando ulteriormente il Mezzogiorno. Il calo demografico al 2080 investirà l’intero Paese (-13 milioni di residenti), ma sarà soprattutto il Sud a perdere popolazione: circa -40%, il doppio della caduta del Centro, quattro volte il calo del Nord. Cambierà anche la composizione per età della popolazione.

Sarà significativo l’invecchiamento della popolazione, con intensità però più pronunciata nelle regioni meridionali: la popolazione con più di 75 anni aumenterà al Sud di quasi il 13%, 6 punti percentuali in più rispetto al Nord, 4 rispetto al Centro.

La redistribuzione a favore dei SSR del Centro e del Nord sarà via via più accentuata. Già nel prossimo decennio, la redistribuzione favorirà il Nord Italia. Gran parte della riallocazione riconducibile alle dinamiche demografiche si produrrà per l’effetto popolazione, in calo soprattutto al Sud. L’effetto popolazione sarà solo in minima parte controbilanciato dall’effetto età. Gli andamenti demografici di lungo periodo accentueranno ulteriormente la redistribuzione delle risorse a favore delle regioni del Nord.

Si stima che, nel riparto 2080, il Nord guadagnerà 6,7 punti percentuali del finanziamento, il Centro registrerà una sostanziale stabilità (+0,3 punti percentuali), mentre il Mezzogiorno subirà una riduzione di 7 punti percentuali delle risorse. Su base regionale, la Lombardia incrementerà le risorse di 3,6 punti, seguita dall’Emilia-Romagna (+1,5 punti) e dal Veneto (+0,9 punti).

Nel Mezzogiorno la riduzione delle risorse si accentuerà in tutte le regioni, e in particolare in Sicilia e Campania (rispettivamente –1,7 e –1,6 punti), seguite dalla Puglia (–1,4 punti).

In sintesi, a criteri di riparto invariati, le differenze nella dinamica delle popolazioni regionali determineranno una redistribuzione dal Mezzogiorno al Nord di ben 7 punti percentuali nel 2080, che equivalgono a circa 9 miliardi di euro, con il Centro che manterrà sostanzialmente invariata la propria posizione relativa. La spesa sanitaria pubblica per cittadino è più bassa al Sud. 

La qualità dei SSR

I livelli di assistenza sono più carenti e i servizi sanitari di minore qualità nel Mezzogiorno. L’ultimo monitoraggio predisposto dal Ministero della Salute per il 2021 evidenzia che, con l’eccezione di Puglia, Abruzzo e Basilicata, le regioni del Mezzogiorno sono inadempienti nel garantire l’erogazione dei LEA, vale a dire che in almeno uno dei tre ambiti di assistenza (prevenzione, distrettuale e ospedaliera) non raggiungono il punteggio minimo (60 su una scala tra 0 e 100).

Anche secondo il Rapporto 2023 del CREA Sanità, le performance sono molto eterogenee tra SSR, e particolarmente insoddisfacenti per il Sud. 

Differenze anche più ampie si registrano per la soddisfazione degli utenti per gli accertamenti specialistici: 79% al Nord, 72% al Centro e 66% nel Mezzogiorno. Scende al 64% la percentuale di pazienti meridionali soddisfatti dell’ultimo ricovero ospedaliero, mentre nel Centro e al Nord il valore si attesta rispettivamente a 68 e 78%. La qualità dell’assistenza infermieristico ospedaliera è valutata come molto soddisfacente da 4 italiani su 10, ma anche in questo caso i livelli di soddisfazione sono più bassi al Sud.

Nell’ambito della prevenzione oncologica, i divari sanitari sono particolarmente marcati: la scarsa adesione al Sud riflette anche le carenze di offerta. Gli screening oncologici gratuiti a scopo preventivo sono fondamentali per scongiurare l’insorgenza dei tumori poiché forniscono diagnosi precoci che evitano il ricorso a interventi invasivi e riducono la mortalità oncologica. Recependo le direttive internazionali, dal 2007, l’Italia ha adottato il Piano nazionale della prevenzione (PNR) al quale tutti i SSR sono tenuti ad aderire presentando i propri piani regionali in sede d’intesa Stato-Regioni. Ma anche in questo ambito, capacità di offerta e tassi di adesione alle campagne di prevenzione sono sistematicamente più bassi nel Mezzogiorno, specialmente nel caso degli screening mammografici (controlli a cadenza biennale particolarmente raccomandati per le donne tra i 50 e i 69 anni, per le quali il tumore al seno rappresenta la più diffusa patologia oncologica).

Il caso calabrese è emblematico della debolezza dei SSR del Mezzogiorno, caratterizzati da bassa intensità dell’intervento pubblico in sanità e deludenti livelli di servizi di prevenzione e cura di qualità. Al Sud, più che nel resto del Paese, alla strutturale sottodotazione di risorse si associano maggiori difficoltà di adempiere ai LEA. In tal senso, è utile ribadire che la mancata copertura finanziaria integrale dei LEA è una questione nazionale, che impatta, per i limiti dei criteri di riparto del fondo nazionale, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno. Hanno inciso anche le misure di risanamento finanziario dei Piani di rientro, che hanno consentito di “efficientare” la spesa sanitaria e recuperare i disavanzi ma a scapito di un peggioramento complessivo nell’offerta di assistenza territoriale e ospedaliera, con effetti negativi tangibili sulla popolazione come l’incremento della mortalità e l’intensificazione delle migrazioni sanitarie.

Mobilità sanitaria interregionale: la cartina al tornasole dei divari tra SSR

La mobilità sanitaria interregionale riflette le disparità tra SSR nella quantità e qualità di offerta assistenziale. La “fuga” dal Sud si è ormai cronicizzata, a testimonianza della persistenza delle difficoltà dei SSR meridionali a raggiungere standard assistenziali soddisfacenti. Viceversa, la presenza di centri di eccellenza per patologie specifiche (come gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere scientifico pediatrici) e, più in generale, di un’assistenza sanitaria ritenuta qualitativamente migliore dai cittadini, determina la forte capacità attrattiva delle strutture sanitarie del Centro e del Nord. La dimensione del fenomeno può essere desunta dai saldi finanziari della mobilità. Da un punto di vista finanziario, la mobilità sanitaria interregionale viene distinta in mobilità attiva (una voce di credito nel bilancio regionale per la Regione che attrae pazienti da altre Regioni) e mobilità passiva (una voce di debito per la Regione i cui residenti ricevono cure da altri SSR).

Un recente Report della Corte dei Conti ha documentato che nel decennio 2010-2019, tredici Regioni, principalmente del Centro-Sud, hanno accumulato un saldo negativo pari a 14 miliardi di euro, mentre i primi quattro posti per saldo positivo sono occupati da Lombardia (6,18 miliardi di euro), Emilia-Romagna (3,35 miliardi), Toscana (1,34 miliardi) e Veneto (1,14 miliardi).

Al contrario, le cinque Regioni con saldi negativi superiori a 1 miliardo sono tutte al Centro-Sud: Campania (-2,94 miliardi), Calabria (-2,71 miliardi), Lazio (-2,19 miliardi), Sicilia (-2 miliardi) e Puglia (-1,84 miliardi).

Con le distanze da percorrere per ricevere le cure crescono costi e disagi sociali delle migrazioni sanitarie, particolarmente onerosi per le famiglie meno abbienti, soprattutto per la mobilità legata a patologie gravi.

Conclusioni

Contrariamente a quanto previsto dalla normativa in materia di determinazione di costi e fabbisogni standard nel settore sanitario, il finanziamento del Sistema Sanitario Nazionale non è la somma del costo dei LEA, ma è determinato a monte nella programmazione del bilancio pubblico, come è inevitabile per i vincoli di bilancio.

Un problema strutturale, quello di un adeguato finanziamento della sanità italiana, di difficile soluzione per le esigenze di finanza pubblica legate agli obiettivi stabiliti dal nuovo Patto di Stabilità europeo, ma che non può prescindere dalla necessità di incrementare gli stanziamenti di spesa per la sanità a livello nazionale.

 

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